Il
primo comandamento, se si vuol capire qualcosa di quel che accade nella
“politica” – e soprattutto nella geopolitica internazionale – è lasciar
perdere le dichiarazioni dei politici. Non perché siano completamente
insignificanti, ma non in genere menzogna e propaganda. Dicono molto
della disinvoltura e sfrontatezza dei singoli, quasi nulla su quel che
matura in pentola.
Figuriamoci
poi quando bisogna occuparsi di “leader” che vanno negli States e non
trovano di meglio che farsi un selfie da Washington, strepitando di
essere sulla “scalinata di Rocky” (un film, mica una battaglia storica),
che tutti sanno trovarsi a… Philadelphia.
Sia
chiaro: se Salvini è andato negli Usa ci sono ragioni importanti, ma
non sono quelle che dice perché i giornalari ci sguazzino come girini
nella pozzanghera.
Meglio
dunque guardare chi l’ha ricevuto: Mike Pompeo, segretario di Stato,
ossia il ministro degli esteri. E c’è in effetti una logica evidente nel
fatto che il ministro degli esteri della superpotenza fin qui dominante
riceva un vice-presidente del consiglio e ministro di polizia di un
paese facente parte da oltre 70 anni dell’inner circle degli
alleati più servili. Un esponente del comando imperiale che istruisce un
aspirante vicerè locale, volenteroso ma pasticcione (pensate che diceva
di “di sentirsi a casa sua”… a Mosca!).
I
punti su cui Pompeo avrebbe preteso l’assenso assoluto, ovviamente
ottenendolo, sono tutti dossier di politica internazionale che,
istituzionalmente, non sarebbero nella disponibilità di Salvini:
rapporti con la Cina, l’Iran, la Corea del Nord, il riconoscimento del
fantoccio Juan Guaidò (a proposito: che fine ha fato?) come presidente
del Venezuela, la Russia d Putin (con annesso problema ucraino).
Problemi grossi, mica barconi da affondare o navi umanitarie da
cacciare…
Sul
“prendere” gli yankee sono maestri, nel dare molto meno. Le
assicurazioni che il leghista è andato a cercare a Washington riguardano
soprattutto la possibilità che gli Usa tornino ad essere una “spalla”
cui appoggiarsi se – come sembra inevitabile – le trattative con
l’Unione Europea su manovra, patto di stabilità e procedura di
infrazione dovessero prendere una piega negativa. Senza un appoggio
statunitense, hanno pensato i Soloni della Lega, “i mercati”
difficilmente sarebbero clementi con l’Italia.
Una classica illusione da parvenu,
che pensano che la Casa Bianca sia in grado di dominare “i mercati”
proprio come hanno dominato, fino a qualche anno fa, il mondo tornato
unipolare. Lo spiega benissimo IlSole24Ore, organo di Confindustria: “i grandi fondi [di investimento, ndr] si muovono secondo logiche di convenienza, e se il rischio Italia diventa troppo alto non c’è politica che tenga”.
Nelle
stesse ore, il presidente del consiglio Giuseppe Conte e alcuni
esponenti grillini presenziavano a Milano alla serata di gala
organizzata dalla Fondazione Italia-Cina, che metteva sul tavolo il
rapporto «Cina 2019. Scenari e prospettive per le imprese».
Un
evento fortemente sponsorizzato anche da Confindustria, o perlomeno da
una parte importante delle aziende associate (Bombassei, il patron della
Brembo), che sentono la musica dei profitti più o meno facili che
potrebbero fare se andrà in porto – è proprio il caso di dirlo – il
progetto di fare del “tridente” Trieste-Venezia-Genova il terminale
italiano della Via della Seta.
Se
ne parla poco, ma pochi mesi fa l’Italia ha firmato – con il presidente
Xi Jinping in visita ufficiale – un Memorandum of Understanding per la
collaborazione nel quadro della Belt and Road Initiative (BRI), comunemente detta Nuova Via della Seta.
La
quale offre diverse opportunità: crescita delle infrastrutture portuali
italiane (con l’indispensabile indotto fatto di aree di stoccaggio,
tangenziali, nuove connessioni autostradali, ecc), via preferenziale per
le imprese italiane in grado di collaborare ai “grandi progetti di
connettività” (con Huawei e simili), una presenza rafforzata per le
imprese italiane sul mercato cinese e nei Paesi aderenti alla BRI.
Visto
lo storico “coraggio” delle imprese nostrane, non dubitiamo che stiano
guardando con autentica frenesia soprattutto la prima opportunità
(infrastrutture, pagate dallo Stato e dai cinesi, ma realizzate da loro a
prezzi gonfiati nel tempo), e molto meno alle altre due.
Ma c’è un terzo evento rilevantissimo, in questi giorni, di cui i grandi media non si sono occupati affatto. Forse per paura.
Ieri a Londra, dopo 4 anni di preparazione, è stato aperto il programma Shanghai-London Stock Connect. Cosa implica? E’ “un’importante
manovra del mercato dei capitali cinese nella realizzazione
dell’apertura bidirezionale. Il programma favorirà lo sviluppo del
mercato di capitali sino-britannici. L’innovativa elaborazione del
sistema ha dimostrato a tutto il mondo la determinazione e l’azione
cinesi nell’espansione dell’apertura del proprio mercato dei capitali”.
In
pratica una ciclopica mazzata in faccia all’Unione Europea che meditava
– forzando la “non trattativa” sulla Brexit – di guadagnare lo
spostamento delle attività della City di Londra verso le borse di Parigi
e Francoforte.
Ma,
nello stesso tempo, una mazzata sui calli di Donald Trump che, aprendo
la guerra dei dazi con Pechino (e con la Ue, e persino con l’India),
sognava di risollevare la produzione manifatturiera made in Usa senza perdere nulla in termini di dominanza sulle piazze finanziarie.
Una
volta messo a punto, il programma Shanghai-London Stock Connect
permetterà l’afflusso di capitali finanziari cinesi verso la Gran
Bretagna e viceversa, smentendo così molte previsioni catastrofiche per
la “perfida Albione”.
Dettaglio non secondario, per capirne alcune delle implicazioni: il London Stock Exchange, ovvero la borsa britannica, è una società privata che controlla anche la Borsa di Milano.
Si viene così a realizzare – potenzialmente – una gigantesca
triangolazione Londra-Milano-Shangai che, sul piano finanziario, per
dimensione dei capitali circolanti, non avrebbe molto da invidiare a
Wall Street. Parigi e Francoforte, a quel punto, sarebbero a forte
rischio di Opa (offerta pubblica di acquisto, ossia incorporazione).
Partite
complesse, di portata colossale, che vedono i nostri “politici” come
nanerottoli in mezzo a giganti molto ben armati. E viene in mente
l’emergente Italia della prima metà del ‘900, sempre alla ricerca di
alleanze forti, sempre pronta a salire sul carro del vincitore. O di
quello che sembrava tale (do you remember la Germania di Hitler?).
Qui
vengono messi in evidenza solo alcuni dei principali assi di uno
scenario globale in fortissimo movimento. Un qualsiasi movimento
politico che voglia davvero cambiare il modello sociale e di vita, non
può fare a meno di capire in che “nuovo mondo” sta faticosamente
camminando.
Non
per “schierarsi” con un padrone o l’altro (questo lo fanno già
benissimo forze politiche presenti in Parlamento e le imprese italiane),
ma per poter decidere – con la nostra gente – “che fare”…
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