L’Iran
ha definito “sterili” le sanzioni che, lunedì 24 giugno, Donald Trump
ha decretato contro il paese e la sua Guida Suprema: Ali Khamenei.
È
chiaro che il braccio di ferro tra l’attuale amministrazione americana e
la Repubblica Islamica, per le sue premesse e ripercussioni, assume una
valenza geo-politica globale.
Il centro della questione per gli States
rimane il depotenziamento dell’Iran come attore regionale ed un
indebolimento della “Mezza Luna sciita” in un arco geografico che va
dall’Iraq allo Yemen, passando per il Libano e la Siria, dove agiscono
forze ostili agli USA ed i suoi alleati nell’area (le petro-monarchie
del Golfo e Israele).
Che tale strategia si articoli tra l’invito a riprendere il dialogo – a condizioni vantaggiose per gli States
– alternate a sanzioni e reiterate minacce militari da parte
dell’amministrazione Trump, poco importa: gli USA devono determinare un
piano politico in “Medio-Oriente” che, oltre alle sopracitate ragioni,
comprenda anche l’annichilimento delle istanze storiche del popolo
palestinese, come dimostra la Conferenza di Manama in Bahrein del 25-26
giugno.
Ma
le varie forme che sta assumendo la guerra contro l’Iran sono specchio
di un altro scontro sullo scacchiere globale. “Colpire l’Iran” vuol dire
anche colpire Russia e Cina, nel loro più importante alleato d’area in
un momento di inasprimento avanzato dello scontro inter-imperialistico.
L’Iran sa di essere una pezzo importante della “proiezione di potenza” di un blocco geo-economico in fieri…
L’Iran
ha iniziato ad “alzare l’asticella” annunciando la sua volontà di
sganciarsi dagli impegni nucleari sottoscritti nel luglio 2015,
stracciati dall’amministrazione Trump nel maggio dell’anno scorso, dopo
che il “trattato di Vienna” era stato considerato uno dei capolavori
diplomatici dell’ex presidente Obama (trattato cui, non a caso, Arabia
Saudita e Israele erano ostili), con l’annullamento delle sanzioni
avvenuto molti mesi dopo la firma dell’accordo e che testimoniano un
impegno sincero della Repubblica Islamica nel mantenimento di
quell’accordo diplomatico, su cui una parte dell’establishment politico
iraniano si è giocato una grossa fetta della propria credibilità.
L’intervista di Le Monde
al ministro degli affari esteri saudita, Abdel Al-Jubeira, chiarisce
bene come dietro l’ostilità al trattato si nasconda la volontà di
azzerare il ruolo di potenza regionale dell’Iran: “Tutti
hanno applaudito la scelta di Donald Trump di ritirarsene. Noi vogliamo
degli atti, non delle parole. Abbiamo discusso quasi quarant’anni con
l’Iran e questo non ci ha portato da nessuna parte.”
Tradotto: che taccia la diplomazia e che parlino le armi.
Con
la sua determinazione l’Iran ha voluto lanciare ora un chiaro messaggio
sia nei confronti dell’opinione pubblica interna, sia dei suoi alleati
nell’area, sia verso
la UE che non è stata ancora in grado di affrontare adeguatamente –
come aveva affermato – le sanzioni extra-territoriali tese a colpire
chiunque commerci con la Repubblica Islamica, “attendismo” a cui l’Iran
ha dato come dead-line il 7 luglio.
L’UE
sembra avere rinunciato alla partita senza nemmeno davvero scendere in
campo e, dopo il caso delle sanzioni alla Russia, non sembra brillare di
grande coraggio politico quando si tratta di fronteggiare Washington:
l’atlantismo dopo tutto è davvero l’ultimo rifugio dei nani politici del
Vecchio Continente…
Questo è un primo punto: le sanzioni nord-americane annunciate dopo il ritiro unilaterale dal trattato sono una “proxy war”
economica che colpisce certamente Teheran – che secondo alcune stime
avrebbe ridotto le esportazioni petrolifere di 300.000 barili al giorno,
come riporta Le Monde – ma anche l’UE, e gli altri paesi che commerciano con la Repubblica Islamica.
All’interno
del bilanciamento di potenza del mondo multipolare l’Iran pensa di
riuscire a inscrivere la propria azione mantenendo la tensione,
rischiosa ma calcolata, nei confronti dei suoi alleati (Russia e Cina in
primis), dei suoi avversari storici (USA, Israele e petro-monarchie del
Golfo) e di chi finora è stato in mezzo al guado, come la UE, giocando
con il tempo e parlando probabilmente anche all’elettorato “a stelle e
strisce”.
Le riserve della banca centrale iraniana, stimate in 110 miliardi di dollari, di cui poco della metà cash,
permettono almeno due anni di importazioni di Stato – malgrado le
sanzioni – e la distribuzione di beni di prima necessità ai più poveri.
Questo in un contesto in cui, dopo il recente storico accordo
russo-cinese e l’accelerazione di un asse “asiatico” in grado di
competere con USA e UE, si apre la strada per un ipotesi alternativa
alla strategia atlantica e allo “sganciamento” dalla subordinazione agli
States di differenti attori, per quanto questi ultimi mostrino i
muscoli.
Giocare
con il tempo, per Teheran, vuol anche dire poter aspettare chi sarà il
prossimo inquilino della Casa Bianca nel 2020, lasciando maturare le
contraddizioni – non poche – che deve gestire l’establishment
di una potenza declinante, che vede approfondirsi la polarizzazione
sociale al suo interno e l’emergere di una ipotesi politica (guidata da
Bernie Sanders) che si è spesa frontalmente contro i venti di guerra
all’Iran e che concorrerà alle primarie del Partito Democratico in vista
delle presidenziali.
Una
strategia di logoramento, quindi, per far cuocere gli Stati Uniti nel
loro brodo, spronare la UE ad una scelta, capire la copertura reale dei
suoi alleati, allineare parte di un vasto mondo che oppone una strenua
resistenza ai piani di Washington, delle petro-monarchie del Golfo e di
Israele.
Teheran gioca la sua partita da influencer, si potrebbe dire.
I sogni di “regime chance” a Teheran prima dell’anniversario della Rivoluzione Iraniana del ‘79, rimarranno probabilmente appunto “sogni”, e la volontà revanchista
dei falchi dell’amministrazione Trump – Bolton e Pompeo in primis -,
resterà lettera morta, a meno che non vinca l’opzione dei novelli “Doctor Strangelove”, con l’innesco di un spirale militare dagli esiti incerti.
Finora, la ricerca – o meglio la “costruzione” – del casus belli, una
delle specialità nord-americane da più di un secolo, non ha portato gli
effetti desiderati: a favore della tesi statunitense riguardo alla
responsabilità iraniana agli attacchi di diverse navi, da metà maggio,
si sono espresse solo l’Arabia Saudita, la Gran Bretagna e più
discretamente la Germania (ma non la Francia).
Il
12 maggio, quattro petroliere erano state danneggiate da atti di
“sabotaggio”, mentre il 13 giugno due petroliere, sempre nel Golfo di
Oman (il tratto di mare che bagna Iran, Oman e Emirati Arabi Uniti)
hanno richiesto aiuto.
L’ONU ha condannato questo lunedì gli attacchi, ma senza indicare i colpevoli; una sconfitta diplomatica a tutti gli effetti.
Questi episodi sono stati la premessa che ha portato ad una escalation della
tensione prima dell’abbattimento, il 20 giugno, del drone spia
statunitense di tipo “MQ9”, rivendicato dall’Iran in quanto l’UAV
avrebbe violato (nonostante gli avvertimenti) lo spazio aereo della
Repubblica Islamica. Dopo che un caso simile – ha dichiarato Teheran,
domenica 23 giugno – era avvenuto il 26 maggio.
Venerdì
scorso, Donald Trump aveva candidamente affermato di aver fermato
l’attacco nord-americano (che avrebbe preso di mira radar e sistemi
missilistici iraniani) “dieci minuti prima”
del suo ipotetico inizio, probabilmente riportato a più miti consigli
da un più saggio calcolo costi/benefici attuato dalle alte sfere del
Pentagono.
Una
reazione lungo tutta la “Mezza Luna Sciita”, a cominciare dall’Iraq
dove la presenza militare statunitense è ancora copiosa, non si sarebbe
certo fatta attendere ed un flop, sul modello del mancato colpo di stato
in Venezuela, non avrebbe certo giovato alla credibilità di The Orange Man.
Domenica
il Consigliere alla Sicurezza Nazionale John Bolton, prima di un
incontro a Gerusalemme con il primo ministro israeliano Natanyahou, ha
tuonato: “né l’Iran né nessun altro settore ostile non devono confondere la prudenza adoperata dagli Stati Uniti con la debolezza”.
Gli
Stati Uniti stanno “giocando con il fuoco”, ma rischiano di rimanere
“con il cerino in mano”, anche se forzano continuamente l’orizzonte.
Un
ruolo non secondario deve giocarla sin da ora quella che venne chiamata
nel 2003 “la seconda potenza mondiale” da un giornale statunitense
prima dell’aggressione all’Iraq: il movimento contro la guerra.
Da
allora, il mondo ed i rapporti di forza sono mutati ed ora “la
super-potenza” di allora è una bestia ferita, quindi non meno – ma più –
pericolosa.
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