domenica 16 novembre 2014

Renzi l`anglofono

Al vertice del G20 di Brisbane, Matteo Renzi ha dimostrato ancora una volta quali sono i suoi santi in paradiso e i suoi referenti politici in campo internazionale. Dopo aver criticato (giustamente, diciamo noi, ma non è stato un grande sforzo) la politica dell'austerità in Europa (imposta dalla Germania) come causa di una recessione che non tende a finire, anzi sta peggiorando, l'ex boy scout ha operato un gioco di sponda appoggiandosi agli Stati Uniti e alla Gran Bretagna. Due Paesi che non possono che vedere con piacere le difficoltà europee e le crepe sempre più larghe che si intravedono nell'edificio, già di per sé barcollante, dell'euro. “L'Italia farà la sue parte, realizzerà le riforme – ha assicurato - ma l'Europa deve cambiare passo. Senza crescita – ha sostenuto - non c'è stabilità finanziaria che tenga”. In altri termini, il capo del governo ha voluto rinnovare gli attacchi alla burocrazia di Bruxelles e al presidente della Commissione, il lussemburghese Jean Claude Juncker, che si ostinano a voler applicare alla lettera, senza valutarne le conseguenze, i principi stabiliti dal Patto europeo di Stabilità (e crescita). In primo luogo l'azzeramento del disavanzo entro il 2017 e la riduzione progressiva del debito pubblico al 60%. Nell'uno e nell'altro caso, nella realtà italiana, sono obiettivi praticamente impossibili da raggiungere e lo dimostrano le resistenze feroci che Renzi ha incontrato all'interno dello stesso PD per attuare quella revisione e razionalizzazione della spesa che i suoi amici anglofoni chiamano “spending review”. Così non si può andare avanti, ha insistito l'ex sindaco. Ci vuole più elasticità da parte della Commissione. E ovviamente dalla Germania che guida le danze in Europa e che se lo può pure permettere. Ci vuole una politica più espansiva. Una politica di tipo “keynesiano”. Grandi lavori pubblici che fungano da volano (grazie ad un effetto moltiplicatore) per gli investimenti pubblici e privati. In tal modo, l'economia potrà riavviarsi e l'occupazione potrà risalire. L'importo di tali lavori, ha continuato Renzi, riciclando una idea che fu di Tremonti, non dovrà essere calcolato nell'importo del disavanzo. Una idea giusta in teoria ma alla quale purtroppo, rimanendo nell'ottica del Patto di Stabilità e della difesa dell'euro, la Germania e la Commissione europea hanno risposto finora picche. E questo per due motivi. E tutti e due che interessano la realtà italiana. Il primo è che il debito italiano è al 135% del Pil (ai tempi di Berlusconi, novembre 2011, era al 120%) e di conseguenza la richiesta è suonata come quella di una concessione a continuare nella spesa facile. La seconda è che la realizzazione dei lavori pubblici in Italia rappresenta una autentica barzelletta. Come dimostrano i casi della Salerno-Reggio Calabria e dell'Expo di Milano, con lungaggini ignobili, pagamento di mazzette e gonfiamento di costi oltre ogni decenza. Oltre alle infiltrazioni di imprese legate alla Mafia, alla Ndrangheta e alla Camorra. Dovete tagliare la spesa pubblica, ci dicono da Berlino e Bruxelles e con i soldi risparmiati potrete fare gli investimenti pubblici dei quali avete bisogno per ripartire. Facile a dirsi, molto meno facile a farlo. Con le resistenze che il governo sta incontrando sulla sua strada per attuare la cosiddetta “spending review”, si tratta di una impresa proibitiva. Del resto dicono, la culona tedesca e il suo fido Juncker, è l'Italia ad aver scelto di firmare il Patto di Stabilità. E' l'Italia che ha scelto di stare nell'euro (anche se Prodi che stabilì un rapporto di cambio lira-euro semplicemente demenziale che ha massacrato l'economia italiana). Di conseguenza, cosa volete. Un ragionamento ineccepibile quello dei crucchi e dei tecnocrati di Bruxelles ma che fa però a pugni con la realtà di una economia europea ed italiana che sta collassando e per salvare la quale non basta e non basterà la trasformazione del mercato del lavoro all'insegna del precariato e della flessibilità. La maggiore competitività che ne dovrebbe derivare è l'obiettivo dichiarato. Ma è un traguardo che passa dal sempre maggiore impoverimento dei lavoratori europei ed italiani, costretti a competere con gli stipendi dei colleghi cinesi che sono otto volte minori dei nostri. E' il Libero Mercato, ragazzi. Il Mercato Globale. Renzi si è impegnato a realizzare tale trasformazione ma gli ostacoli che sta incontrando dimostrano che in Italia c'è ancora qualcuno che tiene ad un minimo di decenza. Osteggiato in Europa, a Renzi non è restato che invocare appoggio al G20 da parte di Gran Bretagna ed Usa, due Paesi che hanno basato la loro ripresa economica sull'aumento della liquidità in circolazione. In altre parole ad una barca di soldi messi a disposizione delle banche e quindi degli ambienti finanziari. Ma ovviamente meno soldi a disposizione dell'economia reale, ossia delle famiglie e delle imprese. Un appoggio quello anglofono che per Renzi può trasformarsi in un boomerang, isolandolo ancora di più in Europa. Ma anche in Italia, dove i sondaggi parlano di un crollo delle intenzioni di voto dal 41% delle europee all'attuale 30%. Semmai è paradossale che Renzi abbia scelto il G20 per andare all'attacco. Quel G20 indetto per discutere di evasione ed elusione fiscale. Le quali, è sempre bene tenerlo presente, hanno come propri principali centri mondiali non già il Lussemburgo di Juncker ma le isole di Jersey e Guernsey nella Manica, sotto sovranità britannica. E le Cayman nei Caraibi, giuridicamente sotto controllo di Londra ma dove Washington fa sentire tutto il suo peso. Dal che ne deriva che i paradisi fiscali fanno comodo a tutti. Tanto per dirne una alle compagnie petrolifere Usa ed inglesi che, grazie ai fondi neri là parcheggiati, pagano tranquillamente tangenti ai governi dei Paesi dove operano, senza avere, a differenza dell'Eni, magistrati che non conoscono il mondo e che si svegliano la mattina con l'idea di dare vita ad una nuova Mani Pulite.

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