Prima avvertenza ai nostri lettori: questa non è una crisi di governo, ma una crisi di sistema. Che naturalmente investe anche il governo, ma non nasce da lì e anzi ne determina l’evoluzione. E anche la soluzione.
Partiamo con la cronaca, che già conoscete per sommi capi sotto il bombardamento delle tv.
Il presidente del consiglio Giuseppe Conte, dopo settimane alle corde sotto i colpi congiunti e opposti di Lega e Cinque Stelle, ha dato il suo penultimatum:
“Non mi presto a vivacchiare, a galleggiare. E sono pronto a rimettere il mio mandato nelle mani del presidente della Repubblica. Alle forze politiche chiedo una risposta chiara e rapida“.
A prima vista sembra soltanto un richiamo ai suoi due presunti vice – in realtà gli azionisti vero dell’esecutivo che lui formalmente dirige – anche grazie ai riferimenti quasi espliciti alle modalità con cui avviene quotidianamente la rissa: “Il mio motto è sobri nelle parole e operosi nelle azioni. Ma se continuiamo nelle provocazioni per mezzo di veline quotidiane, nelle freddure a mezzo social, non possiamo lavorare. I perenni costanti conflitti comunicativi pregiudicano la concentrazione sul lavoro“. E certo si riferiva a Salvini ammonendo “Nessun ministro prevalichi le sfere che gli competono“.
Il voto per le europee ha decisamente rovesciato i rapporti di forza interni, rispetto al 4 marzo 2018. E consente al leghista di pretendere di dettare l’agenda, in modo provocatorio nei toni e nei temi. Pretendere infatti la sospensione per due anni del “codice degli appalti” – con tutte le farraginose procedure, spesso scritte malissimo e fonte di continui rinvii da parte delle amministrazioni pubbliche che devono dare il via a gare e lavori – significa aprire il portone alle aziende in odor di mafia e alle assegnazioni di lavori senza gara, per “amici degli amici” e corruttori di ogni genere.
Può sorprendere che a spianare la strada alle mafie sia un ministro dell’interno, ma Salvini veste questa divisa solo quando gli conviene (contro rom, migranti, antifascisti, opposizione politica vera).
Anche l’altro elemento di scontro immediato – il “decreto crescita” – punta a smontare altri bacini di consenso ai Cinque Stelle, comprendendo il via ai cantieri di molte grandi opere, tra cui la Tav in Valsusa (per cui è stato messo già a gara mezzo miliardo per le sole “opere di cantiere”).
Ma il cuore degli equilibri che sono saltati sta ancora una volta nei rapporti con l’Unione Europea, i suoi vincoli, i suoi trattati, le sue pressioni.
Conte ne ha fatto cenno quasi esplicitamente, ricordando che per evitare procedure d’infrazione da parte dell’Unione europea “serve coesione”, perché “Una procedura ci farebbe molto male“.
Il che va ad impattare direttamente sulla struttura della manovra finanziaria da disegnare con la prossima legge di stabilità: “La prossima manovra dovrà mantenere un equilibrio dei conti perché le regole europee rimangono in vigore finché non riusciremo a cambiarle“.
Come avevamo spiegato subito, al momento della formazione del “tre governi in uno”, le sparate elettorali convergenti dei due azionisti elettorali hanno dovuto fare presto i conti con i limiti imposti da una gabbia impossibile da rompere con le sole chiacchiere, senza disporre di “piani B” al tempo stesso economici e geopolitici.
Con la legge di stabilità 2019 si era visto che le velleità “redistributive” (“quota 100” e reddito di cittadinanza) dovevano essere molto ridimensionate all’atto pratico, fino a risultare quasi impercettibili. Con la prossima, si sa già che – a regole immutate – qualcuno dovrà intestarsi una manovra più sangue che lacrime. Molto poco “popolare”, in termini di consensi.
Il verro leghista, abituato agli scontri di giornata, ha voluto ricordare che “Il voto europeo è stato molto significativo, anche sui vincoli europei. I parametri Ue non sono la Bibbia“. E certamente non lo sono, come sanno bene i nostri lettori.
Ma la speranza di avere, dopo le elezioni europee, un “fronte populista e nazionalista” quasi maggioritario a Strasburgo è risultata assolutamente infondata. Non che un’eventuale maggioranza “sovranista” avrebbe addolcito parametri e trattati (certe maggioranza si accordano facilmente soltanto sul rifiuto di immigrati scuri di pelle – la Polonia, per esempio, ha un milione e mezzo di ucraini rinchiusi in autentici campi di lavoro, anche se sbraita solo contro quelli “negri”).
Ma i risultati che hanno visto sgonfiarsi la “grosse koalition” tra popolari e socialdemocratici hanno fatto emergere però altre due formazioni assolutamente “europeiste” come liberali e verdi.
Dunque un eventuale governo monocolore guidato da Salvini (ma con i voti di chi, senza passare per nuove elezioni?) abbaierebbe alla luna e dovrebbe fare, in condizioni peggiori (lo spread già viaggia intorno ai 300 punti), quel che la Commissione Europea impone.
In effetti, dal suo punto di vista, meglio far saltare tutto, sbarrare la strada soltanto a chiacchiere a un probabilissimo “governo tecnico” e cercare di capitalizzare altri consensi di qui a…
A quando? Per cinque anni questo equilibrio politico europeo non sarà modificabile. I trattati cambieranno, certamente, perché sono manifestamente poco funzionali – per usare un eufemismo – “alla crescita”. Ma il tono e la direzione li daranno Francia e Germania, sempre più interconnesse dopo il trattato di Aquisgrana, non certo l’Italietta leghista.
E qui conviene ricordare la definizione iniziale: questa è una crisi di sistema, per questo paese. Non è soltanto il sistema politico ad essere impazzito dietro la quotidiana caccia al consenso facile. E’ il mondo delle imprese a esser privo di visione alta, strategica, di lungo periodo. La Fiat-Fca si vuol vendere a Renault (che ha lo Stato francese come azionista di controllo!), i colossi del lusso hanno già quasi tutti preso la stessa strada; quel che resta di grandi imprese (Eni, Enel, Finmeccanica, Fincantieri, ecc) regge solo grazie al fatto di essere aziende sostanzialmente pubbliche.
La magistratura ha smesso da tempo di recitare – solo recitare, sia chiaro – la parte della “salvatrice della patria”. Il caso Palamara-Lotti-ecc mostra in piena luce un intreccio di rapporti e di dipendenze tra magistrati e “politica”, con grande partecipazione di faccendieri, professionisti e “imprenditori”, che solo le interconnessioni massoniche possono forse spiegare.
Come abbiamo detto qualche volta, non è il vecchio fascismo quello che bussa alle porte. Con tutta la sua infamia, infatti, il regime del Ventennio traeva forza da una necessità oggettiva – la modernizzazione di un paese che doveva passare da agricolo a industriale – e declinava in modo reazionario e dittatoriale un’esigenza che altrove veniva soddisfatta in senso keynesiano (New Deal roosevetiano) o addirittura rivoluzionario (l’industrializzazione sovietica).
Qui c’è invece da gestire un declino senza fine, con il guinzaglio “europeo” al collo della popolazione, mentre imprenditori e possidenti vendono, delocalizzano, fuggono, seguiti da centinaia di migliaia di giovani con ogni livello di formazione.
Andrà trovato un altro termine, ma può diventare assai più mortifero del fascismo storico. Per ora, diciamolo, è certamente più pezzente…
Partiamo con la cronaca, che già conoscete per sommi capi sotto il bombardamento delle tv.
Il presidente del consiglio Giuseppe Conte, dopo settimane alle corde sotto i colpi congiunti e opposti di Lega e Cinque Stelle, ha dato il suo penultimatum:
“Non mi presto a vivacchiare, a galleggiare. E sono pronto a rimettere il mio mandato nelle mani del presidente della Repubblica. Alle forze politiche chiedo una risposta chiara e rapida“.
A prima vista sembra soltanto un richiamo ai suoi due presunti vice – in realtà gli azionisti vero dell’esecutivo che lui formalmente dirige – anche grazie ai riferimenti quasi espliciti alle modalità con cui avviene quotidianamente la rissa: “Il mio motto è sobri nelle parole e operosi nelle azioni. Ma se continuiamo nelle provocazioni per mezzo di veline quotidiane, nelle freddure a mezzo social, non possiamo lavorare. I perenni costanti conflitti comunicativi pregiudicano la concentrazione sul lavoro“. E certo si riferiva a Salvini ammonendo “Nessun ministro prevalichi le sfere che gli competono“.
Il voto per le europee ha decisamente rovesciato i rapporti di forza interni, rispetto al 4 marzo 2018. E consente al leghista di pretendere di dettare l’agenda, in modo provocatorio nei toni e nei temi. Pretendere infatti la sospensione per due anni del “codice degli appalti” – con tutte le farraginose procedure, spesso scritte malissimo e fonte di continui rinvii da parte delle amministrazioni pubbliche che devono dare il via a gare e lavori – significa aprire il portone alle aziende in odor di mafia e alle assegnazioni di lavori senza gara, per “amici degli amici” e corruttori di ogni genere.
Può sorprendere che a spianare la strada alle mafie sia un ministro dell’interno, ma Salvini veste questa divisa solo quando gli conviene (contro rom, migranti, antifascisti, opposizione politica vera).
Anche l’altro elemento di scontro immediato – il “decreto crescita” – punta a smontare altri bacini di consenso ai Cinque Stelle, comprendendo il via ai cantieri di molte grandi opere, tra cui la Tav in Valsusa (per cui è stato messo già a gara mezzo miliardo per le sole “opere di cantiere”).
Ma il cuore degli equilibri che sono saltati sta ancora una volta nei rapporti con l’Unione Europea, i suoi vincoli, i suoi trattati, le sue pressioni.
Conte ne ha fatto cenno quasi esplicitamente, ricordando che per evitare procedure d’infrazione da parte dell’Unione europea “serve coesione”, perché “Una procedura ci farebbe molto male“.
Il che va ad impattare direttamente sulla struttura della manovra finanziaria da disegnare con la prossima legge di stabilità: “La prossima manovra dovrà mantenere un equilibrio dei conti perché le regole europee rimangono in vigore finché non riusciremo a cambiarle“.
Come avevamo spiegato subito, al momento della formazione del “tre governi in uno”, le sparate elettorali convergenti dei due azionisti elettorali hanno dovuto fare presto i conti con i limiti imposti da una gabbia impossibile da rompere con le sole chiacchiere, senza disporre di “piani B” al tempo stesso economici e geopolitici.
Con la legge di stabilità 2019 si era visto che le velleità “redistributive” (“quota 100” e reddito di cittadinanza) dovevano essere molto ridimensionate all’atto pratico, fino a risultare quasi impercettibili. Con la prossima, si sa già che – a regole immutate – qualcuno dovrà intestarsi una manovra più sangue che lacrime. Molto poco “popolare”, in termini di consensi.
Il verro leghista, abituato agli scontri di giornata, ha voluto ricordare che “Il voto europeo è stato molto significativo, anche sui vincoli europei. I parametri Ue non sono la Bibbia“. E certamente non lo sono, come sanno bene i nostri lettori.
Ma la speranza di avere, dopo le elezioni europee, un “fronte populista e nazionalista” quasi maggioritario a Strasburgo è risultata assolutamente infondata. Non che un’eventuale maggioranza “sovranista” avrebbe addolcito parametri e trattati (certe maggioranza si accordano facilmente soltanto sul rifiuto di immigrati scuri di pelle – la Polonia, per esempio, ha un milione e mezzo di ucraini rinchiusi in autentici campi di lavoro, anche se sbraita solo contro quelli “negri”).
Ma i risultati che hanno visto sgonfiarsi la “grosse koalition” tra popolari e socialdemocratici hanno fatto emergere però altre due formazioni assolutamente “europeiste” come liberali e verdi.
Dunque un eventuale governo monocolore guidato da Salvini (ma con i voti di chi, senza passare per nuove elezioni?) abbaierebbe alla luna e dovrebbe fare, in condizioni peggiori (lo spread già viaggia intorno ai 300 punti), quel che la Commissione Europea impone.
In effetti, dal suo punto di vista, meglio far saltare tutto, sbarrare la strada soltanto a chiacchiere a un probabilissimo “governo tecnico” e cercare di capitalizzare altri consensi di qui a…
A quando? Per cinque anni questo equilibrio politico europeo non sarà modificabile. I trattati cambieranno, certamente, perché sono manifestamente poco funzionali – per usare un eufemismo – “alla crescita”. Ma il tono e la direzione li daranno Francia e Germania, sempre più interconnesse dopo il trattato di Aquisgrana, non certo l’Italietta leghista.
E qui conviene ricordare la definizione iniziale: questa è una crisi di sistema, per questo paese. Non è soltanto il sistema politico ad essere impazzito dietro la quotidiana caccia al consenso facile. E’ il mondo delle imprese a esser privo di visione alta, strategica, di lungo periodo. La Fiat-Fca si vuol vendere a Renault (che ha lo Stato francese come azionista di controllo!), i colossi del lusso hanno già quasi tutti preso la stessa strada; quel che resta di grandi imprese (Eni, Enel, Finmeccanica, Fincantieri, ecc) regge solo grazie al fatto di essere aziende sostanzialmente pubbliche.
La magistratura ha smesso da tempo di recitare – solo recitare, sia chiaro – la parte della “salvatrice della patria”. Il caso Palamara-Lotti-ecc mostra in piena luce un intreccio di rapporti e di dipendenze tra magistrati e “politica”, con grande partecipazione di faccendieri, professionisti e “imprenditori”, che solo le interconnessioni massoniche possono forse spiegare.
Come abbiamo detto qualche volta, non è il vecchio fascismo quello che bussa alle porte. Con tutta la sua infamia, infatti, il regime del Ventennio traeva forza da una necessità oggettiva – la modernizzazione di un paese che doveva passare da agricolo a industriale – e declinava in modo reazionario e dittatoriale un’esigenza che altrove veniva soddisfatta in senso keynesiano (New Deal roosevetiano) o addirittura rivoluzionario (l’industrializzazione sovietica).
Qui c’è invece da gestire un declino senza fine, con il guinzaglio “europeo” al collo della popolazione, mentre imprenditori e possidenti vendono, delocalizzano, fuggono, seguiti da centinaia di migliaia di giovani con ogni livello di formazione.
Andrà trovato un altro termine, ma può diventare assai più mortifero del fascismo storico. Per ora, diciamolo, è certamente più pezzente…
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