venerdì 28 giugno 2019

Sea Watch ancora davanti a Lampedusa. Domenica mobilitazione nei porti

Questa notte a Lampedusa sono arrivate autonomamente dal mare 10 persone tra cui una donna ed un bambino, e questa mattina davanti alla Chiesa di Lampedusa gli attivisti del Forum Lampedusa Solidale ( che dormono sulle scalinate in solidarietà con la Sea Watch ) hanno fatto colazione con alcuni ragazzi tunisini.
Morale della favola? Il blocco della Sea Watch è solo propaganda elettorale giocato sulla pelle degli innocenti.

In questo quadretto raccontatoci da Francesco Piobbichi, c’è gran parte della enorme contraddizione dimostrata dalla vicenda della nave Sea Watch 3 che ha deciso di forzare il blocco imposto dal governo italiano cercando di attraccare a Lampedusa con il suo dolente carico umano di migranti raccolti in mare.
La nave Sea Watch 3 ha trascorso la notte ormeggiata di fronte al porto di Lampedusa con a bordo 42 migranti salvati nel Canale di Sicilia due settimane fa.
A fronte della situazione creatasi, il solito Salvini non ha perso occasione per rilanciare la sua dottrina: “La legge prevede che bisogna essere autorizzati per poter attraccare, non possiamo far arrivare in Italia chiunque, le regole di un Paese sono una cosa seria. Le persone sulla Sea Watch non sono naufraghi, ma uomini e donne che pagano 3.000 dollari per andar via dal proprio Paese. Spero che nelle ultime ore ci sia un giudice che affermi che all’interno di quella nave ci sono dei fuorilegge, prima fra tutti la Capitana. Se la nave viene sequestrata e l’equipaggio arrestato io sono contento. Non permetto che siano Ong straniere a dettare le leggi sui confini nazionali di un Paese come l’Italia”. Poi con un tracimante senso del ridicolo ha affermato che: “In Italia stanno arrivando, in aereo, migliaia di migranti certificate che scappano dalla guerra”, a conferma che il Ministro degli interni e Vicepremier ha serissime difficoltà a capire come va il mondo reale e come funzionano le cose al di fuori della pianura Padana.
Su un dato occorre ammettere che il governo italiano si trova di fronte non solo all’emergenza sbarchi ma anche al “fuoco amico” che viene dai partner europei. Il 25 giugno scorso infatti, la Corte europea dei Diritti dell’uomo ha respinto la richiesta di misure provvisorie avanzata dalla capitana della nave Sea Watch 3 e da una quarantina di migranti presenti a bordo provenienti da Paesi dell’Africa occidentale e subsahariana. Invocando gli articoli 2 (diritto alla vita) e 3 (divieto di trattamenti inumani e degradanti) della Convenzione, i ricorrenti avevano chiesto alla Corte europea di invitare il Governo italiano ad autorizzare l’ingresso della nave nelle acque territoriali ed il successivo sbarco.
La posizione espressa dalla Corte, si è limitata a ritenere che la situazione a bordo della Sea Watch non fosse tale da creare un rischio di danni irreparabili per la salute delle persone. Ma non ha fatto alcun riferimento al contrasto all’immigrazione irregolare, né tanto meno all’attività di coloro che vengono talvolta definiti “aiutanti dei trafficanti”, e che anzi dal comunicato stampa risultano chiaramente individuati come soccorritori di naufraghi in pericolo di vita.
Pochi giorni fa la Commissaria per i Diritti umani Dunja Mikatovic aveva espressamente condannato le campagne denigratorie in corso nei confronti delle Ong impegnate nei soccorsi lungo la rotta del Mediterraneo centrale, l’avvio di indagini penali e la previsione di sanzioni amministrative suscettibili di ostacolarne l’attività, che mettono a rischio la vita di moltissime persone per mere esigenze di contenimento dei flussi migratori.
Una posizione, quella delle istituzioni europee, fortemente contraddittoria: lineare sui principi ma negativa sulle scelte concrete. Una posizione aggravata poi dalle decisioni unilaterali degli stati membri della Ue come la Germania che ha deciso di rispedire in Italia un migliaio di migranti che erano sbarcati in Italia, vi erano transitati e poi erano arrivati sul territorio tedesco dove volevano effettivamente andare. Insomma la perversione del Trattato di Dublino agisce ancora pesantemente e vergognosamente, soprattutto sui paesi europei mediterranei che sono di fatto la prima linea per l’arrivo degli sbarchi.
Sottovalutando forse un po’ troppo questo secondo aspetto e concentrando il fuoco di fila solo contro Salvini, stanno intanto crescendo iniziative di protesta nel paese contro. In molti casi spontanee e all’insegna di quel “restiamo umani” che sta diventando presupposto e dirimente, in altre, come nel caso della calata dei parlamentari del Pd a Lampedusa, del tutto strumentali.
Per domenica prossima in diverse città portuali si stanno organizzando manifestazioni contro la chiusura dei porti. Intorno a questo obiettivo è nata la campagna “Occupy ports” che si è attivata per mettere in comunicazione le varie iniziative. In un comunicato “Occupy Ports” spiega che non sarà un cartello con egemonie o gerarchie ma “una massa critica, l’equipaggio di terra delle ong che nel Mediterraneo salvano vite umane. Su quelle navi vorremmo esserci tutti ma non ci possono contenere e allora noi saremo l’equipaggio di terra pronti a dare battaglia nei porti quando bloccano le navi cariche di umanità. Iniziamo il 30 giugno alle 10.00 nei porti, senza alcun preavviso autorizzazione occuperemo i porti ogni volta sarà necessario per costringere ad aprirli a chi scappa dalle barbarie”.

giovedì 27 giugno 2019

Libra, il Sacro Roma Impero al tempo di Facebook

Abbiamo atteso qualche giorno prima di affrontare il “dilemma Libra”, la cryptomoneta che Facebook si appresta a lanciare usando, come centrale, una signorile palazzina di Ginevra.
Come per tutte le vere novità, quelle che cambiano significativamente la struttura del mondo entro cui viviamo, la prima tentazione e di ridurre l’ignoto al noto. Ovvero di affrontare il nuovo problema come se in realtà fosse uno vecchio, appena mascherato sotto altre vesti. Rischiando dunque di venir spiazzati concettualmente e quindi ridotti all’impotenza pratica.
Da un primo esame, in effetti, la Libra di Zuckerberg non è né una moneta classica (coniata e garantita da una banca centrale), né una cryptomoneta “classica” (anche se può far ridere, per una forma del capitale che ha appena qualche anno di vita).
Delle seconde condivide la tecnologia basata su blockchain, ma non il software Open source; i nodi di scambio sono soltanto 28 e non potenzialmente infiniti, come per Bitcoin e altre cryptocurrency.
Ma le differenze più vistose sono sul piano economico-finanziario. Mentre le crypto basano la “fiducia” su un numero fisso di “monete” emesse, con tanto di scadenza temporale, la galassia Zuckerberg (Facebook, Whatsapp, Twitter) potrà “stamparne” di nuove, secondo strategie messe a punto dai suoi creatori-gestori. Come una normale banca centrale di un qualsiasi Stato (che ovviamente Facebook non è…).
Ma come si fa a fidarsi del fatto che una certa cryptomoneta manterrà il suo valore anche se aumenterà il numero degli “esemplari” in circolazione (il fenomeno che altrove viene chiamato inflazione)? Semplice: con i soldi ricavati dalla vendita di Libra verranno acquistati asset normalmente presenti sul mercato. Principalmente Buoni del Tesoro statunitense. Una moneta garantita da beni mobili o immobili, insomma (e questo la fa anche somigliare un po’  a un “prodotto derivato”, come quelli alla base del ciclopico crack del 2008).
Questo rende Libra  più vicina a una “normale” moneta classica, in particolare a quella chiamata dollaro.
Un ibrido molto ben tollerato dalla Federal Reserve statunitense, infatti, proprio perché non ne tocca affatto il potere, ma anzi promette di estendere l’area di influenza del dollaro proprio mentre quote crescenti del mondo provano a a sganciarsene (Cina, Iran, Russia, Venezuela e tantissimi altri paesi).
Altrettanto, però, non si può dire delle altre banche centrali (che battono moneta diversa dal dollaro) e soprattutto le normali banche private, in primo luogo quelle commerciali, che hanno come business la raccolta di risparmio privato e i prestiti a imprese e famiglie.
Gli oltre due miliardi di utenti/clienti di Facebook, infatti, sono diffusi in tutto il pianeta, vivono usando altre monete per la loro vita quotidiana (sia per acquistare che per vendere, o ricevere un salario). Poter usare la crypto di Fb per i loro acquisti – o magari anche per la domiciliazione dello stipendio, se qualche azienda vorrà farlo – implica di fatto una dollarizzazione strisciante del commercio globale, fuori da ogni regola o trattato internazionale.
L’esatto opposto di quella “fine dello Stato” che alcuni commentatori “democratici” ed “europeisti” hanno intravisto nel lancio di Libra. O meglio: è il tentativo di rilancio di uno Stato (gli Usa), attraverso una delle multinazionali più pervasive nate sul suo territorio (e sottoposte alla sua legislazione). E, come obbiettivo, la morte di tutti gli altri. O almeno di quelli che non dispongono né di piattaforme social, né di cryptomonete.
L’elemento di forza di Libra, infatti, non sta nella tecnologia monetaria (quella è facilmente replicabile già da molti privati, figuriamoci da Stati di un certo livello), ma nella diffusione delle piattaforme social.
Non paradossalmente, Russia e Cina stanno relativamente più tranquilli, visto che dispongono sia di piattaforme molto frequentate (le russe VK come social network, Telegram per la messaggistica, una crypto chiamata Ton; e le cinesi Alibaba per l’e-commerce, per non dire di Huawei attualmente l’unica tecnologia 5G pronta per il varo, la crypto Binance).
E’ invece l’Unione Europea a fare la parte del coccio tra i vasi d’acciaio, “grazie” a una trama di trattati così “austeri” da aver bloccato gli investimenti per l’innovazione (era più facile far soldi comprimendo i salari o delocalizzando la produzione, che non “inventando” qualcosa di nuovo), al punto che oggi non c’è una sola società in gara per il 5G (solo la svedese Ericsson, ma in forte ritardo), nessun social network, nessuna piattaforma di e-commerce almeno lontanamente paragonabile alla statunitense Amazon o alla cinese Alibaba, nessun autonomo servizio di messaggistica, ecc.
Ovvero nessuna delle infrastrutture materiali e comunicative su cui far girare elettronicamente moneta, crypto o classica che sia.
Libra assume insomma, come obbiettivo, quello della sostituzione delle banche centrali (quelle non Usa, ovvio) e delle banche private di mezzo mondo. Lo fa insieme al governo degli Stati Uniti, oltre che ai principali attori della finanza – o altre piattaforme – con passaporto Usa (Visa, Masterard, Paypal, Uber, ecc).
Lungi dall’esautorare il dollaro, dunque, Libra vuol diventare la sua “proiezione di potenza” in Rete. Ossia, potenzialmente, dovunque.
Un imperialismo in crisi non di egemonia non si arrende senza combattere e quindi rilanciare la sfida.
Non per caso, Libra era anche il nome della moneta immaginaria di Carlo Magno, per regnare sui resti del Sacro Romano Impero.
Ah, le novità, quante sorprese nascondono…

mercoledì 26 giugno 2019

Usa-Iran, si alza la posta in gioco

L’Iran ha definito “sterili” le sanzioni che, lunedì 24 giugno, Donald Trump ha decretato contro il paese e la sua Guida Suprema: Ali Khamenei.
È chiaro che il braccio di ferro tra l’attuale amministrazione americana e la Repubblica Islamica, per le sue premesse e ripercussioni, assume una valenza geo-politica globale.
Il centro della questione per gli States rimane il depotenziamento dell’Iran come attore regionale ed un indebolimento della “Mezza Luna sciita” in un arco geografico che va dall’Iraq allo Yemen, passando per il Libano e la Siria, dove agiscono forze ostili agli USA ed i suoi alleati nell’area (le petro-monarchie del Golfo e Israele).
Che tale strategia si articoli tra l’invito a riprendere il dialogo – a condizioni vantaggiose per gli States – alternate a sanzioni e reiterate minacce militari da parte dell’amministrazione Trump, poco importa: gli USA devono determinare un piano politico in “Medio-Oriente” che, oltre alle sopracitate ragioni, comprenda anche l’annichilimento delle istanze storiche del popolo palestinese, come dimostra la Conferenza di Manama in Bahrein del 25-26 giugno.
Ma le varie forme che sta assumendo la guerra contro l’Iran sono specchio di un altro scontro sullo scacchiere globale. “Colpire l’Iran” vuol dire anche colpire Russia e Cina, nel loro più importante alleato d’area in un momento di inasprimento avanzato dello scontro inter-imperialistico.
L’Iran sa di essere una pezzo importante della “proiezione di potenza” di un blocco geo-economico in fieri…
L’Iran ha iniziato ad “alzare l’asticella” annunciando la sua volontà di sganciarsi dagli impegni nucleari sottoscritti nel luglio 2015, stracciati dall’amministrazione Trump nel maggio dell’anno scorso, dopo che il “trattato di Vienna” era stato considerato uno dei capolavori diplomatici dell’ex presidente Obama (trattato cui, non a caso, Arabia Saudita e Israele erano ostili), con l’annullamento delle sanzioni avvenuto molti mesi dopo la firma dell’accordo e che testimoniano un impegno sincero della Repubblica Islamica nel mantenimento di quell’accordo diplomatico, su cui una parte dell’establishment politico iraniano si è giocato una grossa fetta della propria credibilità.
L’intervista di Le Monde al ministro degli affari esteri saudita, Abdel Al-Jubeira,  chiarisce bene come dietro l’ostilità al trattato si nasconda la volontà di azzerare il ruolo di potenza regionale dell’Iran: “Tutti hanno applaudito la scelta di Donald Trump di ritirarsene. Noi vogliamo degli atti, non delle parole. Abbiamo discusso quasi quarant’anni con l’Iran e questo non ci ha portato da nessuna parte.”
Tradotto: che taccia la diplomazia e che parlino le armi.
Con la sua determinazione l’Iran ha voluto lanciare ora un chiaro messaggio sia nei confronti dell’opinione pubblica interna, sia dei suoi alleati nell’area, sia verso la UE che non è stata ancora in grado di affrontare adeguatamente – come aveva affermato – le sanzioni extra-territoriali tese a colpire chiunque commerci con la Repubblica Islamica, “attendismo” a cui l’Iran ha dato come dead-line il 7 luglio.
L’UE sembra avere rinunciato alla partita senza nemmeno davvero scendere in campo e, dopo il caso delle sanzioni alla Russia, non sembra brillare di grande coraggio politico quando si tratta di fronteggiare Washington: l’atlantismo dopo tutto è davvero l’ultimo rifugio dei nani politici del Vecchio Continente…
Questo è un primo punto: le sanzioni nord-americane annunciate dopo il ritiro unilaterale dal trattato sono una “proxy war” economica che colpisce certamente Teheran – che secondo alcune stime avrebbe ridotto le esportazioni petrolifere di 300.000 barili al giorno, come riporta Le Monde – ma anche l’UE, e gli altri paesi che commerciano con la Repubblica Islamica.
All’interno del bilanciamento di potenza del mondo multipolare l’Iran pensa di riuscire a inscrivere la propria azione mantenendo la tensione, rischiosa ma calcolata, nei confronti dei suoi alleati (Russia e Cina in primis), dei suoi avversari storici (USA, Israele e petro-monarchie del Golfo) e di chi finora è stato in mezzo al guado, come la UE, giocando con il tempo e parlando probabilmente anche all’elettorato “a stelle e strisce”.
Le riserve della banca centrale iraniana, stimate in 110 miliardi di dollari, di cui poco della metà cash, permettono almeno due anni di importazioni di Stato – malgrado le sanzioni – e la distribuzione di beni di prima necessità ai più poveri. Questo in un contesto in cui, dopo il recente storico accordo russo-cinese e l’accelerazione di un asse “asiatico” in grado di competere con USA e UE, si apre la strada per un ipotesi alternativa alla strategia atlantica e allo “sganciamento” dalla subordinazione agli States di differenti attori, per quanto questi ultimi mostrino i muscoli.
Giocare con il tempo, per Teheran, vuol anche dire poter aspettare chi sarà il prossimo inquilino della Casa Bianca nel 2020, lasciando maturare le contraddizioni – non poche – che deve gestire l’establishment di una potenza declinante, che vede approfondirsi la polarizzazione sociale al suo interno e l’emergere di una ipotesi politica (guidata da Bernie Sanders) che si è spesa frontalmente contro i venti di guerra all’Iran e che concorrerà alle primarie del Partito Democratico in vista delle presidenziali.
Una strategia di logoramento, quindi, per far cuocere gli Stati Uniti nel loro brodo, spronare la UE ad una scelta, capire la copertura reale dei suoi alleati, allineare parte di un vasto mondo che oppone una strenua resistenza ai piani di Washington, delle petro-monarchie del Golfo e di Israele.
Teheran gioca la sua partita da influencer, si potrebbe dire.
I sogni di “regime chance” a Teheran prima dell’anniversario della Rivoluzione Iraniana del ‘79, rimarranno probabilmente appunto “sogni”, e la volontà revanchista dei falchi dell’amministrazione Trump – Bolton e Pompeo in primis -, resterà lettera morta, a meno che non vinca l’opzione dei novelli “Doctor Strangelove”, con l’innesco di un spirale militare dagli esiti incerti.
Finora, la ricerca – o meglio la “costruzione” – del casus belli, una delle specialità nord-americane da più di un secolo, non ha portato gli effetti desiderati: a favore della tesi statunitense riguardo alla responsabilità iraniana agli attacchi di diverse navi, da metà maggio, si sono espresse solo l’Arabia Saudita, la Gran Bretagna e più discretamente la Germania (ma non la Francia).
Il 12 maggio, quattro petroliere erano state danneggiate da atti di “sabotaggio”, mentre il 13 giugno due petroliere, sempre nel Golfo di Oman (il tratto di mare che bagna Iran, Oman e Emirati Arabi Uniti) hanno richiesto aiuto.
L’ONU ha condannato questo lunedì gli attacchi, ma senza indicare i colpevoli; una sconfitta diplomatica a tutti gli effetti.
Questi episodi sono stati la premessa che ha portato ad una escalation della tensione prima dell’abbattimento, il 20 giugno, del drone spia statunitense di tipo “MQ9”, rivendicato dall’Iran in quanto l’UAV avrebbe violato (nonostante gli avvertimenti) lo spazio aereo della Repubblica Islamica. Dopo che un caso simile – ha dichiarato Teheran, domenica 23 giugno – era avvenuto il 26 maggio.
Venerdì scorso, Donald Trump aveva candidamente affermato di aver fermato l’attacco nord-americano (che avrebbe preso di mira radar e sistemi missilistici iraniani) “dieci minuti prima” del suo ipotetico inizio, probabilmente riportato a più miti consigli da un più saggio calcolo costi/benefici attuato dalle alte sfere del Pentagono.
Una reazione lungo tutta la “Mezza Luna Sciita”, a cominciare dall’Iraq dove la presenza militare statunitense è ancora copiosa, non si sarebbe certo fatta attendere ed un flop, sul modello del mancato colpo di stato in Venezuela, non avrebbe certo giovato alla credibilità di The Orange Man.
Domenica il Consigliere alla Sicurezza Nazionale John Bolton, prima di un incontro a Gerusalemme con il primo ministro israeliano Natanyahou, ha tuonato: “né l’Iran né nessun altro settore ostile non devono confondere la prudenza adoperata dagli Stati Uniti con la debolezza”.
Gli Stati Uniti stanno “giocando con il fuoco”, ma rischiano di rimanere “con il cerino in mano”, anche se forzano continuamente l’orizzonte.
Un ruolo non secondario deve giocarla sin da ora quella che venne chiamata nel 2003 “la seconda potenza mondiale” da un giornale statunitense prima dell’aggressione all’Iraq: il movimento contro la guerra.
Da allora, il mondo ed i rapporti di forza sono mutati ed ora “la super-potenza” di allora è una bestia ferita, quindi non meno – ma più – pericolosa.

martedì 25 giugno 2019

Abbaiare legati al guinzaglio. Il caso Lega

Non date mai retta alle stronzate dei leghisti, a cominciare dal segretario-vicepremier-ministro. Sono esplicitamente armi di distrazione di massa. Il loro ciclo vitale dura mezza giornata, il empo di far fare un titolo a un giornale amico (tutti, anche quelli teoricamente “democratici” e “antipopulisti”).
L’unica validità che assumono è dovuta al loro variare. E, se si sta attenti, si capisce che – per esempio – quando “il capitano” (con la minuscola, mica è Totti, Zanetti o Lampard…) sbraita contro l’Unione Europea in realtà sta solo cercando di abbassare il costo della “manovra” che sarà costretto a votare per il prossimo anno (a meno di non far cadere questo governo e favorire l’avvento di un esecutivo “tecnico” su cui scaricare l’odio popolare).
Scriviamo “abbassare il costo” e non “alzare il prezzo”, perché ci sembra evidente che la Lega non abbia alcuna speranza di poter pesare sulle scelte della Ue, visto che “l’altra Europa con Salvini” è uscita spianata dalle elezioni del 26 maggio (tranne che in Italia, gli “alleati” veri o presunti, non hanno sfondato).
E se si guarda ad alcuni fari del pensiero della destra si vede che è proprio così. Già morti i “mini-Bot” del leghista Borghi, affossati pure dal vero boss economico lumbard, quel Giorgetti che aspira ad una poltrona da Commissario a Bruxelles.
Ma è tutta la strategia della destra becera ad essere oggi palesemente off topic. E i più intelligenti, quell’area, cercano di spigarglielo ogni giorno. Paolo Savona, per esempio, l’ex direttore di Confindustria che la Lega avrebbe voluto al ministero dell’economia (poi dirottato ai rapporti con la Ue e ora alla presidenza della Consob) ha usato un’intervista alMessaggero per dare il suo saggio consiglio: «Da entrambe le parti [Lega e Commissione Ue, ndr] si sta esagerando. D’altro canto, se in una situazione così delicata come quella italiana la Commissione minaccia di aprire la procedura di infrazione per mancato rispetto dei parametri di bilancio, è fatale che si generino reazioni politiche».
Ma sul fantomatico rischio di “uscita dall’euro” – un mantra “democratico” per spaventare i deboli di cuore e mente – il vecchio leone liberista non ha dubbi: «Non vedo nelle forze di governo atteggiamenti contro l’Europa né contro la necessità di rimanere nell’Eurozona. Sono stato ministro di questo governo, e le assicuro che c’è piena coscienza del fatto che il mercato comune è fondamentale per le nostre esportazioni e la tutela del risparmio».
Del resto la Lega è l’espressione politica della piccola e media impresa, sostituendo in questo ruolo i bollito Berlusconi e nel solco della mai morta Democrazia Cristiana… Quindi non può volere nulla che il suo vero “blocco sociale” non voglia. Il resto sono chiacchiere da bar, paccottiglia sulla bancarella dell’intrattenimento televisivo quotidiano, “quazza” per deficienti…
Tranquillizzati” gli interlocutori, Savona dà qualche consiglio anche a loro, mostrando così il funzionamento reale della “trappola” costituita dai trattati comunitari, nascosta dietro l’apparentemente neutra “procedura di infrazione per debito eccessivo”: «È la conseguenza di scelte miopi: l’Europa non dispone di un “lender of last resort”, il prestatore di ultima istanza in grado di neutralizzare gli eccessi speculativi. Le autorità che insistono sul taglio del nostro debito sanno bene che così facendo alimentano la speculazione. Anzi, sono convinto che usino scientemente i mercati come vincolo esterno per indurre gli Stati membri a rispettare le direttive. La cosa in sé non mi sconvolge, ma il suo uso presuppone l’esistenza di strumenti per frenare gli eccessi speculativi». Che non ci sono, però…
Usare i mercati come killer del “vincolo esterno” significa depredare un paese delle sue risorse, affamare i suoi poveri (lavoratori, pensionati, ecc), trasferire ricchezza verso i possidenti più ricchi (quelli che contribuiscono a creare una “posizione finanziaria netta con l’estero positiva”, visto che hanno esportato i loro capitali (come ricorda Savona: «Sono dati ufficiali. Anche per questo la Commissione Ue dovrebbe schierarsi al nostro fianco, aiutandoci a ripristinare la fiducia invece di tenerci sotto pressione o introdurre cambiamenti che penalizzano alcuni e favoriscono altri»).
Ma significa anche fa scendere il valore degli asset non trasferibili presenti sul territorio (fabbriche, immobili, filiere produttori di settori anche molto competitivi del made in Italy), in modo da facilitare acquisizioni, scalate, conquiste.
Un doppio disastro – sociale e produttivo – che sta facendo tornare questo paese una terra di scorrerie per bastardi “civilizzati”. Grazie alla UE, a Berlusconi, al Pd, al M5S e alla Lega (de minimis inutile dire…). Il ruolo della “politica”, da molti anni, è simile a quello dei cani legati a un guinzaglio, fra l’altro corto. Abbaiano molto, perché non hanno quasi nulla da mordere. Ossia da decidere…

giovedì 20 giugno 2019

Draghi e Trump, quel sottile venticello di guerra che soffia sul mondo

Stiamo assistendo ai primi passi di una vera guerra inter-imperialista, ma ancora pochi sono pronti a definirla tale. Per un motivo, in primo luogo: per capirlo bisogna prendere atto che “Europa” e Stati Uniti non sono più “una sola anima”, com’era stato dal ‘45 a ben oltre la caduta del Muro (1989).
Gli interessi strategici vanno divergendo, così come le dinamiche economiche, visto che con la “grande crisi” del 2008 è venuto improvvisamente meno il collante planetario della “globalizzazione” e hanno cominciato a formarsi quelle crepe che ora si solidificano anche alla superficie.
Sapete da tutti i tg che ieri l’altro Mario Draghi ha sostanzialmente annunciato una nuova fase di “stimoli monetari” a un’economia europea ansimante (a partire da quella tedesca). E che, con inusitata violenza verbale, Donald Trump ha definito questo annuncio – un annuncio! – come “concorrenza sleale”.
Sgombriamo il campo dal più consolidato degli equivoci: non è che gli Usa oggi abbiano una politica globale diversa, più “nazionalista e competitiva”, perché è arrivato quel volgare palazzinaro alla presidenza. Materialisticamente, è stata la crisi Usa ad arrivare ad un punto tale da sfociare, imprevedibilmente ma in modo sicuro, nel sollevamento di un personaggio del genere sulla poltrona politica più importante del mondo.
Draghi ha sostanzialmente ammesso che la fine del “quantitative easing” – acquisto di titoli di stato dei paesi membri della Ue, ma anche di obbligazioni societarie private, attivato inmodo massiccio dal 2015 fino a fine 2018 – è stata un errore. L’economia europea non riesce a stare in piedi senza quella droga monetaria aggiuntiva, al punto tale che neppure “stampando soldi” (espressione volgare, ma tutto sommato chiara) si riesce a riportare il tasso di inflazione al livello considerato fisiologico per un’economia in salute: il 2%.
Dunque agirà già “nelle prossime settimane” sul fronte dei tassi di interesse per passare poi agli acquisti di titoli. Inutile sta qui a speculare, come fanno i media mainstream, sul fatto che questa decisione, presa da un presidente uscente in autunno, in realtà è anche un modo di “pesare” sul prossimo board della Bce. Che di certo non potrebbe fare una “inversione ad U” rispetto a questa linea.
I fatti importanti nel discorso di Draghi sono infatti altri. L’economia non va, la Germania non investe (e potrebbe) e le politiche di bilancio impediscono che possano farlo i paesi con conti “in disordine”; al punto che pure un’inflazione più alta del 2% sarebbe ora vista dagli arcigni guardiani di Francoforte come un “male benefico” (questo significa quella strana frase di Draghi sul “perseguire l’obiettivo di un’inflazione vicina al 2% in modo simmetrico”. Ossia «Se dobbiamo ottenere questo valore di inflazione nel medio termine, l’inflazione dovrà salire sopra quel livello per qualche tempo in futuro».
Non è un dettaglio di poco conto, visto che lo statuto delle Bce – contrariamente a quello della Federal Reserve Usa – ha un solo obbiettivo: il mantenimento dell’inflazione intorno al 2%. E’ come ammettere il fallimento, sia dello statuto che delle politiche “non convenzionali” adottate per rispettare l’obbiettivo…
Altra cosa importante, gli strumenti in mano alla Bce sono piuttosto scarsi. Il “taglio dei tassi di interesse” su cui titolano i giornali è semplicemente impossibile, visto che in questo momento sono a zero. Abbassarli equivarrebbe a regalare denaro alle banche – gli unici “clienti” ammessi a chiedere prestiti dalla Bce – che potrebbero restituire meno di quel che prendono. Un controsenso, in regime capitalistico.
Un margine più ampio c’è per gli interessi sui depositi (la percentuale corrisposta alle banche che scelgono di lasciare fondi propri nelle casse della stessa Bce), che sono già ora negativi, -0,4%. Ossia le banche sono disposte ad una perdita certa, ovviamente minima, piuttosto che prestare soldi a famiglie e imprese…. In pratica, i tassi negativi sui depositi (da aumentare ancora) sono un disincentivo a lasciare fermo il denaro, uno stimolo a prestarlo (che sarebbe poi uno dei compiti tipici di una banca…) per risollevare in qualche modo la crescita.
Dunque, Draghi non può far altro che far partire al più presto gli acquisti di titoli di stato. Il che è già – basta la parola! – una mano santa per lo spread: se la Bce compra, allora il prezzo sale e il rendimento (il tasso di interesse) scende, come nei manuali.
In generale, una politica monetaria espansiva si traduce in un deprezzamento della moneta europea rispetto alle altre. Una classica svalutazione competitiva, identica a quelle praticate altrove o in altri tempi (per cui ancora adesso certi “fenomeni da talk show” criticano i governi ante-euro).
Trump ha colto subito questo elemento, dimenticando – come d’abitudine per qualsiasi statunitense – di aver aperto proprio lui, da pochissimo, una furibonda “guerra dei dazi” con Cina, India, Messico, Unione Europea, ecc. Ossia di aver fatto una svalutazione competitiva con altri mezzi (facendo salire artificialmente il prezzo delle merci straniere rispetto a quelle Usa).
Più preoccupante è il fatto che Draghi abbia scelto questa strada dopo aver studiato i dati sull’inflazione attesa per i prossimi dieci anni, all’interno della Ue. Piatta come un biliardo. Il che significa stagnazione economica, economia ferma.
Ma può un’economia capitalistica – orientata all’espansione senza limiti – tollerare un secondo decennio di crescita quasi zero? Certamente no, perché la coesione sociale è già ora ai minimi termini, i “populismi” impazzano e il rischio di una conflittualità ingovernabile (che non vuol dire “rivoluzionaria”)
Anche perché, dati del Pil a parte, la situazione strategica dell’Unione Europea sta diventando – per colpa delle politiche di austerità – insostenibile anche su altri fronti decisivi.
Un rapporto pubblicato un paio di mesi fa dal Defense Innovation Board (struttura di consiglieri indipendenti del Pentagono) spiega la rilevanza del G5, la nuova tecnologia di comunicazione mobile che supera di venti volte in velocità e portata i migliori sistemi esistenti. «Chi muove per primo guadagnerà miliardi di ricavi, accompagnati da una notevole creazione di posti e dalla leadership nell’innovazione tecnologica».
Interessante è il verdetto stilato: “la gerarchia fra i Paesi che si stanno avvicinando all’uso di queste frequenze” è ormai definita. Prima è la Cina, seguita dagli Stati Uniti. «Subito dietro» Corea del Sud e Giappone. Gran Bretagna, Germania e Francia (ossia la crème dell’Unione Europea) sono «seconda classe», paesi obbligati a scegliere tra le tecnologie della Cina o degli Stati Uniti. Praticamente questa battaglia è stata già persa…
Quando si invita tutti a “stringersi intorno all’Europa” , altrimenti “non si riesce a competere”, si è già entrati in un’ottica belligerante (che è “competizione con tutti i mezzi”).
E, come sempre, non si capisce proprio perché chi se la passa male in questo mondo dovrebbe preferire un padrone (o un imperialismo) al posto di un altro, invece di mandarli a quel paese tutti…

mercoledì 19 giugno 2019

Morsi muore in tribunale: Egitto in fiamme

Violenti scontri in Egitto per la morte improvvisa dell’ex presidente Morsi durante un’udienza in tribunale. Il generale Al Sisi, che lo destituì e arrestò con un colpo di Stato nel luglio 2013 sta rafforzando le misure di sicurezza, ma l’Egitto è in fiamme.
Il trattamento di Morsi in prigione non era certo dei più teneri – ammesso per assurdo che le prigioni egiziane siano mai state luoghi di espiazione delle colpe secondo i canoni del diritto umanitario – e già un comitato di avvocati aveva denunciato le condizioni di salute dell’ex presidente aggravate dal trattamento penitenziario.
Tutto questo fa del primo presidente egiziano eletto democraticamente un martire dei Fratelli Musulmani e il suo seguito, anche grazie alla durezza repressiva di Al Sisi, ha continuatato a considerarlo un eroe e a rimpiangerlo. La sua morte, quindi, in un’aula di tribunale in cui era chiamato più che a difendersi a sopportare le numerose accuse tra cui quelle, ben gradite a Israele, di cospirazione con Hamas in Palestina ed Hesbollah in Libano, farà nuovamente scoppiare l’Egitto dove, né Morsi né tanto meno Al Sisi hanno mai rappresentato modelli di tolleranza e di democrazia impostata sulla tutela dei diritti umani.
Un altro campione dei diritti umani, il presidente turco Erdogan, ha pubblicamente dichiarato Mohammad Morsi  un martire oltre che un fratello e questo equivale ad assestare un duro colpo ad Al Sisi che, a torto o a ragione, viene considerato il suo carnefice.
Ricordiamo che Morsi era stato presidente del partito Giustizia e Libertà fondato sull’onda della “rivoluzione” di piazza Tahrir e precedentemente era stato deputato al parlamento egiziano come esponente del movimento dei Fratelli Musulmani.Dopo aver ottenuto la vittoria elettorale ed aver assunto democraticamente il mandato presidenziale, Morsi aveva iniziato a lavorare sul suo progetto di “rinascita dell’Egitto” basato sull’applicazione dei principi basilari della “sharia”, la legge islamica.
Forse fu questo orientamento fondamentalista, contrastato dalla parte laica e comunque dalla parte meno integralista, che lo considerò un traditore per le modifiche alla Costituzione e per la durezza che accompagnava il suo integralismo religioso, ad aprire le porte al generale Al Sisi. Ma non va sottovalutato neanche il manifesto e profondo “non gradimento” di Morsi da parte di Israele, visti i suoi rapporti con Hamas e Hesbollah, nel segnare la sua fine.
Il generale Al Sisi, a sua volta, non brillò né tuttora brilla per metodi democratici e, dopo aver fatto arrestare tutti gli esponenti della Fratellanza musulmana, schiacciò brutalmente nel sangue ogni manifestazione di sostegno all’ex presidente, tanto che in pochi giorni si contarono migliaia di morti.
Ora sono in corso scontri violenti e si teme un altro bagno di sangue perché la morte di Morsi è considerata prossima ad un omicidio per le condizioni in cui era mantenuto come prigioniero.
La Fratellanza musulmana ha invitato a manifestare in tutto il mondo davanti alle ambasciate egiziane e ha chiesto agli egiziani di partecipare in massa ai suoi funerali. Le misure di sicurezza, lo sappiamo per esperienza, hanno puramente funzione repressiva e i metodi di Al Sisi non sono certo meno duri di quelli all’epoca contestati a Morsi.
Forse, incredibilmente e sperabilmente, il bagno di sangue che tutti gli osservatori si aspettano verrà mitigato da una scelta della Confederazione calcistica africana la quale, avendo tolto al Camerun la sede per il torneo della Coppa d’Africa ed avendola spostata in Egitto – perché considerato fino a ieri più sicuro – farà partire venerdì prossimo la prima sfida. Sarà un evento calcistico il momentaneo pacificatore di una situazione incandescente? Forse.
In altre regioni del mondo è già successo. Ma in altre regioni del mondo l’influenza israeliana e gli intrecci di alleanze e “disalleanze” tra paesi più o meno fratelli non erano confrontabili con l’Egitto, troppo vicino al Medio Oriente e ai suoi signori, locali e d’oltre oceano.

martedì 18 giugno 2019

La scialuppa tra le corazzate Usa-Ue-Cina

Il primo comandamento, se si vuol capire qualcosa di quel che accade nella “politica” – e soprattutto nella geopolitica internazionale – è lasciar perdere le dichiarazioni dei politici. Non perché siano completamente insignificanti, ma non in genere menzogna e propaganda. Dicono molto della disinvoltura e sfrontatezza dei singoli, quasi nulla su quel che matura in pentola.
Figuriamoci poi quando bisogna occuparsi di “leader” che vanno negli States e non trovano di meglio che farsi un selfie da Washington, strepitando di essere sulla “scalinata di Rocky” (un film, mica una battaglia storica), che tutti sanno trovarsi a… Philadelphia.
Sia chiaro: se Salvini è andato negli Usa ci sono ragioni importanti, ma non sono quelle che dice perché i giornalari ci sguazzino come girini nella pozzanghera.
Meglio dunque guardare chi l’ha ricevuto: Mike Pompeo, segretario di Stato, ossia il ministro degli esteri. E c’è in effetti una logica evidente nel fatto che il ministro degli esteri della superpotenza fin qui dominante riceva un vice-presidente del consiglio e ministro di polizia di un paese facente parte da oltre 70 anni dell’inner circle degli alleati più servili. Un esponente del comando imperiale che istruisce un aspirante vicerè locale, volenteroso ma pasticcione (pensate che diceva di “di sentirsi a casa sua”… a Mosca!).
I punti su cui Pompeo avrebbe preteso l’assenso assoluto, ovviamente ottenendolo, sono tutti dossier di politica internazionale che, istituzionalmente, non sarebbero nella disponibilità di Salvini: rapporti con la Cina, l’Iran, la Corea del Nord, il riconoscimento del fantoccio Juan Guaidò (a proposito: che fine ha fato?) come presidente del Venezuela, la Russia d Putin (con annesso problema ucraino). Problemi grossi, mica barconi da affondare o navi umanitarie da cacciare…
Sul “prendere” gli yankee sono maestri, nel dare molto meno. Le assicurazioni che il leghista è andato a cercare a Washington riguardano soprattutto la possibilità che gli Usa tornino ad essere una “spalla” cui appoggiarsi se – come sembra inevitabile – le trattative con l’Unione Europea su manovra, patto di stabilità e procedura di infrazione dovessero prendere una piega negativa. Senza un appoggio statunitense, hanno pensato i Soloni della Lega, “i mercati” difficilmente sarebbero clementi con l’Italia.
Una classica illusione da parvenu, che pensano che la Casa Bianca sia in grado di dominare “i mercati” proprio come hanno dominato, fino a qualche anno fa, il mondo tornato unipolare. Lo spiega benissimo IlSole24Ore, organo di Confindustria: “i grandi fondi [di investimento, ndr] si muovono secondo logiche di convenienza, e se il rischio Italia diventa troppo alto non c’è politica che tenga”.
Nelle stesse ore, il presidente del consiglio Giuseppe Conte e alcuni esponenti grillini presenziavano a Milano alla serata di gala organizzata dalla Fondazione Italia-Cina, che metteva sul tavolo il rapporto «Cina 2019. Scenari e prospettive per le imprese».
Un evento fortemente sponsorizzato anche da Confindustria, o perlomeno da una parte importante delle aziende associate (Bombassei, il patron della Brembo), che sentono la musica dei profitti più o meno facili che potrebbero fare se andrà in porto – è proprio il caso di dirlo – il progetto di fare del “tridente” Trieste-Venezia-Genova il terminale italiano della Via della Seta.
Se ne parla poco, ma pochi mesi fa l’Italia ha firmato – con il presidente Xi Jinping in visita ufficiale – un Memorandum of Understanding per la collaborazione nel quadro della Belt and Road Initiative (BRI), comunemente detta Nuova Via della Seta.
La quale offre diverse opportunità: crescita delle infrastrutture portuali italiane (con l’indispensabile indotto fatto di aree di stoccaggio, tangenziali, nuove connessioni autostradali, ecc), via preferenziale per le imprese italiane in grado di collaborare ai “grandi progetti di connettività” (con Huawei e simili), una presenza rafforzata per le imprese italiane sul mercato cinese e nei Paesi aderenti alla BRI.
Visto lo storico “coraggio” delle imprese nostrane, non dubitiamo che stiano guardando con autentica frenesia soprattutto la prima opportunità (infrastrutture, pagate dallo Stato e dai cinesi, ma realizzate da loro a prezzi gonfiati nel tempo), e molto meno alle altre due.
Ma c’è un terzo evento rilevantissimo, in questi giorni, di cui i grandi media non si sono occupati affatto. Forse per paura.
Ieri a Londra, dopo 4 anni di preparazione, è stato aperto il programma Shanghai-London Stock Connect. Cosa implica? E’ “un’importante manovra del mercato dei capitali cinese nella realizzazione dell’apertura bidirezionale. Il programma favorirà lo sviluppo del mercato di capitali sino-britannici. L’innovativa elaborazione del sistema ha dimostrato a tutto il mondo la determinazione e l’azione cinesi nell’espansione dell’apertura del proprio mercato dei capitali”.
In pratica una ciclopica mazzata in faccia all’Unione Europea che meditava – forzando la “non trattativa” sulla Brexit – di guadagnare lo spostamento delle attività della City di Londra verso le borse di Parigi e Francoforte.
Ma, nello stesso tempo, una mazzata sui calli di Donald Trump che, aprendo la guerra dei dazi con Pechino (e con la Ue, e persino con l’India), sognava di risollevare la produzione manifatturiera made in Usa senza perdere nulla in termini di dominanza sulle piazze finanziarie.
Una volta messo a punto, il programma Shanghai-London Stock Connect permetterà l’afflusso di capitali finanziari cinesi verso la Gran Bretagna e viceversa, smentendo così molte previsioni catastrofiche per la “perfida Albione”.
Dettaglio non secondario, per capirne alcune delle implicazioni: il London Stock Exchange, ovvero la borsa britannica, è una società privata che controlla anche la Borsa di Milano. Si viene così a realizzare – potenzialmente – una gigantesca triangolazione Londra-Milano-Shangai che, sul piano finanziario, per dimensione dei capitali circolanti, non avrebbe molto da invidiare a Wall Street. Parigi e Francoforte, a quel punto, sarebbero a forte rischio di Opa (offerta pubblica di acquisto, ossia incorporazione).
Partite complesse, di portata colossale, che vedono i nostri “politici” come nanerottoli in mezzo a giganti molto ben armati. E viene in mente l’emergente Italia della prima metà del ‘900, sempre alla ricerca di alleanze forti, sempre pronta a salire sul carro del vincitore. O di quello che sembrava tale (do you remember la Germania di Hitler?).
Qui vengono messi in evidenza solo alcuni dei principali assi di uno scenario globale in fortissimo movimento. Un qualsiasi movimento politico che voglia davvero cambiare il modello sociale e di vita, non può fare a meno di capire in che “nuovo mondo” sta faticosamente camminando.
Non per “schierarsi” con un padrone o l’altro (questo lo fanno già benissimo forze politiche presenti in Parlamento e le imprese italiane), ma per poter decidere – con la nostra gente – “che fare”…

lunedì 17 giugno 2019

Debito pubblico, l’acchiappafantasmi

Cosa hanno in comune Alberto Bagnai, Paolo Savona e Luis de Guindos Jurado? In generale sono tre apprezzati economisti, politicamente assolutamente non hanno nulla a che vedere l’uno con l’altro. I primi due, oltre a far parte della maggioranza o del governo gialloverde (Savona la lascito il posto di ministro per guidare la Consob), sono considerati degli euroscettici piuttosto decisi, il terzo è vicepresidente della Bce, e quindi parte integrante dell’establishment “europeista”.
E naturalmente nessuno dei tre riscuote le nostre simpatie.
Eppure nelle ultime 48 ore questi tre signori hanno detto tutti la stessa identica cosa su un punto decisivo che sia la “classe politica” (scusateci il termine) sia il sistema dei media mainstream si è ben guardata dal cogliere. Meglio nasconderla, sennò si vedrebbe troppo bene di che impasto fangoso siano fatti i trattati europei ed anche le velleità “trattativiste” di questo governo.
Come abbiamo scritto spesso, la contrapposizione tra “europeisti” e “sovranisti” è una recita a soggetto. Ed entrambi rispettano con precisione il ruolo che è stato loro dato, per non rompere questa sceneggiata che immobilizza la possibile consapevolezza del “popolo”.
Qual’è questo segreto inconfessabile?
Una quisquilia: il livello del debito pubblico è l’unico parametro negativo tra i fondamentali economici di questo paese. Ma quando “i mercati” debbono considerare la solidità dei conti pubblici e la solvibilità di uno Stato, sono soliti considerare diversi altri fattori altrettanto – se non più – importanti del debito pubblico.
Quali? Li indichiamo con le parole del vicepresidente Bce, intervistato dal Corriere della Sera, nientepopodimeno che da Federico Fubini: «l’Italia ha anche dei vantaggi che dobbiamo riconoscere. Il primo è che ha un surplus di partite correnti, nel complesso degli scambi con il resto del mondo. La posizione finanziaria netta sull’estero è buona e questo riduce la vulnerabilità dell’economia. E quando si guarda alla situazione di bilancio nel tempo, non è stata male: quasi tutti gli anni l’Italia ha avuto un avanzo prima di pagare gli interessi sul debito. Non è molto facile riuscirci, dunque è un precedente molto buono, soprattutto in confronto ad altri Paesi».
Riassumiamo per i non addetti ai lavori economici: a) l’Italia esporta più di quanto non importi (partite correnti in attivo); b) l’Italia è un paese così ricco da spostare una parte crescente della propria ricchezza all’estero (ha una posizione finanziaria con l’estero molto buona); c) da oltre venti anni lo Stato spende meno di quanto incassa con le tasse (saldo primario positivo, prima del pagamento degli interessi sul debito).
Un paese che sta molto bene, insomma, e semmai dovrebbe lamentarsi con i “propri” riccastri che spostano soldi all’estero invece di investirli “in patria” (come usano dire dalle parti del governo).
Un paese che in fondo dovrebbe maledire la memoria di Nino Andreatta, l’economista democristiano che si inventò il “divorzio” tra il ministero del Tesoro e la Banca d’Italia, legiferando una trappola che da allora in poi ha fatto crescere senza freni il debito pubblico pure in presenza di un avanzo primario pluridecennale. Ossia il mostruoso paradosso di un paese che si indebita sempre di più proprio perché risparmia sempre di più…
Ovvio che se si dovesse cominciare a parlare in pubblico di questa situazione, completamente diversa da quella narrata dalla “classe politica” e dal sistema mediatico, sarebbe più complicato chiedere alla popolazione altri “sacrifici” (come l’aumento dell’Iva e il taglio di pensioni, servizi sociali, sanità, istruzione).
Dunque solo il debito pubblico deve essere indicato come il parametro da usare come stella polare (per imporre austerità), usato come un acchiappafantasmi hollywoodiano; mentre gli altri vanno trattati come “dati economici neutrali”. Così i ricatti riescono meglio…
Si capisce che “europeisti” e “sovranisti” sono d’accordo nel “non creare panico” (tra le loro fila, ossia tra chi li elegge).
Quello su cui contrastano – tra loro – è sul tipo di “trattativa” da condurre per i prossimi anni, perché ogni trattato che si fa adesso, esattamente come quelli precedenti, segnerà la vita di tutti i paesi dell’Unione per i prossimi decenni.
Il meccanismo interno di questi trattati, peraltro, non è sostanzialmente da quello – chiamato Aleca – che la Ue sta cercando imporre alla Tunisia e altri paesi della costa sud mediterranea. Un piccolo paese del Maghreb ha certamente ha certamente meno forza e peso economico, dunque è saccheggiabile più facilmente. Ma non è che tra partner europei le cose stiano in altro modo.
La “competizione” interna è a carte truccate, insomma. L’esempio più noto e citato è il surplus tedesco (il contrario del deficit), da quasi 20 anni costantemente al di sopra (anche del doppio) rispetto al 3% indicato dai trattati. Ma nessuno ha mai alzato il ditino nei confronti di Berlino per minacciare una “procedura di infrazione”, nonostante ogni economista al primo anno di università apprenda che in un sistema monetario chiuso chi ha surplus sta mangiando sul deficit altrui. In concreto: la Germania finanzia il suo debito pubblico a costo zero o addirittura guadagnandoci qualcosa (è lo spread, bellezza). Mentre grandi quantitativi di capitali italici – dell’imprenditoria, mica solo dei mafiosi! – va a cercare “rifugio” nei Bund tedeschi, magari rimettendoci qualcosa e finanziando a gratis il debito di Berlino.
E ti credo che Weidmann, Schaeuble e Merkel non intendono toccare neanche una virgola!
Viene insomma fuori che non c’è alcun “meccanismo economico oggettivo”, “basato su dati scirntifici”, ma solo una serie di contratti firmati da imbecilli (per parte italica) che hanno consegnato ad altri il potere di decidere su come si governa qui.
Il che è un fatto che riguarda sia le classi (lavoratori dipendenti, pensionati, giovani dei ceti popolari, precari con ogni tipo di contratto, ecc, da un lato, imprenditori e rentier dall’altro), sia i paesi. Lo stesso processo che impoverisce i ceti popolari contribuisce a smantellare la capacità produttiva del paese (molte aziende di prima fascia sono diventate “straniere”, e quindi ancor più indifferenti al destino della popolazione), a devastare il nostro territorio (spopolando il Sud), a costringere a emigrare, a demolire il tessuto sociale delle nostre città (la gentrificazione causa turismo segue quella “produttiva” degli anni ‘80 e ‘90).
Affrontare questo intreccio con l’ideologia del nemico è un suicidio. Farsi arruolare tra gli “europeisti” è da venduti, fiancheggiare i presunti “sovranisti” (banali “nazionalisti piccolo-borghesi vecchio stampo) idem.
Bisognerà lavorarci sopra meglio, ma il gioco sta diventando scoperto…

venerdì 14 giugno 2019

La sanità ce la paghiamo sempre più di tasca nostra. E potrebbe peggiorare

Più che una novità è una conferma, ma non per questo appare meno pesante. Il IX Rapporto Rbm-Censis sulla sanità conferma infatti che quasi venti milioni di persone in Italia (19,6 milioni) sono costrette a pagarsi di tasca propria le prestazioni sanitarie essenziali prescritte dal medico.
Il rapporto Rbm-Censis sulla sanità pubblica, privata e intermediata, è stato presentato al “Welfare Day 2019”. Secondo il rappporto in 28 casi su 100 le persone, avuta notizia di tempi d’attesa eccessivi o trovate le liste di attesa ormai chiuse, hanno scelto di effettuare le prestazioni a pagamento (il 22,6% nel Nord-Ovest, il 20,7% nel Nord-Est, il 31,6% al Centro e il 33,2% al Sud).
L’indagine è stata realizzata su un campione nazionale di 10.000 cittadini maggiorenni statisticamente rappresentativo della popolazione. Transitano nella sanità a pagamento il 36,7% dei tentativi falliti di prenotare visite specialistiche (il 39,2% al Centro e il 42,4% al Sud) e il 24,8% dei tentativi di prenotazione di accertamenti diagnostici (il 30,7% al Centro e il 29,2% al Sud). I Lea, a cui si ha diritto sulla carta, in realtà sono in gran parte negati a causa delle difficoltà di accesso alla sanità pubblica.
La media parla di almeno 128 giorni d’attesa per una visita endocrinologica, di 114 giorni per una diabetologica, di 65 giorni per una oncologica, di 58 giorni per una neurologica, 57 giorni per una gastroenterologica, 56 giorni per una visita oculistica. Tra gli accertamenti diagnostici, in media 97 giorni d’attesa per effettuare una mammografia, 75 giorni per una colonscopia, 71 giorni per una densitometria ossea, 49 giorni per una gastroscopia. E nell’ultimo anno il 35,8% degli italiani non è riuscito a prenotare, almeno una volta, una prestazione nel sistema pubblico perché ha trovato le liste d’attesa chiuse. Di fronte alla impossibilità di accedere al sistema sanitario pubblico, sempre più persone sono costrette a rivolgersi al privato, anche per effettuare prestazioni necessarie prescritte dai medici.
Secondo il Rapporto Rbm-Censis il 62% di chi ha effettuato almeno una prestazione sanitaria nel sistema pubblico ne ha effettuata almeno un’altra nella sanità a pagamento: il 56,7% delle persone con redditi bassi, il 68,9% di chi ha redditi alti. Per ottenere le cure necessarie (accertamenti diagnostici, visite specialistiche, analisi di laboratorio, riabilitazione, eccetera), tutti ‒ chi più, chi meno ‒ devono surfare tra pubblico e privato, e quindi pagare di tasca propria per la sanità. E sono 13,3 milioni le persone che a causa di una patologia hanno fatto visite specialistiche e accertamenti diagnostici sia nel pubblico che nel privato, per verificare la diagnosi ricevuta.
Questo accresciuto percorso a ostacoli nel sistema sanitario pubblico, fa si che molti cittadini si siano ormai rassegnati, convinti che comunque nel pubblico i tempi d’attesa sono troppo lunghi. Nell’ultimo anno il 44% degli italiani si è rivolto direttamente al privato per ottenere almeno una prestazione sanitaria, senza nemmeno tentare di prenotare nel sistema pubblico. È capitato al 38% delle persone con redditi bassi e al 50,7% di chi ha redditi alti.
Cresce la spesa per la sanità privata, e per motivi seri
Il Rapporto afferma che nel 2018 la spesa privata per la sanità è salita a 37,3 miliardi di euro: +7,2% in termini reali rispetto al 2014. Nello stesso periodo la spesa sanitaria pubblica è invece diminuita dello -0,3%.
Il Rapporto pone poi una domanda pertinente e chiarificante. La spesa privata riguarda prestazioni sanitarie necessarie o prestazioni inutili? Insomma il boom della spesa di tasca propria per la sanità è dovuto all’ipocondria e alle ansie degli utenti o si basa su fondati motivi di salute? Di sicuro tutte quelle svolte nel privato dopo il fallito tentativo di prenotazione nel sistema pubblico sono state prescritte da un medico. Tra quelle effettuate direttamente nel privato hanno una prescrizione medica il 92,5% delle visite oncologiche, l’88,3% di quelle di chirurgia vascolare, l’83,6% degli accertamenti diagnostici, l’82,4% delle prime visite cardiologiche con Ecg. Questi numeri, conclude il Rapporto Rbm-Censis, riguardano prestazioni necessarie, non un ingiustificato consumismo sanitario.
Questa situazione inaccettabile, temiamo che tenderà a peggiorare qualora passi la secessione reale, ossia l’autonomia differenziata, che metterà fine al Servizio Sanitario Nazionale dandogli il colpo di grazia. In mancanza di un sistema che punti alla coesione sociale e all’equilibrio su tutto il paese,, ci si potrà curare meglio, ma a spese proprie, nelle regioni ricche. Ci si potrà ammalare e morire più rapidamente in quelle più povere.

giovedì 13 giugno 2019

Mafia e manganello, le due facce della Lega

Due notizie in poche ore che sembrano arrivare da universi agli antipodi. Eppure riguardano lo stesso partito – al governo – e lo stesso leader, Matteo Salvini.
La prima notizia, di ieri pomeriggio, è l’approvazione definitiva del cosiddetto “decreto sicurezza bis”, un dispositivo paranazista che ha dovuto cancellare parecchi dettagli rispetto alla prima versione per non rischiare di sbattere contro le eccezioni di costituzionalità già al primo esame del Presidente della Repubblica (peraltro, su questo tema, assolutamente “conciliante”).
La seconda, di stamattina, è l’arresto di Paolo Arata, ex consulente della Lega per l’energia ed ex deputato di Fi, e del figlio Francesco. Sono accusati di corruzione, autoriciclaggio e intestazione fittizia di beni. Sarebbero soci occulti dell’imprenditore trapanese dell’eolico Vito Nicastri, ritenuto dai magistrati tra i finanziatori della latitanza del boss Matteo Messina Denaro.
Strano insieme, la Lega. Riesce a tener dentro le pulsioni peggiori travestite da “legge e ordine” e quel “partito degli affari” che collega senza soluzione di continuità imprese normali e prestanome mafiosi, lobbisti improvvisati e politici di sottobosco.
Ma andiamo con ordine.
Il decreto sicurezza, al primo articolo, “risolve” il rebus che ha tormentato il governo in questo primo anno: di chi è la competenza ad aprire o chiudere i porti a navi che hanno salvato naufraghi in mare? Vittoria totale di Salvini, perché tale potere viene attribuito al ministro dell’interno (si salvano le navi militari – per evitare il ripetersi del “caso Diciotti” – e “navi in servizio governativo non commerciale”; insomma, morte alle Ong).
L’articolo 2 inasprisce le pene pecuniarie per i comandanti di navi che “non ottemperino agli ordini” del ministro stesso.
Il 4 “potenzia le operazioni di agenti sotto copertura” allo scopo si “contrastare l’immigrazione clandestine”; il che, nel contesto “culturale” del decreto, significa mandare agenti infiltrati nelle organizzazioni umanitarie che ancora si sforzano di raccogliere migranti in mare.
Ma è l’articolo 6 il vero cuore del provvedimento. Vale la pena di riportarlo per intero, visto che diventa una modifica del codice penale: “Articolo 5-bis. Salvo che il fatto non costituisca più grave reato e fuori dai casi di cui agli articoli 6-bis e 6-ter della legge 13 dicembre 1989, n. 401, chiunque, nel corso di manifestazioni in luogo pubblico o aperto al pubblico, lancia o utilizza illegittimamente, in modo da creare un concreto pericolo per l’incolumità delle persone o l’integrità delle cose, razzi, bengala, fuochi artificiali, petardi, strumenti per l’emissione di fumo o di gas visibile o in grado di nebulizzare gas contenenti principi attivi urticanti, ovvero bastoni, mazze, oggetti contundenti o, comunque, atti a offendere, è punito con la reclusione da uno a quattro anni.”.
La traduzione è semplice: potete manifestare solo se ve lo permettiamo e se non fate nulla per farvi vedere (incriminare per l’uso di fumogeni – totalmente innocui – è davvero indicativo). In ogni caso, se vi carichiamo, non dovete disporre di nessun articolo di abbigliamento in grado di ridurre i danni derivanti dalle nostre manganellate (emblematico il caso del giornalista Origone, pestato a Genova, cui sono arrivate le scuse ma solo perché “purtroppo non era distinguibile da un manifestante”).
Guerra alle occupazioni, abitative e non, con la modifica del codice penale prevista dall’articolo 7: “Chiunque distrugge, disperde, deteriora o rende, in tutto o in parte, inservibili cose mobili o immobili altrui in occasione di manifestazioni che si svolgono in luogo pubblico o aperto al pubblico è punito con la reclusione da uno a cinque anni.”
E via indurendo, sugli stadi e altri temi di cui ci occuperemo dettagliatamente in altra occasione.
Tutta questa furia repressiva contro i più deboli (migranti, senza casa, opposizione politica) convive allegramente con il massimo del “garantismo” nei riguardi dei forti. Ricordate come Salvini e glia altri boss leghisti avevano difeso i loro sottosegretari Siri e Rixi?
Bene. L’operazione antimafia di stanotte va a colpire un ingorgo di interessi affaristici e mafiosi che hanno proprio nella Lega – come prima in Forza Italia, prima ancora della Democrazia Cristiana e alleati vari, e anteguerra nel regime fascista – il referente politico primario.
Come riferiscono le agenzie, l’arresto di Arata e figlio è stato disposto dal gip di Palermo Guglielmo Nicastro su richiesta della Dda guidata da Francesco Lo Voi (il magistrato candidato alla carica di capo della Procura di Roma contro cui si erano mosse le “longa manus” di Renzi, Luca Lotti e Cosimo Ferri, nel recentissimo “caso Palamara”).
Gli Arata sono indagati da mesi per un giro di mazzette alla Regione siciliana che coinvolge anche Nicastri, tornato in cella già ad aprile perché dai domiciliari continuava a fare affari illegali.
In questo business c’erano anche gli Arata che, secondo i pm, di Nicastri sarebbero soci. Oltre che nei confronti dei due Arata il giudice ha disposto l’arresto per Nicastri, la cui la misura è stata notificata in carcere in quanto già detenuto, e per il figlio Manlio, indagati pure loro per corruzione, auto riciclaggio e intestazione fittizia. Ai domiciliari è finito invece l’ex funzionario regionale dell’Assessorato all’Energia Alberto Tinnirello, accusato di corruzione.
Una tranche dell’inchiesta nei mesi scorsi finì a Roma perché alcune intercettazioni avrebbero svelato il pagamento di una mazzetta, da parte di Arata, all’ex sottosegretario alle Infrastrutture leghista Armando Siri. In cambio del denaro Siri avrebbe presentato un emendamento al Def, poi mai approvato, sugli incentivi connessi al mini-eolico, settore in cui l’ex consulente del Carroccio aveva investito.
Un vero ircocervo di tipo nuovo, la Lega di Salvini. Da un lato il manganello della polizia, dall’altra la “frequentazione” con interessi palesemente mafiosi, intermediati da un “responsabile energia” del partito, dunque un dirigente su base fiduciaria elevatissima, non uno che passava di lì per caso.
Il ministro dell’interno può anche dire che lui non ne sapeva nulla, ed anche il segretario della Lega. Certo che avere un ministro di polizia che non si accorge di promuovere – come segretario di partito – interessi criminali non è proprio un indicatore di efficienza…
Resta il fatto che le due notizie hanno anche un altro aspetto su cui riflettere.
La “stretta repressiva” contro i deboli trova tutti d’accordo (dettaglio più, dettaglio meno), soprattutto er quanto riguarda gli oppositori politici e sociali. E quindi non c’è alcuna resistenza sul piano legislativo e costituzionale (vedremo se qualche tribunale solleverà eccezioni, ma intanto questo orrore diventa legge…).
Ma il carrozzone leghista viene nuovamente investito da un’inchiesta da cui non è pensabile uscire politicamente indenni. Nell’immagine, nei rapporti clientelari e territoriali, ecc.
Se dovessimo dirla nei termini “politichesi”, questa inchiesta è un mini-siluro sulla corazzata legista, che nel frattempo viene avallata pienamente nella sua riscrittura reazionaria della “Costituzione materiale” di questo paese.
Il sospetto? E’ che questo regime reazionario in costruzione vada benissimo a chiunque – dall’Unione Europea agli Usa, dagli imprenditori locali a quelli multinazionali – stia ragionando su come “lavorarsi” il paese. Sul chi debba essere invece il “dittatore del futuro”, la partita è ancora aperta.
Al punto da far apparire Salvini per uno che lavora conto terzi.

mercoledì 12 giugno 2019

A chi interessa fare di Salvini un “intoccabile”?

La Uil è il più sistematicamente complice dei sindacati complici. I tarantini, per esempio, almeno fin quando l’Ilva è stata dei Riva, sapevano benissimo che bisognava iscriversi alla Uil per avere qualche speranza di essere assunti nell’acciaieria. Una “piccola” inversione della normalità sindacale (ogni lavoratore dipendente, dopo essere stato assunto, è libero di iscriversi a qualsiasi sindacato o anche a nessuno), che fa vedere in quella sigla un’agenzia di collocamento impropria. O clientelare.
E dunque può stupire la durezza con cui la Digos romana, ieri, ha impedito a sindacalisti Uil di appendere un molto innocuo “striscione ironico” nel confronti di Salvini e Di Maio.
Potete giudicare da soli guardando la foto (fatta prima del tentativo di issare lo striscione sul Pincio)…
Non c’è niente da ridacchiare, ci sembra. La trasformazione delle cosiddette “forze dell’ordine” in servizio d’ordine personale del ministro dell’interno sta andando alla velocità della luce. In questi ultimi mesi abbiamo assistito ad un’escalation che non vede fine. Dagli smartphone sequestrati a singoli cittadini che attendevano il momento dell’immancabile selfie con Salvini per sfoderare un irridente “ma non siamo più terroni di merda?”, fino ai piccoli striscioni appesi fuori di una finestra; dalle cariche contro chiunque fischiasse il ministro fino all’”avvertimento preventivo” operato da carabinieri in tutti gli appartamenti lungo una strada di paese che “il ministro” avrebbe dovuto fare per arrivare a un banale comizio.
La confessione involontaria, ben oltre i limiti del comico, sta già nella nota con cui la Questura di Roma ha cercato di giustificare la sua decisione: «Nessuna valutazione è stata fatta sul contenuto, ma si è ritenuto che lo striscione fosse lesivo del decoro paesaggistico, così come previsto dall’art.49 del Codice dei Beni Culturali e del paesaggio, dove si vieta il collocamento o l’affissione di cartelli o altri mezzi di pubblicità sugli edifici e nelle aree tutelate come Beni Culturali. Giova precisare che già in precedenti ed analoghe situazioni non è stata consentita l’esposizione di manifesti e di striscioni nel medesimo posto. Pertanto è evidente come non si sia trattato di alcun atto di censura, come erroneamente da alcuni denunciato».
Fosse stato vero, la Digos non avrebbe continuato a “presidiare” lo striscione, impedendone l’apertura anche dopo, in Piazza del Popolo. Il selciato romano, che tutti noi amiamo, non è un manufatto artisticamente tale da dover essere tutelato in questo modo…
Questo è un paese in cui i governanti non hanno mai gradito le critiche, diciamolo subito. Non si contano i casi di giornalisti “destinati ad altro incarico” per aver dato notizie sgradite o condotto trasmissioni in cui veniva dato spazio alle malefatte del potere di turno. Lo stesso è avvenuto per comici o intrattenitori molto – troppo? – popolari, da Luttazzi a Crozza (finito ormai sulla Nove).
Un esercizio infame del potere, sicuramente. Indirizzato contro dei professionisti nella formazione delle coscienze (l’informazione “forma l’opinione pubblica”, non si limita a rifletterla). Infame, ma nell’ordine delle cose “normali”; da censurare decisamente, ma è anche il rischio del fare informazione.
Salvini non è soltanto l’unico ministro per cui la Digos o i carabinieri si sono autonominati “ufficio censura” personalizzato, in stile Minculpop. Ma è anche il pretesto – non crediamo affatto che la sua carriera politica sarà molto lunga, Renzi docet… – per esercitare una pressione politica e “culturale” contro la popolazione normale.
Polizia e carabinieri, nella breve era salviniana, stanno lavorando per rendere praticamente pericoloso criticare chi comanda. Non è ancora un reato formalmente inscritto nel codice penale, ma si sta andando in questa direzione. “Si portano avanti col lavoro”…
Ma non ci sembra di sentire proteste o grida d’allarme nella cosiddetta “opposizione democratica” (Pd, Repubblica, Corriere, ecc). Al massimo un sorrisetto di compatimento, una battutina irridente, un ohibò molto ipocrita.
Segno che questa modificazione pratica della Costituzione reale non dispiace poi troppo. Potrà tornare utile, in forme magari meno rozze e questurine, quando al governo ci sarà qualcun altro. Magari un “tecnico europeista” incaricato di fare strame del paese e delle condizioni di vita della gente.