giovedì 29 novembre 2018

10 aprile 1991: la tragedia del Moby Prince

Proviamo a contare con le dita di una mano. Dal 10 aprile 1991 quanti anni sono passati? Tanti, tantissimi, talmente tali che ne servono più di cinque, di mani. Oltre 27 anni da quel dì in cui, nel porto di Livorno, il traghetto Moby Prince va a fuoco, uccide 140 persone (75 passeggeri e 65 membri dell’equipaggio) e lasciando un solo superstite, Alessio Bertrand.
Dopo anni di buio totale – ma tranquilli, è una cosa ordinaria in Italia, – due indagini della magistratura nel 1991 e nel 2006 che hanno diradato poche nubi, qualche mese fa la procura della bella città toscana ha aperto un nuovo fascicolo e richiesto tutti gli atti della commissione d’inchiesta del Senato, che pare abbia scoperto nuovi elementi utili per non far cadere il solito e triste velo d’oblio su una ennesima vicenda drammatica. Sembra quasi che nel Belpaese, dove trionfano le mezze verità e da almeno 70 vige un regime non scritto di “deficit di verità”, ci si diverta a erodere la memoria. Individuale e collettiva.
Chi ricorda davvero cosa è successo quella drammatica notte? Sono passati da pochi minuti le 22 quando il traghetto “Moby Prince” parte da Livorno in direzione di Olbia. Pochi minuti più tardi, si scontra con la petroliera “Agip Abruzzo” e la sua prua penetra nella cisterna contenente circa 2.700 tonnellate di greggio, che in parte si riversano in mare e in parte investono il Moby Prince. L’impatto delle lamiere delle due imbarcazioni è fortissimo e produce le scintille che causano l’incendio. Inizialmente, però, il fuoco non si propaga immediatamente su tutto il traghetto in quanto le fiamme, per raggiungere il salone dove verrà ritrovata la maggior parte dei corpi, impiegheranno presumibilmente diverso tempo. Ma è qui, però, che accade la prima cosa strana. La velocità dei soccorsi. Prenderanno il mare solo dopo ripetute richieste di intervento da parte della Agip Abruzzo e solo verso la petroliera, senza mai cercare la “Moby Prince”. Perché?
Accade allora che, incredibile ma vero, lo scafo in fiamme del traghetto verrà raggiunto solo dopo le 23.35. In attesa dei soccorritori (e l’incendio è già divampato da un’ora e mezza), l’equipaggio fa affluire tutti i passeggeri in quel famigerato salone, predisposto per resistere al fuoco, ma le fiamme arrivano a circondare, ben presto, quella che diventerà una trappola e una carneficina.
Le indagini iniziano subito, ma hanno esito prima contradditorio e poi fallimentare, ma guardando tutto ciò che c’è dietro a quella strage (interessi economici non sempre dichiarati e spesso vigorosamente negati, collegati ai costi delle assicurazioni e dei risarcimenti, responsabilità di autorità portuali e marittime che non si vollero o si poterono approfondire, sciatteria e pressappochismo), non poteva essere altrimenti.
La Commissione d’inchiesta, allora, sembra quasi essere stata una manna dal cielo, soprattutto per le associazioni delle vittime, “10 aprile 1991” e “Moby Prince 140”.
Il perché è semplice. Dopo due anni di lavoro, decine di testimonianze, migliaia e migliaia di documenti consultati, sei perizie, atti inediti e nuove tecniche di analisi sui filmati dell’epoca, i risultati sono talmente significativi da far saltare dalla sedia. Il primo è che quella notte la nebbia non c’era, e quindi quella che è stata indicata per decenni come causa del disastro si rivela infondata. Il secondo, il più importante, è il rocambolesco ritrovamento di alcuni documenti inediti che testimoniano dell’accordo armatoriale tra la compagnia di navigazione di cui faceva parte il Moby Prince e proprietaria dell’Agip Abruzzo. Carte che provano una forte intesa fra i due gruppi a “non attribuirsi reciproche responsabilità”. E c’è pure un terzo elemento, il non coordinamento dei soccorsi da parte della Capitaneria di porto livornese. Che non ha cercato né il traghetto, né di mettersi in contatto radio con le imbarcazioni presenti in rada, né indirizzare i soccorsi per spegnere l’incendio a bordo del Moby Prince o per salvare passeggeri ed equipaggio.
Tocca ora alla magistratura far sì che quel lutto privato, diventato in questi anni memoria pubblica, trovi infine un risarcimento di verità e di giustizia.

mercoledì 28 novembre 2018

Ischia, il condono populista spiegato

I 5stelle l’avevano proposto quando erano all’opposizione nel 2013 e ora che sono al governo l’hanno fatto. Si tratta del cosiddetto condono per le zone terremotate di Ischia (e dell’Italia centrale), inserito nel “Decreto Genova” per la ricostruzione del ponte, convertito dalla legge 130 del 16 novembre 2018 approvata in Senato.
Ischia è un’isola che ha dato molto al Movimento 5 Stelle, che lì ha preso il 42% alle ultime politiche per la Camera, con punte del 44% a Forio e Lacco, due dei comuni colpiti dal terremoto del 2017. Percentuali che prima nell’isola andavano a Forza Italia.  E se, come stima Legambiente, nell’isola di Ischia le domande di condono sono circa 28mila su una popolazione di 64mila abitanti, non si tratta più di devianza marginale dalla norma, ma di un movimento popolare al quale il populismo non può sfuggire. In un video pubblicato sulla pagina Facebook del “Movimento Ischia isola verde”, che si definisce “Gruppo di lavoro territoriale a supporto del M5S”, un agitato signore con fare veemente così conclude il suo intervento: «Oggi volete venire a fare la retorica su cosa è abusivo e su che cosa non è abusivo? ma andate a farvi fottere!».
Dunque cosa meglio del terremoto per cogliere l’occasione e rilanciare la proposta? I 5stelle si sono sempre dichiarati contro i condoni, al grido di «onestà  onestà», ma di fronte a percentuali cosi alte sia di consensi che di abusi non c’è argomento che tenga. I due cosiddetti alleati di governo hanno capito da tempo che il consenso del sud è essenziale per avere la maggioranza. La Lega deve ancora conquistarlo, prendendosi i voti di Forza Italia che nel sud aveva una delle sue roccaforti, mentre i 5 stelle devono amministrare il loro successo consolidando la loro base. E questo spiega forse sia l’uscita di Salvini sugli inceneritori che il condono edilizio.
I due condoni per Ischia e l’Italia centrale nascono dallo stesso problema giuridico e amministrativo. Solo gli edifici danneggiati, interamente in regola con le norme urbanistiche, hanno diritto ai contributi dello Stato per la loro ricostruzione. Occorre quindi stabilire la situazione giuridica di ciascun edificio danneggiato, e definire le pratiche di condono ancora sospese o sanare gli abusi compiuti successivamente.
Per quanto riguarda Ischia, la legge approvata rimanda la definizione delle domande di condono relative agli immobili danneggiati dal sisma del 2017, presentate ai sensi delle tre leggi di condono del 1985, 1994 e 2003, alla esclusiva applicazione della legge del 1985. La logica vorrebbe che ciascuna domanda venisse valutata in relazione alla norma vigente all’epoca della sua presentazione. Su questo punto si è concentrata la battaglia dei due dissidenti 5stelle, i senatori Gregorio De Falco e Paola Nugnes, che in sede di commissione Lavori pubblici e ambiente del Senato sono riusciti a cancellare il rimando alla legge del 1985, che poi invece è stato reintrodotto in aula.
Tanta pervicace volontà politica nasconde il desiderio di semplificare la vita agli abusivi e arrivare all’approvazione del maggior numero di domande di condono degli edifici danneggiati, stimate in circa 2mila per Ischia, anche con una procedura accelerata la cui scadenza è prevista entro sei mesi.
A Ischia con la legge approvata non valgono i limiti di superficie e volume per l’accoglimento delle domande di condono presentate sino al 2004. Valgono solo i vincoli di inedificabilità assoluta come quelli derivanti dalla previsione di un’opera pubblica ma devono essere anteriori all’abuso edilizio. Gli altri vincoli, cioè quelli di inedificabilità relativa, sono derogabili, se approvati dall’autorità preposta alla tutela del vincolo.
Differente il caso delle zone terremotate dell’Italia centrale, dove l’abuso si ripara fino alla data del sisma (2016), ma solo se c’è la conformità al piano urbanistico vigente al momento della domanda. Si tratta quindi di una norma più restrittiva che crea una evidente disparità.
Ma c’è di più. Dopo che il caso di Ischia è stato sollevato all’inizio di ottobre sulla stampa, con accuse al decreto di finanziare la ricostruzione delle case abusive, si è stabilita l’esclusione dei contributi statali per i volumi abusivi ancorché condonati. Cosicché si crea un concentrato di disparità. Si trattano le domande pendenti di condono a Ischia in maniera differente da quelle precedentemente esaminate nella stessa isola, e da quelle degli altri comuni campani e italiani, inclusi i comuni terremotati dell’Italia centrale, e si negano i contributi ai volumi abusivi ma condonati che dovrebbero avere pari diritti rispetto agli altri edifici.
A Roma le case abusive dei Casamonica vengono abbattute, mentre a Ischia si aprono le maglie dei condoni precedenti, in presenza di 600 demolizioni disposte dalla Procura di Napoli  alle quali si sarebbe potuto applicare Salvini con la sua proverbiale ruspa, ma finora non l’ha fatto. E così si conclude la parabola: l’inosservanza della legge si punisce quando è di pochi, ma se è del “popolo” allora in qualche modo diventa legge. Una sorta di “democrazia diretta”. In questo caso le promesse possono essere mantenute perché non ci sono vincoli di bilancio da rispettare: chi ci rimette è solo l’ambiente.

martedì 27 novembre 2018

Il Pentagono confessa di aver perso l’egemonia globale

Il governo degli Stati Uniti, incerto sulla propria superiorità militare globale, nominò un gruppo di esperti interistituzionali per determinare la reale coerenza della difesa nazionale in caso di guerra, conducendo una valutazione meticolosa dell’industria militare. I risultati chiariscono i passi compiuti nello scontro commerciale contro nemici e alleati.
Tra le azioni ostili di Donald Trump c’è la guerra commerciale contro la Cina, una scommessa per aumentare i dazi ai prodotti cinesi importati negli Stati Uniti, misura che ha raggiunto nella prima fase articoli cinesi per 50 miliardi di dollari e che a settembre ammontavano a 250 miliardi per 5745 prodotti. In questo modo s’intende proteggere fabbriche, produttori nazionali e recuperare posti di lavoro. Questo, secondo l’argomento delle “pratiche commerciali sleali e furto di proprietà intellettuale” da parte del gigante asiatico, ne fa una questione di sicurezza nazionale. Sebbene la copertura di tale conflitto tra i maggiori partner commerciali del mondo parli degli effetti sull’industria generale statunitense, la recente declassificazione di un documento del Pentagono indica l’industria militare. Le precedenti valutazioni del Mckinsey Global Institute studiando le prestazioni finanziarie delle aziende, stabilivano che mentre le multinazionali superavano gli ostacoli della crisi finanziaria grazie al trasferimento dei processi industriali in Paesi dai costi più competitivi, la debolezza delle piccole e medie aziende nazionali, che riforniscono i grandi appaltatori, registrava una crescita negativa in due decenni, dato che non possono riprendersi dai tagli alla spesa pubblica degli Stati Uniti. Nel 2017, i dati relativi alle fabbriche statunitensi mostravano la perdita di 60000 aziende e 5 milioni di posti di lavoro. Abbattendo queste cifre e calcolandone le conseguenze sul campo militare, tenendo conto del fatto che gli USA stanziano il maggiore budget per la difesa rispetto a qualsiasi altro Paese, si trovavano vulnerabilità cruciali nel soddisfare le richieste dell’agenda militare internazionale. Ciò fu richiesto dall’ordine esecutivo 13806, emanato dal presidente Donald Trump nel luglio 2017, per cercare d’identificare i rischi per la base industriale del complesso militare statunitense. I risultati di quell’indagine, in parte pubblicati nel documento intitolato “Valutazione e rafforzamento della base industriale della produzione e della difesa e resistenza della catena di approvvigionamento degli Stati Uniti”, allarmavano i funzionari del dipartimento della Difesa, individuando almeno 300 lacune nella catena di approvvigionamento dei produttori di armi che potrebbero ostacolare le future guerre.
Sfide dell’industria statunitense degli armamenti
Secondo un articolo preparato dal ricercatore economico F. William Engdahl per il portale New Eastern Outlook, si descrive in dettaglio la “insufficienza o carenza della catena di approvvigionamento industriale che alimenta le componenti vitali per le Forze Armate degli Stati Uniti negli ultimi anni”. In un anno, 16 gruppi di lavoro inter-agenzie, determinati dall’Ufficio delle politiche commerciali e produttive della Casa Bianca e dall’Ufficio delle politiche industriali del dipartimento della Difesa, ebbero il compito di ordinare la base industriale della produzione nei settori che vanno da aerei e missili a manodopera e materiali, dando priorità agli effetti sulle attuali operazioni militari. L’analista Engdahl nomina, tra gli elementi che gli Stati Uniti hanno poche fonti di produzione nazionali (nei casi più gravi arrivano a un unico fornitore nazionale), a “le terre rare”, una serie di metalli scarsi che sono vitali nelle diverse applicazioni tecnologiche di l’industria militare. L’industria mineraria domestica, smantellata dalle pratiche globalizzanti delle grandi imprese, sedotta da materie prime poco costose acquistate al di fuori del Paese, ha indotto la nazione statunitense ad importare l’81% delle terre rare direttamente dal nemico commerciale, la Cina. Le compagnie di avanguardia che il dipartimento della Difesa assume, come le industrie aerospaziali Boeing e Lockheed Martin, subappaltano a loro volta la catena di approvvigionamento a produttori cinesi, grazie alla loro efficienza. D’altro canto, aziende di secondo e terzo livello, che in alcuni casi era l’unica fonte nazionale di approvvigionamento di materiali, hanno chiuso le fabbriche o lasciato la produzione nazionale importando gli elementi dal continente asiatico per il costo minore che implicano. Il rapporto sottolinea che questa unità copre diverse stazioni nella catena di produzione, tra cui “la dipendenza da una singola fonte per gli assi portaelica delle navi della Marina, le torrette dei cannoni per i carri armati, il carburante per i missili e rivelatori a infrarossi spaziali per la difesa antimissile”. Una delle aree sensibili è l’apporto del perclorato di ammonio, acido utilizzato nella fabbricazione di circuiti stampati e presente nella composizione di qualsiasi dispositivo elettronico. Attualmente esiste una sola fonte domestica di questa risorsa negli Stati Uniti, mentre esiste una sola compagnia nazionale che produce queste parti elettroniche. In confronto, l’Asia ne produce il 90% e metà della produzione è in Cina.
L’aumento del 10% dei dazi sulle merci cinesi, annunciato lo scorso settembre dall’amministrazione Trump, include i circuiti stampati tra i prodotti tecnologici e gli articoli elettronici. Engdahl evidenzia un’altra componente fondamentale inclusa tra le 300 vulnerabilità associate al crescente uso di fonti straniere. Comprende la produzione di carbonio impregnato ASZM-TEDA1, materiale utilizzato nei sistemi di filtrazione chimica e che serve a proteggere da gas tossici e attacchi chimici. Gli Stati Uniti hanno un unico fornitore locale: la società Calgon Carbon di Pittsburgh, acquisita ufficialmente dalla Kuraray Co. Ltd, conglomerato manifatturiero del Giappone, che si avvicina alla Cina in cerca di partnership che stabilizzi l’economia della regione asiatica dopo l’escalation delle tensioni commerciali cogli Stati Uniti. Questi esempi sulle limitazione dell’autonomia nell’acquisizione di materiali per le armi sono argomenti che localizzano coerentemente tutte le azioni del governo degli Stati Uniti nel corso del 2018 accusando di “pratiche sleali” i cinesi nel commercio internazionale e tentando d’invertire la vulnerabilità a cui è esposto. Allo stesso modo, il rapporto sulle capacità dell’industria militare riflette la preoccupazione per la scarsa disponibilità di manodopera qualificata che assume posizioni chiave nella linea di produzione, inclusi operatori, tecnici, distributori e macchinisti. Il divario nel settore manifatturiero generale nordamericano aumenterà da 488mila posti di lavoro oggi non coperti a 2,4 milioni nel 2028, secondo una proiezione dell’Istituto di produzione. Questa debolezza si estende ai campi dell’ingegneria, della scienza e della tecnologia. Il rapporto indica che l’81% dei professionisti universitari che hanno curriculum elettrico e petrolifero nelle università statunitense, sono di origine straniera. In informatica, la percentuale corrisponde al 79%. La maggior parte di questi studenti stranieri proviene dall’Asia, principalmente dalla Cina.
Guerra su acciaio e alluminio: questione di sicurezza nazionale?
Le disposizioni protezionistiche imperniate alle incoerenti imposizioni tariffarie su acciaio ed alluminio che colpiscono Unione europea, Messico e Canada, nonché Cina, hanno senso quando vengono messe in relazione con la crisi della base industriale militare dettagliate nel documento del dipartimento della Difesa. Questa connessione è spiegata dal consulente commerciale nordamericano, Peter Navarro, citato nel testo di Engdahl. I dazi sui metalli sono, secondo il falco anti-cinese, sono una “forte difesa contro il palese furto della Cina e il trasferimento forzato della proprietà intellettuale e delle tecnologie statunitensi”, che insieme all’aumento del bilancio militare e ai regolamenti che il governo impone sui prodotti domestici, dovrebbe sollevare la forza industriale smantellata del Paese. Rigenerare l’apparato produttivo dell’alluminio è urgente per il Pentagono, per l’essenzialità di questo componente nella costruzione di navi, aerei e veicoli militari. La produzione degli Stati Uniti nel mercato mondiale, che alla fine del 2 ° secolo li posizionava a primo produttore, attualmente contribuisce solo 742000 tonnellate di alluminio, collocandosi al 12° posto nella classifica mondiale, ben al di sotto dei Paesi che minaccia di sanzioni, come Russia, Canada e Cina, che guida la classifica con una produzione di 32000000 tonnellate.
Ripercussione del modello neoliberale e bilancio onesto delle intimidazioni belliche degli Stati Uniti
L’egemonia decadente degli Stati Uniti è sfidata in campo militare, sul suo più forte deterrente. Ciascuno dei dati pubblicati nella radiografia ottenuta dall’esame dell’apparato industriale degli armamenti, mostra le sfide che si presentano a questa potenza militare erosa e in un momento geopolitico caratterizzato da continue minacce di escalation in conflitti bellici ed interventi militari contro Paesi rivali. Ora, gli sforzi si concentrano sulla correzione dell’impatto del modello neoliberista, che in pochi decenni ha esaurito il mercato nazionale coll’alluvione di prodotti stranieri, limitando la possibilità di rispondere efficacemente all’aumento delle esigenze militari. Col tempo contro, gli Stati Uniti applicano queste misure perché sono preoccupati dall’investimento nazionale ottimale in armi, operazioni e formazione di Cina e Russia, dove il bilancio è destinato a fornitori di proprietà nazionali o fortemente influenzati dallo Stato, fornendo equipaggiamento militare a costi inferiori rispetto a quando importati. Il blocco emergente coordinato da queste nazioni, con oppositori politici degli Stati Uniti tra cui Venezuela, Siria, Iran e Corea democratica (questi ultimi due con l’addizione nucleare), tutti possibili bersagli di una guerra regolare, ostacolano le pretese aggressive del presidente Trump, che ha alle sue spalle il compito tardivo di riequilibrare gli investimenti carenti nelle spese militari delle precedenti amministrazioni, basandosi su un violento protezionismo che fin dall’inizio mostra le conseguenze dell’attacco all’essenza globalista dell’economia nordamericana

lunedì 26 novembre 2018

La povertà toglie 10 anni di vita

I soldi non daranno la felicità, ma più chance di avere una vita lunga sembra di sì. Una nuova ricerca condotta in Gb fotografa un divario di ben 10 anni tra l'aspettativa di vita degli strati sociali più abbienti e quella delle classi disagiate. In altre parole: i poveri sono destinati a morire 10 anni più giovani rispetto ai ricchi, rileva lo studio firmato da ricercatori dell'Imperial College London e pubblicato su 'Lancet Public Health'. Il lavoro punta un faro in particolare sulle 'quote rosa' della società britannica, perché dall'analisi emerge che l'aspettativa di vita delle donne più povere è diminuita dal 2011 e questo trend viene definito dagli autori "profondamente preoccupante".
Lo studio, finanziato dal Wellcome Trust, ha analizzato i dati dell'Ufficio per le statistiche nazionali su tutti i decessi registrati in Inghilterra tra il 2001 e il 2016, in totale 7,65 milioni di morti. I risultati mostrano che il divario di aspettativa di vita tra le fasce più ricche e più povere della popolazione è aumentato per il gentil sesso da 6,1 anni nel 2001 a 7,9 anni nel 2016 e da 9 a 9,7 anni negli uomini. Nelle comunità più svantaggiate l'aspettativa di vita delle donne nel 2016 è stata di 78,8 anni, rispetto agli 86,7 anni del gruppo delle più abbienti. Per gli uomini era di 74 anni tra i più poveri, contro gli 83,8 anni tra i più ricchi.

Ad allarmare gli scienziati è il dato secondo cui l'aspettativa di vita delle donne nei settori più poveri della società è diminuita di 0,24 anni dal 2011. "Il calo dell'aspettativa di vita nelle comunità più povere è un indicatore profondamente preoccupante dello stato di salute della nostra nazione e mostra che stiamo lasciando i più vulnerabili al di fuori il guadagno collettivo", riflette l'autore senior della ricerca Majid Ezzati, della School of Public Health dell'Imperial.
"Al momento - osserva Ezzati - abbiamo una tempesta perfetta di fattori che possono avere un impatto sulla salute e che portano le persone povere a morire più giovani. Il reddito di lavoro è stagnante e i benefit sono stati tagliati, costringendo molte famiglie a rivolgersi al 'banco alimentare'. I prezzi di prodotti freschi come frutta e verdura sono aumentati rispetto a quelli di cibi non sani e lavorati", il che li rende "non alla portata dei più poveri".
Lo scienziato evidenzia che anche "la stretta sui finanziamenti per la salute e tagli ai servizi locali dal 2010 hanno avuto un impatto significativo sulle comunità più povere, portando a diagnosi tardive per malattie come il cancro e a morti più precoci per condizioni come la demenza". Il team ha analizzato nel dettaglio le patologie che hanno contribuito all'ampliamento del gap di aspettativa di vita fra ricchi e poveri. E, sebbene nelle fasce più svantaggiate la mortalità sia più alta per tutte le malattie, i ricercatori hanno identificato un certo numero di condizioni sulle quali si registra una differenza particolarmente marcata tra i due estremi opposti della società.
Le morti neonatali e le malattie dei bimbi, le patologie respiratorie, quelle cardiache, i tumori polmonari e delle vie digestive, le demenze: sono le problematiche che hanno portato a una perdita di longevità particolarmente elevata nei poveri rispetto ai ricchi. Secondo i dati, nel 2016 i bambini sotto i 5 anni delle fasce più svantaggiate avevano una probabilità 2,5 volte maggiore di morire rispetto ai coetanei benestanti. "Lo studio - incalza Ezzati - suggerisce che i poveri in Inghilterra stanno morendo di malattie che possono essere prevenute e curate. Un maggiore investimento in sanità e assistenza sociale nelle aree più svantaggiate contribuirà a invertire le tendenze osservate. Abbiamo bisogno anche di azioni governative e industriali per eliminare l'insicurezza alimentare e rendere più accessibili scelte alimentari sane, affinché la qualità della dieta di una famiglia non sia dettata dal reddito".

giovedì 22 novembre 2018

Ikea verso i licenziamenti

La holding di Ikea Ingka ha annunciato piani di ristrutturazione a causa del calo delle vendite nei negozi e l'aumento delle vendite online. "Stiamo osservando che il settore delle vendite al dettaglio sta cambiando ad un ritmo come mai prima'', ha sottolineato Jesper Brodin, Ceo di Ingka. Ikea ha annunciato un piano per espandere le vendite online e per creare nei negozi in centro città dove poter scegliere l'arredamento. L'azienda spera che le misure creino fino a 11.500 nuovi posti di lavoro in tutto il mondo entro il 2020.
Tuttavia, 7.500 dei 160.000 posti di lavoro attuali potrebbero essere tagliati, in particolare posizioni non specializzate all'interno dei 30 uffici nazionali dell'azienda. In termini netti, la società creerebbe 4.000 nuovi posti di lavoro.
 Sebbene la gente vada ancora nei negozi di mobili - i numeri sono ancora in crescita - il concetto probabilmente diventerà meno popolare in futuro e alla fine anche obsoleto. In Germania, le vendite online di Ikea sono cresciute più velocemente delle vendite al dettaglio. I ricavi globali di Ikea sono cresciuti del 4,7% a 34,8 miliardi di euro (39,7 trilioni di dollari) nell'anno fiscale 2018, conclusosi il 30 agosto.

mercoledì 21 novembre 2018

1 mld da taglio pensioni d'oro

La riforma delle pensioni annunciata dal governo potrebbe essere adottata per decreto legge. Ad annunciarlo all'Adnkronos, il sottosegretario al Lavoro Claudio Durigon che spiega: "Stiamo valutando anche l'ipotesi del decreto legge. L'alternativa è un emendamento alla manovra". Quanto alle novità in arrivo, Durigon conferma gran parte delle ipotesi circolate: da quota 100 con 38 anni di contributi e 62 di età, alla reintroduzione delle finestre d'uscita, passando per il contributo di solidarietà per le pensioni d'oro che dovrebbe portare poco più di un miliardo di euro nelle casse dello Stato in 5 anni.
QUOTA 100: potranno lasciare anticipatamente il lavoro le persone con almeno 38 anni di contributi e 62 di età. Sono reintrodotte le cosiddette finestre d'uscita nel numero di 4, una ogni tre mesi, il che significa che per uscire dal lavoro una volta raggiunto il requisito occorre aspettare la prima finestra utile. Viene comunque ipotizzato un meccanismo di finestra mobile di 3 mesi che fa in modo che dalla maturazione del requisito non si superano mai i tre mesi per andare in pensione.

DIPENDENTI PUBBLICI: per i dipendenti pubblici oltre al meccanismo delle finestre viene introdotto anche un preavviso di 6 mesi che servirà agli uffici per gestire eventuali richieste massicce che potrebbero mettere in difficoltà il funzionamento stesso della macchina amministrativa.
PENSIONI D'ORO: Per le pensioni cosiddette d'oro verrà introdotto un contributo di solidarietà per 5 anni accompagnato dal raffreddamento dell'indicizzazione. In particolare, il contributo di solidarietà dovrebbe portare poco più di un miliardo di euro nelle casse dello Stato in 5 anni e colpirà le pensioni di importo lordo superiore a 90.000 euro annui con scaglioni differenziati: per gli importi superiori a 90mila euro, ma inferiori a 130mila euro, il taglio sarebbe dell’8%, per salire al 12% per le pensioni fino a 200mila euro, al 14% per quelle fino a 350mila euro lordi annui, per poi passare al 16% per quelle fino a 500mila euro lordi annui, per arrivare al 20% se la pensione supera la soglia dei 500 mila euro lordi annui. I tagli non si applicherebbero a chi ha una pensione interamente calcolata con il metodo contributivo.
INDICIZZAZIONE: Dal raffreddamento dell'indicizzazione arriveranno invece circa 300 milioni l'anno. In pratica per le pensioni fino a 2.000 euro netti al mese ci sarà un aumento del recupero, mentre per quelle di importo superiore scatterà un progressivo raffreddamento della perequazione fino a un sostanziale azzeramento per le pensioni oltre i 5.000 euro netti.
APE SOCIAL: viene confermata per un anno dell'Ape social e l'opzione donna, due misure introdotte dal precedente governo per consentire l'uscita anticipata a determinate categorie.
ALITALIA: confermata la norma per consentire al personale di volo (piloti e assistenti) di Alitalia di uscire con 7 anni di anticipo. Per lasciare il lavoro saranno sufficienti 60 anni d'età anzichè 62.
INAIL: confermata anche l'ipotesi di ridurre i premi Inail per le imperse per un importo complessivo di 600 milioni

martedì 20 novembre 2018

Mezzo milione di italiani non ha i soldi per curarsi

Oltre mezzo milione di italiani non si sono potuti permettersi cure mediche e farmaci nel 2018, mentre circa 13,7 milioni di italiani hanno limitato le spese per visite e accertamenti. È quanto emerge dal Rapporto 2018 «Donare per curare: povertà sanitaria e donazione farmaci», realizzato dalla Fondazione Banco Farmaceutico onlus. Il Rapporto è stato presentato a Roma nella sede di Aifa, l'Agenzia italiana per il farmaco.
Nell'ultimo anno 539 mila poveri non hanno avuto i soldi per le cure di cui avevano bisogno. A causa di spese più urgenti, le famiglie povere riservano alla salute solo il 2,54% della propria spesa totale, contro il 4,49% delle famiglie non povere. In particolare, possono spendere solo 117 euro l'anno (11 euro in più rispetto all'anno precedente), mentre il resto delle persone può spendere 703 euro l'anno per curarsi (8 euro in più rispetto all'anno precedente). Per le famiglie indigenti, inoltre, la quota principale della spesa sanitaria è destinata ai medicinali: 12,30 euro mensili, pari al 54% del totale. Il resto delle famiglie destina ai farmaci solo il 40% della spesa sanitaria, perché investe maggiormente in prevenzione. È particolarmente significativa la spesa delle persone in stato di indigenza per i servizi odontoiatrici: 2,35 euro mensili, contro 24,83 euro del resto della popolazione.
La strategia del risparmio nelle spese sanitarie, che riguarda di fatto oltre 5 milioni di famiglie, si configura quindi, spiega il Rapporto, come «un vero e proprio comportamento di massa». Nel triennio 2014-16 la percentuale di italiani, non poveri, che ha limitato il numero di visite e accertamenti è passata dal 24 al 20%. Il dato, invece, è aumentato tra le famiglie povere, passando dal 43,4% al 44,6%. «Nonostante questa strategia di contenimento della spesa sanitaria a proprio carico - si legge nel Rapporto - i dati ufficiali indicano una progressiva divaricazione tra la spesa pubblica (in riduzione) e quella privata (in aumento). In particolare, la quota di spesa per assistenza farmaceutica non sostenuta dal Servizio Sanitario Nazionale e a carico totale delle famiglie sfiora il record storico, passando al 40,6% rispetto al 37,3% dell'anno precedente».
La crisi economica sta uccidendo? È la domanda che si sono posti i ricercatori a fronte dell'aumento dei decessi nel nostro Paese. «Dal più recente bilancio demografico diffuso dall'Istat, nel 2017 i morti, in Italia, sono stati 649 mila, 34 mila in più rispetto al 2016 - scrive il demografo Gian Carlo Blangiardo nel suo editoriale contenuto nel Rapporto - Nel 2015, i morti sono stati 50 mila in più rispetto al 2014. Nell'ultimo secolo, solo nel corso della Seconda guerra mondiale (1941-1944) e nel 1929 si registrano picchi analoghi. Il richiamo al 1929 evoca un legame tra malessere economico e debolezza del sistema socio-sanitario che, pur con tutte le varianti e le riletture indotte dai tempi moderni, può aiutarci a capire l'altalena della mortalità su cui rischia di adagiarsi la popolazione italiana».
«Sono davvero troppe le persone che non hanno un reddito sufficiente a permettersi il minimo indispensabile per sopravvivere - commenta Sergio Daniotti, presidente della Fondazione Banco Farmaceutico onlus -. I dati pubblicati quest'anno dimostrano che il fenomeno si è sostanzialmente consolidato nel tempo e che, prevedibilmente, non è destinato a diminuire sensibilmente nei prossimi anni. Siamo anche convinti che il nostro Paese è caratterizzato da una cultura del dono che si esprime in maniera particolarmente visibile durante la Giornata di Raccolta del Farmaco, quando centinaia di migliaia di cittadini donano un medicinale per chi è più sfortunato. La strada per cambiare le cose è che quella cultura si diffonda sempre più anche tra le istituzioni e le aziende farmaceutiche e che queste ultime inizino a contemplare la donazione non più come un'eccezione, ma come parte del proprio modello di sviluppo imprenditoriale destinato al bene di tutta la comunità»

lunedì 19 novembre 2018

Francia. “La collera dei dimenticati

Le Monde racconta che per ore hanno giocato a gatto e topo con la polizia. Ma alla fine le centinaia di “giubbotti gialli” arrivati e mobilitati a Parigi non sono riusciti a raggiungere l’Eliseo e le finestre di Emmanuel Macron, Di fronte a queste proteste contro l’aumento del prezzo della benzina (soprattutto con aumenti delle accise decise dal governo), dalle autorità non sono arrivate le risposte attese dai giubbotti gialli. Il governo infatti ha confermato, per bocca del ministro alla Transizione Ecologica, quello che definisce la sua “politica fiscale ed ecologica”, quindi l’aumento della benzina ci sarà.
Una dichiarazione che certo appare come benzina sul fuoco. E i giubbotti gialli hanno deciso di proseguire con i blocchi stradali in tutta la Francia. Il media indipendente Mediapart definisce quanto sta accadendo come la “collera dei dimenticati” e lo definisce come un movimento destrutturato e proteiforme che ormai sta superando la sola protesta contro l’aumento delle tasse sui carburanti.

La “lista delle doglianze” infatti è diventata assai più ampia:  le tasse sui carburanti, i prezzi elevati del gas, le limitazioni di velocità a 80 km / h, le pensioni tagliate, la perdita del potere d’acquisto, i ricchi sempre più ricchi e l’aumento dei poveri hanno fatto scendere la gente in piazza per strada in strada. Il Ministero degli Interni parla di 283.000 dimostranti sparsi in oltre 2 000 raduni e blocchi stradali.
Una cifra inferiore a quella annunciato da chi protesta che parlano di almeno un milione di persone in tutto il paese. “È in corso un enorme momento di autoorganizzazione popolare. La gente ha già superato gli ostacoli della diversione e della deterrenza. Scoprirà l’ostinazione del potere ” ha affermato il leader della France Insoumise,
Jean Luc Melenchon, contestando i numeri riduttivi sulle proteste diffuse dal governo.


Ma da chi sono composte queste manifestazioni di protesta? Giovani, anziani, madri, contadini, impiegati, artigiani, disoccupati, molti di loro non certo abituati a manifestare.
Le Monde cita il caso di Johnny Herter, 25 anni che vive in una piccola città vicino ad Angers. Presto sarà papà per la quarta volta. Ha fatto molti lavori in fabbrica e nel commercio ma in questo momento è disoccupato e “non ce la fa più”. Questa è la sua prima azione militante e per l’occasione è venuto insieme con i suoi cugini e amici. “Sentivo che con i “giubbotti gialli”  avremmo finalmente messo le cose in movimento. Ha funzionato bene nel maggio 1968, quindi perché non ora? “

venerdì 16 novembre 2018

Un mondo senza uccisioni del(l’Impero) USA?

Ovviamente, non siamo ancora a quel punto. E può volerci un altro po’: c’è molta resilienza in quella costruzione, e negli USA stessi.
Ma alcuni segni sono inequivocabili. Gli USA stanno come ritirandosi dal mondo – dall’Asia orientale, dall’Afghanistan, e da alcune parti dell’Asia occidentale – il “Medio Oriente” per come visto da Londra – e piantando le tende in Nord America; in quello che in questa rubrica si è per decenni chiamato MEXUSCAN, un acronimo neutro dei tre paesi da sud a nord.
Però Washington lo chiama UMC, ossia USA-Messico-Canada con sé per prima (ovviamente), poi seguono il Messico latino e il Canada anglico.  Non proprio a caso, “UMC” sta anche per US Marine Corps, il cui capo se n’è deliziato.
A parte questo, comunque: dal considerarsi in cima al mondo al vedersi in cima al solo Nord America c’è pur sempre una “contrazione” non da poco. Anche se gli USA si ritirano concentrandosi sul Nord America con la loro ben nota massima “nessuno sopra, nessuno neppure al fianco” intatta. Quindi incontestata America per Prima, ma fra 3 non più 193 stati. Contrazione, appunto.
Ciò che resta qua e là per il mondo è una certa formazione di forze locali presumibilmente disposte a combattere guerre USA, senza partecipazione di sue truppe. E “consiglieri” e “formatori”– non proprio la stessa cosa. E un’enorme quantità di materiale, armi e piattaforme; pronta ad accedere a un mercato degli armamenti più fiorente che mai.
Beh, unità USA ad alta mobilità avranno ancora per qualche tempo impatto come pura potenza d’intervento, e sua minaccia. E, seppure non più in gestione militare e politica del mondo intero ma di una sua modesta fetta, non hanno concorrente mondiale alla propria cultura in quanto cultura mondiale. Se la leadership USA fosse stata più culturale e meno militare-economica-politica, avrebbero celebrato di più la loro diffusione culturale globale e deplorato meno i propri deficit militari-economici-politici.
I circa 248 interventi militari USA da quello di Thomas Jefferson in Libia nel 1801 vengono giustificati negli USA in quanto procurano agli affari USA una portata globale nell’accesso a risorse e mercati. Il Messico e il Canada stanno ora provando che cosa questo comporti con il concentrarsi su di sé e qualche neo-associato NAFTA di molta dell’enorme potenza USA.
Tuttavia, c’è una valida alternativa aperta per Washington: gli USA stessi; come pure il Canada con enormi spazi aperti da colonizzare e sviluppare. Il nuovo limite dopo il ritiro dal mondo come insieme e la nuova attenzione al Nord America è il cielo ove si tratti di livello materiale di vita. Però, molti cittadini USA, forse i più, sembrano credere a un mantra chiave dei nostri tempi: “così davvero basta”.
Non chiamare solo uno dei 35 stati del continente “America”, e i suoi cittadini “Americani”: seppur ben informato, Thomas Friedman ha difficultà a venirne fuori.  “USiani” sarebbe giusto ma brutto, quindi: “cittadini US”.  Non d’America, bensì in America.
Con tutto ciò non si vuol negare che qualcuno dei ca. 248 interventi militari US possa aver fatto qualcosa di buono, ma negare che gli US fossero, siano e restino indispensabili nel farlo. L’ONU, un frutto di elaborazioni mentali US in buona parte, ormai quasi adulto col proprio cervello in un’Assemblea Generale con un voto per stato, potrebbe, può e potrà svolgere meglio i compiti indicati ai capitoli 6 e 7 senza una concorrenza US non richiesta – alla quale si è invece finora spesso ceduto.
In breve, anche se in future possono esserci casi malsani in cui un rapido intervento alquanto unilaterale US potrebbe aver funzionato meglio di quanto possa combinare l’Assemblea Generale ONU, l’affidarsi a 1 dei 193 stati è di per sé sintomo patologico: si chiama mon-archia; dittatura.
Inoltre, che liberazione per gli US condividere con altri la responsabilità della “stabilità” come la chiamano loro, anziché reggerla da soli! Ci saranno errori in futuro, come al presente e in passato, ma l’Assemblea Generale ONU è il posto dove discernere tali faccende, non Washington DC.
Un mondo senza uccisioni US sarebbe un grosso contributo a una pace negativa, al “mondo non omicida” di Glenn Paige; il suo paese, con o senza pena di morte, che smette di uccidere ovunque capiti. Sta arrivando. E in quanto a US e una pace positiva? Potrebbero meno uccisioni US contribuire anche a quello?  Anche ciò è in arrivo, come mutamento della mentalità US.
Recentemente si rilevano vari segni in tale direzione, come espressione del fatto che Washington ora veda i limiti alla “politica con mezzi militari”. Ci sono suggerimenti dalla Casa Bianca tipo “far questo, far quello, per una pace con mezzi pacifici”, da accogliere tutti. Sarebbe però ingenuo supporre che l’opzione militare non sia ancora sul tavolo US – Washington assicura ancor sempre al mondo che lo è.
Se quest’analisi è più o meno corretta, la pace è in procinto di avere un vettore piuttosto importante: gli US, con enormi risorse di pensiero, parola e azione. Il che influirà su altri, che saranno indotti ad accordare i propri strumenti ai temi della pace. Nel nostro mondo attuale multi-polare di coesistenza pacifica passiva, USA e Israele sono i due restanti stati belligeranti. Cambiando gli US cambierà pure Israele, da stato espansionista e colonialista in terre altrui “dal [Nilo] (in Africa) all’Eufrate”, a stato membro di una Comunità West-Asiatica, una WAC. Gli US nel NAFTA, Israele nella WAC, tutt’e due per la pace —.
Fra gli altri pezzi grossi mondiali, si può sostenere che la UE sia già su questa linea, e così il  Commonwealth. E l’Unione Africana; e l’ELAC; e soprattutto la Shanghai Cooperation Organization (SCO) dal 2002, con l’India e il Pakistan una buona metà dell’umanità.
Può però la Cina recedere dalla sua attuale gara degli armamenti alla sua precedente strategia di pace Win-Win? Certamente, in effetti è già a tal punto, ma adesso con un sovrastrato molto convenzionale di gara per gli armamenti interstatale.
Con gli US che diventano un campione di pace, come in questo saggio non solo si spera ma si asserisce, gli US restano un faro per il mondo. Con luce verde, non più rossa.

giovedì 15 novembre 2018

Il fascino “sinistro” dell’austerità

Nei scorsi giorni è uscito – e ha stimolato un certo dibattito – un contributo sulla rivista Left (rivista che, se il principio nomen omen ha un senso, dovrebbe essere di sinistra), dal titolo evocativo: “Le politiche di spesa in deficit non sono rivoluzionarie. Sono di destra”. Lo scopo immediato di questo articolo traspare già dal titolo ed è un paradossale attacco, da destra, al terribile governo pentaleghista, camuffato in modo pericoloso nella sua etichettatura formale da critica da sinistra.
Proviamo a sintetizzare il ragionamento e seguire i diversi salti logici di cui è intessuto. L’autore riconosce, francamente, che l’architettura istituzionale europea, nella sua attuale configurazione – la quale, è bene ricordarlo, è l’unica configurazione esistente, reale – ha di fatto sottratto ai paesi membri la possibilità di fare politica fiscale, paesi membri che, quindi, sono stati scientemente privati dello strumento principe per contrastare recessioni e disoccupazione. A questa presa di consapevolezza segue un periodo apodittico, secondo il quale “Non c’è nulla di sinistra e di rivoluzionario nel fare politiche di spesa in deficit: oggi, in Europa, la creazione di debito a livello nazionale è, per forza di cose, una politica sovranista, una politica antieuropea”. L’argomentazione è confusa ma, secondo l’autore, non ha bisogno di ulteriori spiegazioni. Il dato politico è, però, chiaro. Contro ogni evidenza, si riconosce al Governo la volontà di effettuare politiche espansive, di contrasto all’austerità. Nonostante questo sia patentemente falso, Left ci spiega che qui risiede il problema. Ribellarsi all’austerità – cosa che il Governo, è bene ribadire, non fa neanche minimamente – è sbagliato. Da qui l’attribuzione dell’etichetta di sovranista, la quale, pare di intendere, si applicherebbe anche ad un eventuale governo di sinistra seriamente intenzionato a riappropriarsi della propria sovranità economica.
A scanso di equivoci, è bene ricordare che l’attuale manovra del governo pentaleghista, al di là delle chiacchiere, non rompe con l’Europa sul fronte dell’austerità. È, infatti, completamente incentrata sulla sottrazione di risorse dall’economia mediante avanzo primario. Nel pezzo, tuttavia, si compie un capolavoro: da un lato non si menziona che anche questa manovra governativa è perfettamente nel solco di quelle che la hanno preceduta, l’ennesima esclusivamente nel segno dell’austerità. Dall’altro si ricorre ad una critica basata sulla forza redentrice dello spread, una posizione pericolosa tanto quanto quella dell’appoggio incondizionato a questo governo.
Con un ulteriore salto, l’articolo passa a discutere di quale sia il livello istituzionale al quale è giusto e necessario combattere le battaglie politiche in questione. L’unico livello di lotta politica oggi sensato, ci dice l’autore, è quello sovranazionale/europeo. A questo si fa subito seguire un classico non sequitur, piuttosto abusato nel dibattito a sinistra ma mai detto espressamente: dato che la battaglia è comune a tutti i lavoratori europei, allora questa battaglia va condotta dentro le istituzioni europee e dentro le regole stabilite dalle istituzioni europee stesse. Non sembra importare che queste regole abbiano, per costruzione, lo scopo di costruire una gabbia che impedisca ai Governi dei paesi membri ogni possibile tentativo di effettuare politiche espansive. Apparentemente, è più facile vagheggiare della necessità di una politica fiscale comune a tutti i paesi. Politica fiscale che, per qualche ragione, dovrebbe invertire la rotta che l’Unione Europea ha seguito dalla sua costituzione, fatta di austerità e tagli a spesa pubblica e stato sociale. Non sembra neanche importare, all’autore e a chi si fa portatore di queste istanze, l’implicazione più immediata. Seguendo questa linea di ragionamento, fino a che non si riuscirà a coordinare a livello europeo una fantasiosa politica comune fatta di copiosi investimenti pubblici, c’è una sola opzione sul tavolo: l’immobilità totale, nonostante disoccupazione galoppante e crollo del potere d’acquisto delle classi popolari. L’autore, e chi come lui, si dimentica anche di esplorare uno scenario tremendamente plausibile: nel caso non così remoto che i rapporti di forza a livello europeo non conducano a nessun cambiamento sostanziale negli orientamenti di politica economica, che compiti ha la sinistra di classe? A questo punto sarebbe legittimo interrogarsi su un’alternativa di rottura o si sarebbe ancora a rischio di scomunica sovranista?
La gabbia sovranazionale che attanaglia gli Stati membri dell’Eurozona è proprio quella che impone la matrice di totale austerità che, a parole, tanto preoccupa l’autore dell’articolo, e che permette a governi come il nostro di passare per (finti) rivoluzionari, a fronte di politiche che sono di destra in quanto basate su austerità e misure socialmente pericolose. Combattere per rompere questa gabbia, un’attività che non interessa neanche minimamente la compagine governativa, è univocamente di sinistra, invece. Da un lato, permette di sgomberare il campo da un equivoco di fondo: i gialloverdi, ed i loro amici europei dell’internazionale fascio-sovranista, sono perfettamente a loro agio dentro il perimetro della compatibilità europea. Dall’altro, permette la riappropriazione di uno spazio politico contendibile per il mondo del lavoro (italiano, spagnolo, greco, tedesco…europeo) ed in generale delle classi subalterne, nel quale lottare per l’attuazione di politiche economiche emancipative senza la scure preventiva dei vincoli europei. Negare questo vuol dire condannarsi al non fare nulla e ad accettare, nei fatti, lo stato delle cose attuale. È bene tenerlo in mente, quando ci raccontano favole come quella uscita su Left.

mercoledì 14 novembre 2018

Il decreto Genova, le opere e le autorità di sorveglianza

Avanza il decreto per la ricostruzione del Ponte Morandi e si aggravano le accuse della magistratura sulle responsabilità. Ancora in verifica Gronda e Terzo Valico e serviranno altri 43 decreti attuativi. Ma soprattutto serve un’idea di città resiliente e sostenibile per il futuro. A Genova e non solo lì.
A quasi tre mesi dal crollo del Ponte Morandi con i suoi 43 morti e centinaia di sfollati, la magistratura prosegue le sue indagini sulle cause e le responsabilità, mentre il Parlamento si è occupato a più riprese del disastro e della ricostruzione, con audizioni, mozioni ed infine con il decreto legge Genova (Dl 28 settembre 2018, n. 109), approvato alla Camera in prima lettura il 31 ottobre e ora all’esame del Senato. A smentita degli annunci iniziali del governo e di Autostrade per l’Italia, in cui tutto sarebbe stato svolto in modo rapido, si prosegue tra polemiche continue e aggiustamenti di tiro, sia per le divergenze dentro la maggioranza e sia per la complessità delle misure da realizzare, ampiamente sottovalutate nei primi annunci.
Riprova ne sia che a differenza degli applausi per il governo durante i funerali delle vittime, a fine settembre sfollati e genovesi hanno contestato il ministro Danilo Toninelli leggendo la prima stesura del decreto legge di aiuti, così come è avvenuto con il braccio di ferro sulla nomina del commissario straordinario per la ricostruzione che ha visto bruciare nomi già indicati per poi ricadere sul sindaco di Genova Marco Bucci. O ancora con le divergenze tra il governo Giuseppe Conte e il presidente della Regione Liguria sul ruolo di Aspi nella ricostruzione del ponte Morandi ed il ruolo della stessa Regione nella gestione dell’emergenza.
Estremamente pesanti le critiche del presidente dell’Autorità anticorruzione Raffaele Cantone al testo del decreto legge Genova approvato in Consiglio dei ministri, in cui si consentiva la ricostruzione in deroga a tutte norme vigenti, incluse quelle antimafia, creando preoccupazione per le infiltrazioni e la corruzione che potrebbe essere alimentata dagli investimenti e movimenti terra dei lavori. Una misura che a seguito della segnalazione dell’Autorità Anticorruzione è stata parzialmente corretta dalle modifiche approvate in Parlamento.
Cosi come giova ricordare che il decreto legge Genova è diventato un decreto omnibus su cui sono state inserite vergognose misure per il condono edilizio ad Ischia, un altro condono per le zone terremotate del 2016 nel centro Italia e la possibilità di sversare nei campi fanghi ripieni di idrocarburi di cui è stato innalzato appositamente il limite.
La Commissione ispettiva istituita subito dopo la tragedia dal ministro Toninelli al Mit (ridimensionata per le dimissioni di alcuni esperti e responsabili di uffici pubblici che sono poi risultati coinvolti nelle indagini dalla magistratura) ha consegnato a fine settembre le sue conclusioni. “Il rischio di crollo del ponte Morandi a Genova era evidente già negli anni scorsi, e ancor più lo era nel progetto di retrofitting di Autostrade del 2017. Eppure il concessionario ha sottovalutato “l’inequivocabile segnale di allarme”, ha “minimizzato o celato” la gravità della situazione al ministero delle Infrastrutture, e “non ha adottato alcuna misura precauzionale a tutela dell’utenza”. È quanto si legge nelle nette conclusioni della relazione della commissione Mit, ovviamente contestata da Autostrade per l’Italia che le ha definite “mere ipotesi”.
L’indagine della magistratura prosegue e si aggravano le accuse
E’ dal 14 agosto che le indagini della magistratura di Genova vanno avanti senza sosta sulle cause e le responsabilità del crollo del Ponte Morandi, con 21 persone e 2 società – Aspi e Spea – iscritte nel registro degli indagati. Ma a fine ottobre le posizioni si sono aggravate perché più si approfondiscono le indagini, più i magistrati si sono convinti che Autostrade per l’Italia, la Spea (società di Aspi addetta a progettazione e monitoraggio della rete), il provveditorato alle Opere pubbliche della Liguria e il ministero delle Infrastrutture, avessero la percezione “dell’ammaloramento del ponte Morandi”: in pratica sapevano che fosse a rischio crollo, anche se ” ritenevano di poterlo evitare”. A seguito di queste indagini, la procura di Genova ha cambiato il capo di imputazione: non devono rispondere più solo di omicidio colposo, disastro colposo e attentato colposo alla sicurezza dei trasporti, ma di “colpa cosciente”. Si tratta di «un reato che contempla una aggravante», ha precisato il procuratore aggiunto Paolo D’Ovidio, infatti in caso di condanna gli imputati avrebbero l’aumento di pena di un terzo. Non resta che vedere gli sviluppi dell’inchiesta, molto complessa, sull’accertamento delle cause e delle responsabilità.
Il decreto legge Genova per la ricostruzione
È diventato un maxi decreto da 60 articoli il decreto legge “Genova”, anche detto “Urgenza” (DL 28 settembre 2018, n. 109) approvato dalla Camera in prima lettura il 31 ottobre 2018: ora il testo passa ora all’esame del Senato e deve essere convertito in legge entro il 27 novembre. Il provvedimento contiene le misure per la ricostruzione del Ponte Morandi crollato e quelle di indennizzo degli sfollati, dei cittadini e delle imprese di Genova danneggiate dal crollo. Il decreto stanzia complessivamente 630 milioni di euro, di cui 360 milioni per la ricostruzione del ponte e per le nuove case degli sfollati, oneri che secondo il testo dovrà comunque pagare Autostrade per l’Italia – e 270 milioni per minori tasse, zona franca urbana, e sostegni alle imprese. Il disegno di Legge di Bilancio 2019, appena arrivato in Parlamento, aggiunge poi altri 460 milioni di euro: 160 in due anni per indennizzi agli autotrasportatori, 100 in due anni ancora per la “Zona franca urbana”, 200 milioni per il piano di sviluppo portuale.
L’articolo 1 del decreto legge prevede la nomina, da parte del presidente del Consiglio, di un commissario straordinario per la ricostruzione del ponte Morandi e della viabilità connessa. Il 4 ottobre scorso il presidente Conte, dopo un lungo tira e molla delle forze politiche di governo, ha annunciato la nomina a commissario del sindaco di Genova Marco Bucci, ma il Dpcm non è ancora uscito in Gazzetta e serve un altro Dpcm per la costituzione della struttura di supporto al commissario.
L’articolo 1-bis, aggiunto con un emendamento alla Camera, stabilisce gli indennizzi per i proprietari di case da demolire, oggi sfollati, mentre l’articolo 1-ter stabilisce che il commissario debba individuare subito i tratti autostradali A7 e A10 funzionalmente connessi al viadotto Polcevera, che Autostrade per l’Italia deve immediatamente consegnare al commissario. Una sorta di revoca della concessione ad Aspi su questo tratto incriminato, in modo da consentire un rapido avvio della ricostruzione e limitare il contenzioso. La norma stabilisce che spetta ad Autostrade per l’Italia, non solo pagare la ricostruzione del ponte, ma anche pagare tutti gli indennizzi agli sfollati, per il trasloco e la nuova casa.
I poteri del commissario sono praticamente illimitati, con possibilità di deroga a ogni norma di legge extra penale, ma a seguito della segnalazione del presidente dell’Anac Raffaele Cantone, la Camera ho modificato il testo e ha stabilito che il commissario deve rispettare il codice antimafia (Dlgs 159/2011), con procedure però accelerate per il rilascio del certificato antimafia da parte delle prefetture da stabilire con decreto del ministro dell’Interno. Aspi dovrà pagare entro 30 giorni dalle richieste del commissario, e in caso di diniego quest’ultimo potrà chiedere anticipazioni a banche garantendo la restituzione con le coperture indicate in bilancio (360 milioni di euro).
Per l’affidamento degli appalti (demolizione, progettazione del nuovo ponte, lavori di ricostruzione), il commissario Bucci non potrà assegnare alcun incarico ad Autostrade o società controllate/collegate, ma ogni altra esclusione anche di altre concessionarie, è stata eliminata rispetto al testo iniziale.
Il decreto nulla dice rispetto alle modalità di affidamento, ma il commissario Bucci ha già precisato che farà gare semplificate, dai tempi stretti, a inviti: saranno invitate 5-10 imprese per ogni incarico, scegliendo le migliori sul mercato, e affidando la scelta a una commissione di tecnici esterni.
Ancora non è chiaro poi quale sarà il ruolo di Fincantieri, che in un primo tempo secondo diverse dichiarazioni del governo, sembrava dovesse essere il principale attore e gestore della ricostruzione del Ponte.
Altre misure del decreto su infrastrutture, sicurezza e regolazione
Il decreto legge contiene altre misure più generali ma sempre riferite alle infrastrutture, sicurezza e regolazione. Un articolo impone a tutte le concessionarie autostradali di avviare subito un’attività «di verifica e messa in sicurezza di tutte le infrastrutture viarie oggetto di atti convenzionali, con particolare riguardo ai ponti, viadotti e cavalcavia», da concludere entro 12 mesi.
Una novità inserita nel decreto – all’articolo 12 – è l’istituzione di una nuova Agenzia per la sicurezza ferroviaria e stradale/autostradale (ANSFISA). In sei mesi dovrà accorpare ANSF, l’attuale Agenzia per la sicurezza ferroviaria, con nuove figure e nuove competenze sulla rete stradale e ferroviaria, a cui sono destinati oneri per 22 milioni di euro all’anno. Avrà compiti di regolazione, ispezione e sanzioni sui gestori delle reti, ai fini della sicurezza.
Per rafforzare le capacità di vigilanza da parte del ministero delle Infrastrutture sullo stato delle opere pubbliche viene istituito il nuovo Archivio informatico nazionale delle opere pubbliche (AINOP), una banca dati alimentata dai soggetti gestori, aggiornata costantemente e con sperimentazione anche di sensori posti sulle infrastrutture e connessi in tempo reale. A questo scopi il decreto autorizza l’assunzione di 200 nuovi tecnici al Mit (ministero dei Trasporti), con oneri per 7,2 milioni di euro l’anno.
Sempre in materia di infrastrutture e regolazione, il decreto all’articolo 16 comma 1, rafforza i poteri dell’Autorità di regolazione dei trasporti (ART) sulle concessioni autostradali, estendendo il compito di verifica di tariffe e assetti regolatori anche alle vecchie concessioni (quelle esistenti al 28 dicembre 2011) e non solo a quelle nuove e future. Si tratta di una significativa estensione di poteri ma che già ha dato luogo a diverse interpretazioni sulle reali possibilità di ART di intervenire sulle concessioni e relative convenzioni in corso di validità (praticamente tutte e con scadenze assai lontane nel tempo).
Inoltre la stessa norma aggiunge il parere della stessa ART per la revisione degli atti convenzionali vigenti, per la revisione delle tariffe e al verifica sugli investimenti effettivamente realizzati. Atti che restano sempre di competenza del Mit e del Mef (ministero dell’economia) da emanare con decreto. Quindi, se da un lato si estendono le funzioni di ART – e questo è certamente positivo – siamo però ancora lontani dai poteri di una Autorità indipendente sulla regolazione delle concessioni autostradali.
Nel decreto – sempre all’articolo 16, ma comma 2 – si anticipano 192 milioni di euro (già presenti nel Bilancio 2018) a favore di Strade dei parchi Spa, concessionaria della autostrada Roma-L’Aquila-Teramo (gruppo Toto,) al fine di avviare subito le opere più urgenti di messa in sicurezza sismica dei viadotti della A24/A25. Anche in questo caso è lo Stato che deve intervenire per mettere in sicurezza una autostrada in regime di concessione privata, a conferma dei gravi limiti delle attuali convenzioni autostradali.
Nasce infine la cabina di regia «Strategia Italia», a Palazzo Chigi, per il monitoraggio e il rilancio dei programmi di investimento in opere pubbliche, in particolare quelli per dissesto idrogeologico, antisismica, bonifiche. Anche questa non è una novità perché anche i governi precedenti avevano varato misure analoghe di coordinamento e vigilanza sugli investimenti.
Un limite oggettivo del decreto legge per Genova, è che prevede la redazione e approvazione di 43 decreti attuativi, che allungheranno i tempi di attuazione di diverse misure previste dalla norma. C’è da augurarsi che i tempi siano rispettati per avviare rapidamente la ricostruzione e dare una soluzione reale alle famiglie sfollate.
Ancora assenti le proposte del Governo sulle nuove regole per le concessioni autostradali
Quello di cui invece non c’è decisamente traccia nei provvedimenti e nel confronto politico riguarda le proposte del governo sulle nuove regole per le concessioni autostradali, in cui riequilibrare il rapporto distorto tra interesse pubblico e interesse privato, come è emerso in modo chiaro dopo il disastro di Genova, quando sono stati resi finalmente noti gli atti convenzionali di tutte le concessionarie autostradali, a fine agosto.
Ma su  tutto questo per ora il governo tace, nonostante le pesanti accuse del vice presidente del Consiglio Luigi Di Maio al sistema delle concessioni autostradali ed ai governi precedenti di destra e di sinistra per aver assicurato un sistema sbilanciato verso i profitti privati a scapito dell’interesse pubblico, degli investimenti e della manutenzione della rete. Questo silenzio non sorprende perché è nota la distanza tra il movimento Cinquestelle ed il partito della Lega, assai contiguo nelle regioni del Nord al sistema delle concessioni autostradali.
Anche dal fronte della procedura di revoca avviata dal governo e dal Mit con la contestazione della concessione ad ASPI per le inadempienza, non ci sono novità: ASPI ha consegnato le sue controdeduzioni e ora sono in corso le valutazioni da parte del governo e del Mit. Anche in questo caso c’è da immaginare che i tempi di decisione non saranno brevi.
In corso è anche la verifica sulle grandi opere come Terzo Valico e Gronda autostradale di Genova. Ma serve una idea di città del futuro.
Nella nota di aggiornamento del documento di economia e finanza 2018 (NADEF), presentato dal governo a fine settembre e condiviso dal Parlamento, viene descritta l’importanza degli investimenti pubblici su cui “invertire la tendenza negativa in atto da molti anni e precipitata ulteriormente dall’inizio della crisi”, con l’obiettivo di raggiungere almeno il 3% di investimenti in rapporto al PIL. Quindi, la solita invocazione degli investimenti come volano dell’economia e dell’occupazione a cui ci hanno abituato da sempre governi di destra e di sinistra degli ultimi 30 anni.
Ma questa invocazione viene mitigata nello stesso documento NADEF quando il governo in modo opportuno “ribadisce la sua intenzione di portare a compimento gli investimenti strategici seguendo standard rigorosi di efficienza e, a questo scopo, intende sottoporre ad una analisi costi-benefici e ad un attento monitoraggio le grandi opere in corso (i.e. la Gronda autostradale di Genova, la Pedemontana Lombarda, il Terzo Valico, il collegamento tra Brescia e Padova e la tratta Torino-Lione). Una verifica che sta svolgendo la Struttura Tecnica di Missione del Mit e che nei prossimi mesi darà conto dei primi risultati di questa verifica, incluse le due opere legate a Genova ed al suo territorio. Vedremo i risultati e quali saranno le decisioni che verranno assunte di conseguenza.
Il tema delle grandi opere è però estremamente divisivo nel governo, come dimostrano le polemiche costanti su ogni investimento. Il vice presidente Matteo Salvini ha già dichiarato più volte che la Lega era e resta favorevole alle grandi opere come la Gronda di Genova, e che le verifiche vanno bene purché si concludano con il via libera ai lavori. Anche in questo caso dunque lo scontro con il movimento Cinquestelle è solo rimandato.
Se da un alto la verifica sulle grandi opere in corsa è opportuna, dall’altro serve anche un’idea diversa di città, di mobilità sostenibile, di riqualificazione territoriale, di resilienza ai fenomeni estremi, di capacità di contrastare il dissesto idrogeologico, di cui Genova, come tutte le grandi città, ha un forte bisogno.
Sul tavolo è già arrivata la proposta dell’architetto Renzo Piano secondo cui l’area della Val Polcevera coinvolta nel crollo del Ponte Morandi, “è di grandissima importanza”, anche se “sostanzialmente periferica”. “Ho lavorato sempre sul tema delle periferie – ha aggiunto – un’area di trasformazione, industriale e ferroviaria, un’area di straordinaria importanza per la città, Genova non può pensare di crescere né verso mare né verso monte, quindi l’area dove passava il ponte ha un grande valore urbanistico”. L’obiettivo deve essere come trasformare le vecchie aree industriali in ‘città’, “urbanizzarle”.
Ecco un’idea di città su cui coinvolgere le forze vitali della cittadinanza attiva per guardare al futuro resiliente e sostenibile dell’area metropolitana di Genova.

lunedì 12 novembre 2018

14 milioni di alberi abbattuti. Un disastro epocale diventa il pretesto per nuovi interessi economici

Non c'era chi si fregava le mani dopo il terremoto? Imprenditori intercettati mentre sghignazzavano parlando delle future commesse. Perché dai terremoti si può guadagnare, anche senza fare niente di buono e anzi aggiungendo danno al danno, se si hanno buoni amici tra i politici al potere in quel momento o in quella regione. Ma si può guadagnare, aggiungendo danno al danno, anche dalle calamità naturali, facendo leva sull'opportunismo e sull'ignoranza.
 
Il 29 ottobre sull'Italia hanno soffiato venti da uragano. Venti che in molti luoghi hanno superato i 200 chilometri orari, velocità che caratterizza gli uragani di categoria tre.

Ai tropici, dove tali uragani sono relativamente comuni, crescono le palme e un motivo ci sarà. Gli abeti, i larici, i pini, e persino le querce e i faggi non resistono a venti così violenti, e ne abbiamo avuto già dimostrazione qualche anno fa sull'Appennino tosco emiliano, seppure in misura minore. E infatti nei luoghi colpiti dai venti a 200 chilometri orari milioni di alberi (14 milioni è la stima) sono stati abbattuti e distrutti. E con loro quanti milioni di animali selvatici che in quelle foreste avevano casa e rifugio?

Un disastro di proporzioni immani, che dovrebbe scuotere le coscienze di tutti gli abitanti di questo disgraziato paese. Una finestra di orrore da cui possiamo dare un'occhiata al futuro che ci aspetta grazie al riscaldamento globale provocato dal nostro stile di vita e dalla follia di chi ci domina e di chi ci governa. Il potere economico in primis e quello politico subito dopo.

Quattordici milioni di alberi sono quattordici milioni di creature che contrastavano l'aumento dell'effetto serra, che producevano ossigeno, mitigavano il riscaldamento del suolo e dell'aria nelle estati sempre più calde; erano rifugio e cibo per mammiferi, uccelli, insetti; ci davano speranza e bellezza. Si dovrebbe piangere sul loro sterminio, arrabattarsi per cercare tutti insieme delle soluzioni per rimpiazzare al più presto quegli alberi sterminati, per mettere in atto politiche radicali che contrastino il riscaldamento del pianeta.

Invece no. Si attacca subito a sproloquiare per portare acqua al proprio mulino. Le calamità ambientali diventano un pretesto per attaccare gli ambientalisti e i vincoli ambientali. Come ai tempi in cui i giudici assolvevano gli stupratori, dando la colpa alle donne stuprate: se loro non fossero esistite, quei poveretti non sarebbero caduti in tentazione. Se non ci fossero gli ambientalisti e i vincoli ambientali, le imprese forestali avrebbero già potuto papparsi le foreste, che così non sarebbero state devastate. Non fa una grinza.

Sì, perché "l'acqua al proprio mulino" che sta portando una parte dei politici di governo e dei politici amministratori locali, è in realtà acqua al mulino delle grandi e medie imprese di distruzione dell'ambiente. Molte di tali imprese sono implicate in inchieste di mafia, tanto per non farci mancare nulla. Basti pensare alla Sila, ai boschi sequestrati, alle illegalità sul Gargano, alle trame sul verde pubblico, tanto per fare degli esempi.

Cui prodest? A chi giova? E' sempre la domanda che rivela il trucco. Siete dei bari, signori! A meno che non siate così ignoranti...

Dragare i fiumi non serve ai fiumi e alle terre che li fiancheggiano. Li uccide e, nello stesso tempo, ne aumenta la portata d'acqua e la velocità, rendendoli delle bombe sparate da un missile. Ma, naturalmente, giova alle imprese del movimento terra con i loro bei superescavatori e le loro super ruspe, il loro lavoro nero e le inchieste di mafia che coinvolgono molte di loro.

Gioverebbe alle popolazioni che vivono lungo le rive dei fiumi non aver costruito nelle zone di esondazione. Gioverebbe a tutti che lungo i fiumi ci fossero ancora quei bei boschi e boscaglie ripariali di salici, ontani e pioppi, che si lasciavano allagare tranquillamente e sopravvivevano allegramente dentro l'acqua, smorzandone la violenza. Ma quei bei boschi ripariali impedivano di cementificare e asfaltare e adesso, al loro posto, ci sono appunto case e strade. Che, a differenza dei salici, non resistono agli straripamenti dei fiumi. Dove qualche bosco ripariale resiste ancora, oggi intervengono a distruggerli Regioni, Consorzi cosiddetti di Bonifica e... industrie di legname e biomasse. Gnam, gnam, quanta buona pappatoria!

Il mercato dell'energia è stato aperto, anzi spalancato, ai privati; le centrali a biomasse vengono sovvenzionate (con i nostri soldi, non dimentichiamolo) come energie rinnovabili (peccato che brucino in un'ora quello che per rinnovarsi ha bisogno di cinquant'anni), e gli speculatori di ogni tipo ci si sono tuffati. "Ados, ados, ch'el muntun l'è gros!", antico detto lombardo che si traduce "addosso che il mucchio è grosso". Peccato che "il mucchio" da cui vogliono portar via tutto il possibile non sia di loro proprietà, e quindi ce lo stanno fregando, con l'aiuto di chi dovrebbe rappresentarci e custodirlo per noi.

Lo stesso discorso del "gnam gnam" vale per i boschi. Ci dicono che le foreste italiane sono cresciute a dismisura, vogliono farcelo credere e farci credere che questa sia una sciagura. In tempi di incremento insopportabile dell'effetto serra e dell'anidride carbonica in atmosfera! Ci prendono proprio per scemi.

  Mistificano, nascondono, omettono. Omettono, per esempio, di dire che tutte queste "foreste" di cui parlano, nella maggior parte dei casi non meritano questo nome; si tratta di boschi regolarmente e continuamente tagliati, sfruttati all'osso e indeboliti, ridotti a delle monocolture. I nostri governanti vadano a vedere i boschi del Mugello, dell'Umbria e di tante zone dell'Appennino, ridotti a boscaglie rade con alberi di dieci centimetri di diametro e alti tra i quattro e i sei metri. Boscaglie, quelle sì, impenetrabili, perché non c'è ombra che impedisca ai rampicanti e agli arbusti di crescere e propagarsi senza limiti. Ma, naturalmente, anche queste boscaglie tagliate ogni dieci anni vengono classificate come "foreste".

Dimenticano, i divoratori di legname, di parlarci dei 140.000 ettari di boschi incendiati nel 2017, dei quasi 50.000 ettari del 2016 e così via di anno in anno. Incendi dolosi. Chissà chi li ha provocati. Poi bisogna "bonificare", cioè portare via la legna bruciata, e si viene anche pagati per questo. E' comunque biomassa e come tale viene utilizzata. Chissà chi ci guadagna. E infine anche quei boschi bruciati a centinaia di migliaia di ettari risultano "foreste" sulla carta.

Dimenticano di dire che tra fine '800 e primi del '900 un terzo dei boschi italiani era stato distrutto per fare posto a pascoli, e che quindi non è così straordinario che il bosco abbia poi ripreso una parte del proprio territorio.

E dimenticano di farci notare che l'80% del territorio del nostro un tempo bel paese è di collina e montagna, che tendono a franare quando i boschi non ci sono.

Ma, direte voi, se i boschi italiani sono già così sfruttati, cosa vogliono le imprese del legno, le aziende agrarie-imprese del legno e i corifei al loro servizio? Sorpresa! Vogliono mangiarsi i parchi nazionali, le riserve naturali, le foreste demaniali e, giacché ci siamo, quei pochi boschi privati che i proprietari rispettano. Hanno già il decreto legge dell'ex governo Gentiloni, che il presidente della nostra Repubblica ha senza indugi firmato, nonostante "presenti diversi aspetti di incostituzionalità" e che questo governo "del cambiamento" non si è sognato di buttare nel cestino dei rifiuti, nonostante sia un decreto incostituzionale ed ecocida. Mancano i decreti attuativi delle Regioni e poi... gnam gnam, quanti soldi, profitti, mazzette, crescita, sviluppo, frane, smottamenti, alluvioni, erosiono... Quanta morte machissenefrega.

E, siccome hanno paura che gli ambientalisti e quella parte del popolo che non è bue (senza offesa per i buoi veri, che non hanno scelto di esserlo) mettano qualche sassolino nell'ingranaggio, hanno attuato un attacco preventivo. Come fanno tutti gli imperialisti con coloro che rifiutano di essere sudditi.

Così un disastro epocale diventa il pretesto per fare gli interessi economici di una parte minoritaria e priva di scrupoli, a discapito degli interessi collettivi e generali del paese e delle generazioni future.

Tuttavia la cosa più deprimente in tutto questo vociare confuso e fatto per generare confusione contro ambientalisti, vincoli, natura, alberi e foreste, è constatare a che punto sia giunta la follia e la cecità di coloro che mettono al primo posto nel loro operato e nella loro vita il profitto economico e il privilegio e il potere che esso genera. Dopo una catastrofe terrificante, oltre a chi pensa come guadagnarci, c'è chi si chiama "governatore" e si preoccupa di aprire gli impianti di sci: non temete, consumate, spendete, guadagnate, arricchitevi, sprecate, inquinate, distruggete.

Di fronte a un disastro che ci fornisce la prova evidente che tutta la vita del pianeta è a rischio, che ci mostra un quadro di ciò che ci aspetta in un prossimo futuro, e rende evidente e tangibile proprio ciò che scienziati e ambientalisti pronosticavano se non avessimo arrestato l'incremento dell'effetto serra, come dovrebbe agire qualsiasi essere pensante e dotato di istinto di sopravvivenza? Pensavano ai soldi e alla carriera i passeggeri del Titanic che andava a fondo?

Preparate le scialuppe, cari signori, perché tutti i vostri soldi non vi rendono invulnerabili e, anche se foste tanti Nembo Kid, il riscaldamento globale è la kriptonite che vi annienterà, se non cerchiamo tutti di fermarlo.

Quanto agli "ambientalisti da salotto" del ministro Salvini, bisogna che qualcuno lo informi che non sono gli ambientalisti a frequentare i cosiddetti "Salotti" dove si trama e si intessono relazioni proficue. Noi ambientalisti siamo gente comune, che lavora in genere almeno otto ore al giorno, e dedica il suo tempo libero a cercare di salvare il pianeta a beneficio di tutti, anche dei ministri e dei loro figli e dei figli di imprenditori forestali e persino dei figli e nipotini di imprenditori mafiosi. Siamo (e parlo di quelli che conosco personalmente nella piccola realtà di paese dove vivo) contadini e contadine, commesse di piccoli supermercati, operai e operaie agricole, operai di piccole industrie, impiegati, un medico, qualche pensionato, una insegnante. Gente così.

Abbiamo anche noi un salotto o un salottino ma devo dire che li usiamo poco. Quando ci ritroviamo per una riunione a casa di qualcuno di noi, preferiamo sederci intorno al tavolo di cucina, perché ci permette di stare vicini, di consumare più agevolmente un caffè o una tisana o un bicchiere di vino (biologici e il caffè equo e solidale, bisogna precisare a chi non sa), di prendere qualche appunto se necessario. Paghiamo di tasca nostra, noi ambientalisti piudicucinachedisalotto, la stampa dei volantini e dei manifesti e locandine che facciamo per le nostre iniziative, e dunque non abbiamo tante risorse.

Tuttavia, noi ambientalisti piudicucinachedisalotto, coi nostri scarsi mezzi, siamo evidentemente un osso duro da masticare per speculatori e arraffatori, e sono certa che dopo questo disastro saremo un osso ancora più duro, sul quale si spezzeranno i denti. 

venerdì 9 novembre 2018

L'uguaglianza nell'ignoranza

Un’elevata ricchezza nazionale non è sinonimo di una elevata uguaglianza. Anche nei paesi più ricchi del mondo esiste un’inequità educativa. Anche nei quarantuno paesi ad alto e medio reddito membri dell’OCSE o dell’UE. Per fattori che sono fuori dal controllo dei bambini - visto che alcune cause possono risalire a prima della loro nascita - i quali, per questo, partono svantaggiati.

Per esempio, per la condizione economica famigliare che genera disparità che si manifestano presto e che tendono a persistere. Anche il genere e il luogo di nascita possono essere determinanti quali fonti di disuguaglianza, comprese (o escluse) le politiche e le pratiche del sistema educativo che, volendo, possono assumere un ruolo di livellamento tra le condizioni di partenza dei bambini o accentuarne le diversità (quando, addirittura, non crearne di nuove).

E’ il caso di Lettonia e della Lituania – i paesi più poveri fra quelli presi in considerazione dal Report Card 15 di Unicef, Partire svantaggiati – che si distinguono per l’accesso pressoché universale all’apprendimento prescolare e riescono a contenere le disuguaglianze delle prestazioni degli studenti più efficacemente rispetto a paesi che dispongono di maggiori risorse. Come, a esempio, Australia, Nuova Zelanda e Slovacchia che occupano la parte più bassa della classifica contro Finlandia e Portogallo che hanno i sistemi educativi più equi.

Però, se i nuclei familiari hanno un reddito basso, i bambini sopra i tre anni hanno meno probabilità di frequentare la scuola dell’infanzia, passaggio fondamentale per conseguire risultati duraturi nel percorso scolastico futuro. Fase che potrebbe essere preclusa, anche, ai bambini abitanti nelle zone rurali per l’assenza prossima di servizi: in Polonia, infatti, vi accede meno di un bambino su due e in Croazia uno su tre. A conferma del fatto che le circostanze in cui i bambini crescono incidono sul rendimento scolastico, i dati del report indicano che le differenze nell’occupazione dei genitori spiegano fino a un terzo del divario nel rendimento dei minori in lettura: ai bambini con almeno un genitore professionista corrispondono punteggi in lettura significativamente più alti rispetto ai figli di non professionisti, dai ventotto punti in Finlandia ai sessantasei in Bulgaria.

Incidono, pure, la lingua parlata a casa - avere un genitore con un vocabolario povero mette i ragazzi in una condizione di svantaggio, indipendentemente dal contesto sociale generale della famiglia - l’ubicazione della scuola e le sue caratteristiche, vedi i metodi di selezione che vanno da valutazioni basate sull’abilità accademica o sull’affiliazione religiosa fino alla selezione economica (con l’imposizione di rette elevate): in Germania, Cile, Israele, Lituania, Nuova Zelanda, Slovacchia e Ungheria, tutto ciò influisce per almeno il 25 per cento (sulla disuguaglianza).

Anche l’Italia registra una variazione di rendimento diseguale tra istituti scolastici e, soprattutto, a livello della scuola secondaria (rispetto alla primaria) e laddove gli studenti sono suddivisi in gruppi diversi all’interno dei plessi o frequentano istituti diversi in base al rendimento, quelli provenienti da famiglie meno privilegiate tendono a essere sovrarappresentati nei percorsi di livello inferiore, che offrono meno opportunità per il futuro.

giovedì 8 novembre 2018

Povertà in Italia: lo stato dell’arte

Nel quadro del confronto sulla manovra per il 2019, le promesse del M5s in relazione all’introduzione del reddito di cittadinanza hanno contribuito a riaccendere i riflettori sul tema della povertà. Nonostante la (timida) ripresa economica, l’incidenza della povertà più severa non solo non si è ridotta nel nostro Paese, ma è in aumento. Secondo i dati diffusi dall’Istat a fine giugno, le persone in povertà assoluta -coloro che non hanno risorse sufficienti per acquistare un paniere di beni e servizi ritenuto essenziale, tenendo conto della composizione del nucleo familiare e del costo della vita nell’area di residenza- hanno superato i 5 milioni, il dato più alto registrato da metà anni Duemila, quando sono iniziate le rilevazioni.
L’incidenza nel 2017 è stata infatti dell’8,4%, con 3,3 milioni di persone in più rispetto allo scenario pre-crisi. Sebbene via sia forte variabilità fra gli Stati, la povertà è un fenomeno che riguarda anche gli altri Paesi dell’Unione europea, con indicatori sensibilmente in crescita durante gli anni della crisi.
Non a caso, la lotta alla povertà, e più in generale il contrasto all’esclusione sociale, è stata posta fra i principali obiettivi che l’Unione europea si era data nel 2010 per il decennio in corso. Attraverso la Strategia “Europa 2020” (Eu2020), l’Ue si proponeva infatti di favorire una crescita che fosse al contempo “intelligente, sostenibile e inclusiva”, integrando cinque diversi obiettivi, in materia di occupazione, ricerca e sviluppo, cambiamenti climatici ed efficienza energetica, istruzione e contrasto alla povertà.
Su quest’ultimo fronte, l’impegno era di ridurre di almeno 20 milioni il numero di persone in situazione di povertà o esclusione sociale entro il 2020. Come illustrato nel volume “Fighting Poverty and Social Exclusion in the EU. A Chance in Europe 2020” (Matteo Jessoula e Ilaria Madama, 2018, London/New York: Routledge), a due anni dal termine della strategia, in uno scenario ancora segnato dalle conseguenze della Grande recessione e dalla crisi dell’euro, l’obiettivo appare sempre più lontano.
Dal 2008, anno di riferimento su cui valutare i progressi, le persone a rischio povertà ed esclusione sociale anziché diminuire sono aumentate. Il picco negativo si è raggiunto nel 2012, con oltre 123 milioni (24,8%). I dati più recenti segnalano un lieve miglioramento, ma restano oltre 118 milioni di persone (23,5%) in condizione di povertà o esclusione sociale nell’Ue, circa 800mila individui in più rispetto al 2008.
1.208.000 i bambini e i ragazzi fino a 17 anni che vivono in condizioni di grave indigenza in Italia, con un’incidenza quasi quadruplicatasi nell’ultimo decennio (12.1% nel 2017, 3.1% nel 2007)
Nel quadro della strategia Eu2020, l’Italia si era impegnata a contribuire al target comune con una riduzione di 2,2 milioni delle persone a rischio povertà o esclusione sociale, obiettivo decisamente fuori portata se si considera che nel 2016 -in controtendenza rispetto al dato europeo- il numero di persone in tale condizione ha raggiunto la soglia più alta (18,1 milioni, pari al 30%), per poi ridursi leggermente nel 2017 (17,4 milioni). Con circa 2,4 milioni in più, anziché in meno, rispetto al 2008, il trend appare dunque opposto a quello atteso e sperato. Dal 1 luglio è in vigore il nuovo Reddito di Inclusione (REI), una misura volta a garantire sostegno economico alle persone in condizione di povertà severa, associata a progetti di inclusione. Sebbene ancora sotto-finanziato e perfettibile, il REI rappresenta la riforma più rilevante e promettente in questo ambito nella storia del nostro Paese. Un impegno sul fronte del contrasto alla povertà dovrebbe partire da una riflessione su come rafforzare ciò che faticosamente è stato, da poco, messo in campo.

mercoledì 7 novembre 2018

Mentre arriva il 5G, un libro spiega come difendersi dall’elettrosmog

La compagnia assicurativa Lloyd’s di Londra esclude coperture per danni alla salute umana derivati dall’irradiazione elettromagnetica da radiofrequenze/microonde emesse da smartphone, smart meter, wi-fi e sistemi wireless usati in abitazioni, scuole e uffici. Così pure la Swiss Re, la famosa compagnia svizzera di assicurazione, che in un rapporto di 37 pagine sostiene già dal lontano 1996 come “i ricercatori hanno già trovato troppe evidenze scientifiche e quindi non si possono ignorare i rischi per la salute legati all’esposizione a Radiofrequenze/Microonde”. E che in Italia c’è il primo caso al mondo di una sentenza passata in giudicato (Cassazione 2012) sul nesso causale telefonino=cancro, lo sapevate? E che sono centinaia e centinaia gli studi medico-scientifici validati che attestano effetti biologici da irradiazione elettromagnetica?
Una mole enorme di autorevoli studi, infatti, evidenzia il rischio d’insorgenza tumori, malattie neurodegenerative come Azheimer e SLA (Sclerosi laterale amiotrofica), alterazioni del sistema immunitario e cardiocircolatorio, disturbi cognitivi della memoria e dell’apprendimento, insonnia, alterata attività cerebrale ed elettrosensibilità, l’invisibile malattia dell’Era Elettromagnetica che colpisce sempre più persone anche in Italia.
Se tutto questo ancora non lo sapete e con disinvoltura continuate a ritenete innocue le strumentazioni tecnologiche che vi circondano, fareste bene a leggere il nuovo libro d’inchiesta del giornalista Maurizio Martucci, autore del “Manuale di autodifesa per elettrosensibili, come sopravvivere all’elettrosmog di Smartphone, Wi-Fi e antenne di telefonia mobile. Mentre arrivano 5G e Wi-Fi dallo spazio” (Terra Nuova Edizioni), tanto più che nell’imminente arrivo del 5G, dal 2019 saremo immersi da un vero e proprio tsunami di microonde millimetriche con milioni di mini-antenne posizionate sui lampioni della luce LED riconvertiti in wireless.
I Governi ignorano gli appelli precauzionali della comunità medico-scientifica, mentre la tecnologia corre più velocemente della ricerca, costretta al rimorchio tra gli insidiosi conflitti d’interesse che spesso macchiano l’onorabilità degli organismi sanitari mondiali che, invece di nascondere il pericolo, senza tentennare dovrebbero difendere la salute pubblica dallo spauracchio elettrosmog. E’ questo il cuore delle pagine di Martucci, il primo libro italiano che, investigando su un tema scivoloso, tenta di far luce sull’estrema attualità Smart, l’intelligenza artificiale di quinta generazione spesso macchiato che sembra partire con evidenti zone grigie e ambiguità, considerato l’impressionante business che muove le telecomunicazioni.
“Ma la salute viene prima di tutto”, afferma l’autore nelle sue pagine ricche di dati, ricerche e studi che, a fronte dell’impennata di casi tumori e malattie neurodegenerative, meritano un’urgente riesame, visto che proprio nel 2019 l’Organizzazione Mondiale della Sanità potrebbe rivedere la classificazione delle cancerogenesi dell’elettrosmog.
Nel libro “Manuale di autodifesa per elettrosensibili” c’è il racconto dello strazio patito dagli ammalati di elettrosensibilità, persone che attraverso un meccanismo metabolico tipo allergico, non riescono a sopportare l’irradiazione dei campi elettromagnetici nemmeno a bassissima intensità. Oltre i malati, i più esposti al rischio sono poi i bambini e il Moby Kids (come spiega il libro sul più grande studio al mondo sui tumori in età pediatrico-adolescenziale) sarà chiamato a far luce sui troppi casi di patologie di minori che potrebbero avere un legame con l’esposizione elettromagnetica.

martedì 6 novembre 2018

L’Italia e l’eurozona si scoprono fragili

Indice manifatturiero ai minimi da 46 mesi, sotto la soglia dei 50 punti che rimarca espansione o recessione, crescita nulla del Pil nel terzo trimestre, forte calo degli ordinativi interni. L’Italia, che ha puntato sul modello tedesco basato sul mercantilismo a bassi salari dove l’unica valvola di sfogo è l’export, si riscopre nuovamente fragile.
Ecco come inquadra la questione Carlo Bonomi di Assolombarda ieri su La Repubblica: “In Germania gli ordinativi sono in forte calo, e per la manifattura italiana, che ha intrecci produttivi strettissimi con le filiere industriali tedesche, è una pessima notizia. La domanda estera è in forte calo, quella interna non è mai di fatto ripartita”. Il classico pianto del subfornitore italiano.
Ecco che l’Italia, che ha costruito negli ultimi 25 anni, a seguito dello smantellamento degli oligopoli pubblici, una vasta rete di subfornitura italiana al servizio dei colossi tedeschi e che ha puntato dal 2011 sulla domanda estera massacrando quella interna, si scopre senza appigli, senza uno sfogo di domanda pagante a cui aggrapparsi.
Ma è l’intera eurozona che è messa così: il rapporto domanda estera/pil della zona euro è pari al 44%, in Usa al 18,4%, in Cina al 17,8%. L’eurozona è senza domanda interna, avendola massacrata da Maastricht in poi, e di cui in questi giorni si “festeggiano” i 25 anni.
In un’editoriale apparso ieri su Milano Finanza dal titolo L’italia nel pantano, l’economista Guido Salerno Aletta così inquadra la questione: “Alla lunga, il conflitto sui dazi intrapreso dagli Usa nei confronti della Cina nono potrà non riguardare anche l’eurozona, che concorre ampiamente al deficit americano. Puntare ancora sulla crescita trainata dalle esportazioni nei confronti degli Usa o anche verso la Cina, potrebbe rivelarsi un errore strategico: una volta incorporate le tecnologie di punta occidentali, dopo aver comprato per anni macchinari per accelerare lo sviluppo produttivo, la Cina tenderà a sviluppare il mercato interno limitando le importazioni alle sole materie prime energetiche, ai minerali e ai prodotti agricoli e alimentari. L’import cinese dall’Europa verrebbe fortemente ridimensionato, soprattutto nel settori della meccanica e dell’auto. Anche in un eventuale appeasement commerciale tra Usa e Cina. il ruolo dell’Europa sarebbe marginalizzato”.
In futuro vince chi ha la domanda interna. L’Europa costruita da Maastricht non ce l’ha più da tempo.
Non si tratta di governi, è proprio il modello che è privo di razionalità. Il modello del mercantilismo adottato in Italia ha comportato negli ultimi 25 anni la marginalizzazione del meridione, la scomparsa del ruolo trainante di Roma e un nord in balia dei venti industriali del nord Europa, a sua volta dipendente della domanda mondiale.
E’ così scomparsa la domanda interna europea e italiana. si sono moltiplicati i marginalizzati del mercato capitalistico, più che domanda pagante salariata. E da che mondo è mondo il modo di produzione capitalistico ha necessità di domanda pagante. Per qualche decennio la si è trovata fuori dal contesto europeo, ma nel frattempo non pochi paesi si sono industrializzati.
E così il modello tedesco scopre le corde. Ma a rimanere impigliati saranno i salariati europei, ancora una volta.

lunedì 5 novembre 2018

La povertà in Italia. Ciò che deve preoccupare è quella “relativa

Il dibattito e le misure sulla povertà in Italia sono falsate da un dato che è diventato fisiologico ormai dagli anni ‘80. Era il 1983 quando come Radio Proletaria conducemmo una prima inchiesta sulla nuova povertà nel nostro paese, intuendo che si stava consolidando uno “zoccolo duro” di persone imbrigliate in una marginalità di cui non si intravedevano vie d’uscita senza un forte intervento pubblico, soprattutto nel Meridione e nelle realtà metropolitane più che nelle province.
Questo zoccolo duro è cresciuto con il manifestarsi dell’immigrazione alla fine degli anni ‘80 (prima era fenomeno limitatissimo relativo a immigrati filippini, maghrebini e capoverdiani) ma si è sostanzialmente mantenuto quantitativamente limitato, anche dentro una struttura sociale “a due/terzi” (con il corpaccione centrale rappresentato dai ceti medi) poi demolita dalla fortissima polarizzazione sociale avviata dagli anni ’90 con le misure liberiste e antipopolari imposte dal Trattato di Maastricht.

L’Istat ha diffuso pochi mesi fa una nota nella quale di conferma come la povertà assoluta coinvolga cinque milioni di persone su una popolazione di sessanta milioni. Ma, giustamente, nella stessa nota si segnala come la povertà relativa sia cresciuta molto di più di quella assoluta coinvolgendo 9milioni e 368mila persone. La prima (quella assoluta) è aumentata dello 0,6% nel 2017 rispetto al 2016; la seconda è aumentata dell’1,7% -tre volte tanto – rispetto al 2016, e tra questi “poveri” ci sono soprattutto “operai ed assimilati” e disoccupati (tra cui si assiste ad un aumento del 6% della povertà rispetto al 2016). Il dato comune a tutte le penalizzazioni sono i nuclei familiari numerosi.
E’ evidente il nesso tra l’aumento della povertà relativa e, ad esempio, i bassi e bassissimi salari dovuti alla sterminata platea di contratti di lavoro precari. Si lavora ma si percepisca una retribuzione talmente bassa che tiene anche i lavoratori e le lavoratrici inchiodate dentro la fascia di povertà.
Qualche settimana in televisione, una giornalista anche brava, segnalava come l’eventuale reddito di cittadinanza sarebbe stato di poco inferiore allo stipendio di una cassiere o di un banchista della grande distribuzione. Purtroppo non ha colto che lo scandalo doveva essere gridato non sulla quantità del reddito di cittadinanza quanto sull’infamia delle vergognose e bassissime retribuzioni di chi già lavora. Introdurre infatti un reddito sociale minimo per i disoccupati (cosa diversa dal reddito di cittadinanza messo in cantiere dal governo), indubbiamente sarebbe uno strumento di pressione e di cessazione del ricatto dei padroni sui bassissimi salari con cui oggi retribuiscono le loro lavoratrici e lavoratori. Ed è sulla rottura di questo meccanismo di ricatto che va ragionata una seria proposta di reddito sociale minimo da introdurre nel paese.
Il dato che dunque va preso di petto, è sì la povertà assoluta rispetto al quale le prestazioni sociali messe in campo non offrono alcuna possibilità di fuoriuscita, ma al centro dello scontro politico va messo l’aumento della povertà relativa, perché questo è l’indicatore più netto e drammatico del boom delle disuguaglianze sociali, dell’aumento dei working poor e di una polarizzazione sociale che sta producendo danni sociali enormi. E su questo terreno non è solo un problema di welfare, è un cambio di rotta sui meccanismi della totale deregulation del mercato del lavoro realizzati dal 1998 a oggi (dal pacchetto Treu alla Legge Biagi al Jobs Act).


Qui di seguito ripubblichiamo il report diffuso a giugno dall’Istat sulla povertà in Italia:
Le stime diffuse in questo report si riferiscono a due distinte misure della povertà: assoluta e relativa, che derivano da due diverse definizioni e sono elaborate con metodologie diverse, utilizzando i dati dell’indagine campionaria sulle spese per consumi delle famiglie.
Nel 2017 si stimano in povertà assoluta 1 milione e 778 mila famiglie residenti in cui vivono 5 milioni e 58 mila individui; rispetto al 2016 la povertà assoluta cresce in termini sia di famiglie sia di individui.
L’incidenza di povertà assoluta è pari al 6,9% per le famiglie (da 6,3% nel 2016) e all’8,4% per gli individui (da 7,9%). Due decimi di punto della crescita rispetto al 2016 sia per le famiglie sia per gli individui si devono all’inflazione registrata nel 2017. Entrambi i valori sono i più alti della serie storica, che prende avvio dal 2005.
Nel 2017 l’incidenza della povertà assoluta fra i minori permane elevata e pari al 12,1% (1 milione 208 mila, 12,5% nel 2016); si attesta quindi al 10,5% tra le famiglie dove è presente almeno un figlio minore, rimanendo molto diffusa tra quelle con tre o più figli minori (20,9%).
L’incidenza della povertà assoluta aumenta prevalentemente nel Mezzogiorno sia per le famiglie (da 8,5% del 2016 al 10,3%) sia per gli individui (da 9,8% a 11,4%), soprattutto per il peggioramento registrato nei comuni Centro di area metropolitana (da 5,8% a 10,1%) e nei comuni più piccoli fino a 50mila abitanti (da 7,8% del 2016 a 9,8%). La povertà aumenta anche nei centri e nelle periferie delle aree metropolitane del Nord.
L’incidenza della povertà assoluta diminuisce all’aumentare dell’età della persona di riferimento. Il valore minimo, pari a 4,6%, si registra infatti tra le famiglie con persona di riferimento ultra sessantaquattrenne, quello massimo tra le famiglie con persona di riferimento sotto i 35 anni (9,6%).
A testimonianza del ruolo centrale del lavoro e della posizione professionale, la povertà assoluta diminuisce tra gli occupati (sia dipendenti sia indipendenti) e aumenta tra i non occupati; nelle famiglie con persona di riferimento operaio, l’incidenza della povertà assoluta (11,8%) è più che doppia rispetto a quella delle famiglie con persona di riferimento ritirata dal lavoro (4,2%).
Cresce rispetto al 2016 l’incidenza della povertà assoluta per le famiglie con persona di riferimento che ha conseguito al massimo la licenza elementare: dall’8,2% del 2016 si porta al 10,7%. Le famiglie con persona di riferimento almeno diplomata, mostrano valori dell’incidenza molto più contenuti, pari al 3,6%.
Anche la povertà relativa cresce rispetto al 2016. Nel 2017 riguarda 3 milioni 171 mila famiglie residenti (12,3%, contro 10,6% nel 2016), e 9 milioni 368 mila individui (15,6% contro 14,0% dell’anno precedente).
Come la povertà assoluta, la povertà relativa è più diffusa tra le famiglie con 4 componenti (19,8%) o 5 componenti e più (30,2%), soprattutto tra quelle giovani: raggiunge il 16,3% se la persona di riferimento è un under35, mentre scende al 10,0% nel caso di un ultra sessantaquattrenne.
L’incidenza di povertà relativa si mantiene elevata per le famiglie di operai e assimilati (19,5%) e per quelle con persona di riferimento in cerca di occupazione (37,0%), queste ultime in peggioramento rispetto al 31,0% del 2016.
Si confermano le difficoltà per le famiglie di soli stranieri: l’incidenza raggiunge il 34,5%, con forti differenziazioni sul territorio (29,3% al Centro, 59,6% nel Mezzogiorno).