Abbiamo
atteso qualche giorno prima di affrontare il “dilemma Libra”, la
cryptomoneta che Facebook si appresta a lanciare usando, come centrale,
una signorile palazzina di Ginevra.
Come
per tutte le vere novità, quelle che cambiano significativamente la
struttura del mondo entro cui viviamo, la prima tentazione e di ridurre l’ignoto al noto.
Ovvero di affrontare il nuovo problema come se in realtà fosse uno
vecchio, appena mascherato sotto altre vesti. Rischiando dunque di venir
spiazzati concettualmente e quindi ridotti all’impotenza pratica.
Da un primo esame, in effetti, la Libra di Zuckerberg non è né una moneta classica (coniata e garantita da una banca centrale), né una cryptomoneta “classica” (anche se può far ridere, per una forma del capitale che ha appena qualche anno di vita).
Delle
seconde condivide la tecnologia basata su blockchain, ma non il
software Open source; i nodi di scambio sono soltanto 28 e non
potenzialmente infiniti, come per Bitcoin e altre cryptocurrency.
Ma
le differenze più vistose sono sul piano economico-finanziario. Mentre
le crypto basano la “fiducia” su un numero fisso di “monete” emesse, con
tanto di scadenza temporale, la galassia Zuckerberg (Facebook,
Whatsapp, Twitter) potrà “stamparne” di nuove, secondo strategie messe a
punto dai suoi creatori-gestori. Come una normale banca centrale di un qualsiasi Stato (che ovviamente Facebook non è…).
Ma
come si fa a fidarsi del fatto che una certa cryptomoneta manterrà il
suo valore anche se aumenterà il numero degli “esemplari” in
circolazione (il fenomeno che altrove viene chiamato inflazione)?
Semplice: con i soldi ricavati dalla vendita di Libra verranno
acquistati asset normalmente presenti sul mercato. Principalmente
Buoni del Tesoro statunitense. Una moneta garantita da beni mobili o
immobili, insomma (e questo la fa anche somigliare un po’ a un
“prodotto derivato”, come quelli alla base del ciclopico crack del
2008).
Questo rende Libra più vicina a una “normale” moneta classica, in particolare a quella chiamata dollaro.
Un
ibrido molto ben tollerato dalla Federal Reserve statunitense, infatti,
proprio perché non ne tocca affatto il potere, ma anzi promette di
estendere l’area di influenza del dollaro proprio mentre quote crescenti
del mondo provano a a sganciarsene (Cina, Iran, Russia, Venezuela e
tantissimi altri paesi).
Altrettanto,
però, non si può dire delle altre banche centrali (che battono moneta
diversa dal dollaro) e soprattutto le normali banche private, in primo
luogo quelle commerciali, che hanno come business la raccolta di
risparmio privato e i prestiti a imprese e famiglie.
Gli
oltre due miliardi di utenti/clienti di Facebook, infatti, sono diffusi
in tutto il pianeta, vivono usando altre monete per la loro vita
quotidiana (sia per acquistare che per vendere, o ricevere un salario).
Poter usare la crypto di Fb per i loro acquisti – o magari anche per la
domiciliazione dello stipendio, se qualche azienda vorrà farlo – implica
di fatto una dollarizzazione strisciante del commercio globale, fuori da ogni regola o trattato internazionale.
L’esatto
opposto di quella “fine dello Stato” che alcuni commentatori
“democratici” ed “europeisti” hanno intravisto nel lancio di Libra. O
meglio: è il tentativo di rilancio di uno Stato (gli Usa), attraverso
una delle multinazionali più pervasive nate sul suo territorio (e
sottoposte alla sua legislazione). E, come obbiettivo, la morte di tutti
gli altri. O almeno di quelli che non dispongono né di piattaforme
social, né di cryptomonete.
L’elemento
di forza di Libra, infatti, non sta nella tecnologia monetaria (quella è
facilmente replicabile già da molti privati, figuriamoci da Stati di un
certo livello), ma nella diffusione delle piattaforme social.
Non
paradossalmente, Russia e Cina stanno relativamente più tranquilli,
visto che dispongono sia di piattaforme molto frequentate (le russe VK
come social network, Telegram per la messaggistica, una crypto chiamata
Ton; e le cinesi Alibaba per l’e-commerce, per non dire di Huawei
attualmente l’unica tecnologia 5G pronta per il varo, la crypto
Binance).
E’
invece l’Unione Europea a fare la parte del coccio tra i vasi
d’acciaio, “grazie” a una trama di trattati così “austeri” da aver
bloccato gli investimenti per l’innovazione (era più facile far soldi
comprimendo i salari o delocalizzando la produzione, che non
“inventando” qualcosa di nuovo), al punto che oggi non c’è una
sola società in gara per il 5G (solo la svedese Ericsson, ma in forte
ritardo), nessun social network, nessuna piattaforma di e-commerce
almeno lontanamente paragonabile alla statunitense Amazon o alla cinese
Alibaba, nessun autonomo servizio di messaggistica, ecc.
Ovvero
nessuna delle infrastrutture materiali e comunicative su cui far girare
elettronicamente moneta, crypto o classica che sia.
Libra
assume insomma, come obbiettivo, quello della sostituzione delle banche
centrali (quelle non Usa, ovvio) e delle banche private di mezzo mondo.
Lo fa insieme al governo degli Stati Uniti, oltre che ai principali
attori della finanza – o altre piattaforme – con passaporto Usa (Visa,
Masterard, Paypal, Uber, ecc).
Lungi
dall’esautorare il dollaro, dunque, Libra vuol diventare la sua
“proiezione di potenza” in Rete. Ossia, potenzialmente, dovunque.
Un imperialismo in crisi non di egemonia non si arrende senza combattere e quindi rilanciare la sfida.
Non per caso, Libra era anche il nome della moneta immaginaria di Carlo Magno, per regnare sui resti del Sacro Romano Impero.
Ah, le novità, quante sorprese nascondono…
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