venerdì 7 novembre 2014

Il "cambio di paradigma" squassa l'Occidente

L'esplosione dello scontro tra “Europa tedesca” e “Europa alleato dell'America” ha preso corpo in questi giorni con gli attacchi contro Mario Draghi (presidente della Bce) e lo “scandalo fiscale” del Lussemburgo, che rischia di travolgere in neo-presidente della Commissione Europea (il “governo” della Ue), Jean-Claude Juncker.

Un conflitto latente da tempo diventa quasi esplicito perché irrisolto. E probabilmente irrisolvibile in modo diplomatico, o comunque indolore.

Ma questo conflitto non può e non deve essere analizzato “personalizzando” le ragioni dello scontro. A determinati livelli i massimi dirigenti sono “agenti intelligenti” di interessi strutturati di enorme potenza; le idee personali non contano nulla.

Diversi editoriali sui media padronali, in questi giorni, stanno cercando di definire i contorni della crisi europea, le ragioni di un arresto nel “progresso” che volge ormai in declino palese. La concomitanza con i 25 anni dalla “caduta del Muro” rendono queste riflessioni preoccupate, inevitabilmente, una sorta di bilancio sulla strada fatta dal modo di produzione capitalistico in quest'area. Negativo, ovviamente, al di là dei dati sulla crescita economica nei primi 15 anni del quarto di secolo.

Si sta cominciando a prendere atto, insomma, del sostanziale fallimento del capitalismo neoliberista proprio sul fronte che ne aveva sancito la vittoria ideologica e fatto acquisire consenso di massa: la promessa di maggiore benessere per tutti, una volta eliminati i “lacciuoli” che rallentavano l'iniziativa privata.

La retorica dell'establishment canta ancora questa canzone, non ne conosce altre. E le “prescrizioni” dell'Unione Europea ai singolli Stati, specie sulla questione del debito pubblico, sembrano indifferenti all'evolvere negativo dei tempi. Ma il numero di quanti vi credono inizia vistosamente a diminuire. Non solo – e fortunatamente – tra le varie figure del mondo del lavoro dipendente (ormai quasi per intero accomunato nella condizione della precarietà universale), ma anche tra gli analisti più accorti.

Apriva in qualche modo le danze Carlo Bastasin, sul confindustriale IlSole24Ore. L'intento del “pezzo” è indicare un'altra via per l'Unione Europea, fuori dal suicidio volontario dell'austerità, in linea con le parole (e non molto altro) del governo Renzi. Ma la costruzione del ragionamento mette in luca alcuni paletti strutturali che ci sembra il caso di sottolineare:

Per almeno 30 anni, il debito pubblico ha assorbito il potenziale latente di instabilità politica. Se in Grecia, Spagna o Portogallo era servito a comprare consenso per le nuove democrazie emerse dalle dittature, in Italia e Germania aveva anche compensato le fratture geografiche interne ai due Paesi. La tenacia tedesca nel denunciare i pericoli dei debiti pubblici, che oggi sono politicamente meno giustificati, non va dunque sottovalutata. Ma globalizzazione e tecnologia hanno stravolto le coordinate, lo spazio e il tempo, del contratto sociale.

La “tenuta sociale” del modello europeo del dopoguerra – questo il succo – è stata garantita dal welfare, perché la mediazione sociale si fa con risorse finanziarie, non a parole. È stata fatta insomma di edilizia popolare, pensioni, ammortizzatori sociali, sanità pubblica, istruzione gratuita o quasi, diritti del lavoro, salario contrattato conflittualmente, possibilità di far rappresentare interessi “popolari” sul piano politico (“riformisticamente”, per carità...), ecc.

Questo ambiente sociale è venuto meno o sta collassando sotto la necessità (del capitale) di aumentare la competitività all'interno di quest'area, oltre che negli Stati Uniti e in Giappone, e fra aree continentali e monetarie diverse.

La competizione tra capitali taglia i costi inutili, si sa. Per prima cosa il welfare, quindi la mediazione sociale. Quindi il consenso al sistema. Pochi anni di globalizzazione sono stati sufficienti a determinare una corsa feroce alla compressione dei costi nelle e delle “democrazie oncidentali”, per renderli comparabili a quelli esistenti nelle “economia emergenti”. Parallelamente anche la qualità di queste “democrazie” cominciava a scadere per diventare comparabile con i sistemi di governance esistenti in quei paesi (la “riforme costituzionali” sono l'altra faccia delle “riforme strutturali”; e i trattati europei hanno anticipato alla grande questa necessità di sottrarre i centri di decisione politica all'influenza degli interessi sociali non dominanti).

Ma l'elemento più devastante per il modo di vita occidentale è proprio quello di cui si va più orgogliosi: la tecnologia. Bellissima cosa, ma anche terribile: libera dalla fatica e contemporaneamente riduce i posti di lavoro.

Il cambio di paradigma produttivo implicito nella rivoluzione informatica di trenta anni a sta oggi raggiungendo il suo picco storico, innervando tutto il sistema produttivo, anche quello industriale più “hard” e “novecentesco”, nell'immaginario universale. Basta guardare questa foto scattata in una catena di montaggio automobilistica, in Germania.

Ci vuole insomma sempre meno lavoro umano per produrre un numero di merci sempre maggiore. Nel nostro linguaggio “antico” si diece che diminuisce il tempo di lavoro necessario. Ma l'impresa privata, che pure si avvantaggia molto dell'innovazione tecnologica “di processo”, pretende – per far fronte alla competizione – di aumentare e non di diminuire il tempo di lavoro individuale. Il risultato, in questo sistema, è che il numero di posti di lavoro diminuisce strutturalmente.

Facciamo un esempio storico per capirci. La meccanizzazione dell'agricoltura – in Europa e negli Usa avvenuta nel primo dopoguerra, nei paesi emergenti negli ultimi venti anni e ancora in corso – ha “liberato” centinaia di milioni di persone dal lavoro nei campi, spingendoli verso le città. Lo sviluppo industriale era in grado di assorbirle, almeno in una certa misura.

Oggi sta avvenendo lo stesso, nei paesi “maturi”, anche nei settori industriali. Ma dove andranno le centinaia di milioni di persone ormai in esubero rispetto alle necessità produttive?

Una volta andavano in guerra. Ma anche la guerra è diventata tecnologica. Gli eserciti occidentali sono tornati ad essere roba per “specialisti”, piccoli numeri capaci di distruggere masse notevoli di “nemici” non altrettanto tecnologicamente avanzati (vedi Iraq, Libia, Somalia, ecc). E poi non sembra intelligente armare masse sterminate di uomini e donne, quando il consenso al sistema scende rapidamente... Qualcuno, dall'altra parte, conserva memoria del 1917 più di quanto non avvenga nella "sinistra rdicale" di casa nostra.

Lo stallo nell'Unione Europea è tutto dentro questa cornice, altrimenti sarebbe semplicemente inspiegabile. Perché mai, infatti, gente ultrapreparata come Weidmann o Schaeuble, o anche Katainen e Padoan, dovrebbero insistere su “strategie economiche” che sono chiaramente folli anche per uno studente del primo anno?

Le domande sono sul tavolo, le risposte non ci sono. Quelle praticabili nell'immediato, almeno. Ma iniziare a ragionare in termini di “sistema di produzione” non è più una nostalgia “ideologica”. È un bisogno primario, se si vuole individuare una via d'uscita alla corsa verso il baratro.

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