Il
12 e 13 maggio 1974 si tenne il primo referendum abrogativo della
storia repubblicana. In discussione era l’abrogazione della legge
Fortuna-Baslini, approvata dalla Camera il primo dicembre 1970. L’iter
parlamentare della legge fu abbastanza rapido, poiché il deputato
socialista Loris Fortuna aveva depositato il progetto di cui era
promotore durante la prima seduta della nuova camera dei deputati il 5
giugno 1968.
Tale
progetto era firmato da un nutrito gruppo di deputati dei partiti di
sinistra, PSI, PCI e PSIUP e fu in seguito unificato con un’analoga
proposta di un gruppo di liberali, primo firmatario Antonio Baslini.
La
seduta del 5 giugno 1968 vide tra l’altro l’elezione a presidente della
camera di Sandro Pertini, la presentazione da parte di Pietro Ingrao
della proposta di voto ai diciottenni, e la riproposizione della
formazione di una commissione d’inchiesta sull’emigrazione, già avanzata
nel 1964, firmata dall’on. Luzzatto e da altri esponenti del PSIUP.
L’Italia era ancora un paese con milioni di emigranti.
La
relativa rapidità dell’iter parlamentare non significa che la legge non
fosse stata contrastata, La sua approvazione avvenne infatti alle
cinque del mattino, al termine di una seduta protrattasi 19 ore.
Votarono a favore 319 deputati contro 286. Anche al Senato la
maggioranza non fu ampia; 319 si e 286 no. L’alta presenza in aula,
inoltre, testimonia l’asprezza dello scontro sulla legge a cui si
opponevano tenacemente la DC e i neofascisti del MSI.
Prima
d’allora, il tema del divorzio era arrivato in Parlamento dodici volte,
ma senza successo. Già nel 1902 il governo Zanardelli aveva presentato
una proposta di legge che prevedeva il divorzio in caso di sevizie,
condanne gravi e adulterio che ottenne solo tredici voti favorevoli su
quattrocento.
Dopo
il fascismo, il socialista Luigi Renato Sansone propose nel 1954 e poi
nel 1958 una sorta di “piccolo divorzio” limitato ad alcuni casi gravi,
ma la legge non fu nemmeno discussa. Anche in sede di Costituente,
peraltro, non era stato facile far accettare alla DC che nell’art. 29
delle Costituzione il matrimonio non fosse indicato come indissolubile.
La
DC, attraverso l’impegno di esponenti cattolici a lei legati, come l’ex
sindaco di Firenze, Giorgio La Pira, il filosofo Augusto Del Noce, il
giurista Gabrio Lombardi, formò un Comitato nazionale per il referendum
sul divorzio che, entro il giugno 1971, raccolse ben 1.370.134 firme in
calce alla proposta.
Un
numero di firme così alto fece credere ai promotori che la vittoria
fosse certa. Ma le cose non andarono in quel modo, il 12 e 13 maggio
1974 il 59,26% degli italiani votò NO all’abrogazione del divorzio.
Guardando
alla distribuzione regionale dei voti, in tutto il centro-nord tranne
che in Veneto e in Trentino prevalse il NO mentre il SI vinse in Molise,
Puglia, Basilicata, Campania e Calabria. Molto significativa la
vittoria dei NO in Sicilia e in Sardegna, a testimonianza dello
sgretolarsi di poteri atavici, soprattutto grazie all’impegno delle
donne.
Nell’analisi
dei dati regionali, peraltro, va considerata anche l’immigrazione
interna, che aveva portato molti giovani lavoratori del sud nelle
regioni settentrionali, in cui erano spesso diventati punto di forza
delle lotte operaie, nelle quali avevano maturato concezioni avanzate
anche su temi come la famiglia,
La
vittoria del NO era il segno di un’Italia che cambiava. Il sessantotto
aveva portato con sé una nuova visione dei rapporti familiari, il
rifiuto dell’autoritarismo familistico e patriarcale, che andava di pari
passo alla contestazione dei rapporti autoritari sui luoghi di lavoro e
nella scuola. Era nata anche una nuova visione dei rapporti tra i
generi.
Tutto
ciò, va ricordato, era associato ai veri e propri drammi vissuti da
centinaia di migliaia di coppie “irregolari” che vivevano situazioni di
semiclandestinità, Il reato di adulterio, che penalizzava quasi sempre
le donne, era stato cancellato solo nel 1968.
La
totale riconsiderazione dei rapporti familiari e tra i sessi portata
dal divorzio fu anche una leva importante per la messa in discussione
dell’arcaico istituto del “delitto d’onore”, cioè la forte riduzione di pena a cui aveva diritto chi uccidesse il coniuge – che poi era in pratica sempre la coniuge – ma anche la sorella o la figlia che avessero disonorato la famiglia allacciando una “illegittima relazione carnale”. Insomma, un diritto di proprietà, con possibilità di decidere vita o morte, sulle donne della famiglia.
L’articolo
587 del Codice penale ereditato dal fascismo. relativo a questo
obbrobrio giuridico, fu sempre meno applicato nei tribunali dopo
l’approvazione del divorzio, del nuovo diritto di famiglia del 1975 e
della legge 194 sull’aborto, sino alla sua cancellazione avvenuta nel
1981.
Una
delle motivazioni contro il divorzio, portate in parlamento dalla
deputata democristiana Maria Eletta Martini, relatrice di minoranza, fu
quella che le donne erano economicamente più fragili e che la
possibilità del divorzio le avrebbe messe in grande difficoltà.
Anche
questa argomentazione, nella sua verità, fu ribaltata dal movimento
delle donne. Non era giusto continuare ad accettare le catene perché si
era deboli, piuttosto era necessario cambiare le condizioni e i salari
nel mondo del lavoro, verso l’eguaglianza tra uomini e donne.
Il
referendum del 12 maggio 1974 scosse profondamente i rapporti tra i
sessi, verso la parità in famiglia e sul lavoro, e questo non può essere
considerato solo un fatto di diritti civili, bensì di lotta di classe,
visto che sin dagli scritti di Marx tale contraddizione ne è considerata
uno dei terreni fondamentali
Più
in generale credo sia sbagliato ciò che si è letto molte volte, vale a
dire che la vittoria nel referendum del 12 maggio 1974 abbia costituito
un avanzamento sul piano dei diritti civili, che non trovò altrettanto
riscontro sul terreno sociale. Fatto salvo che negli anni settanta
questa distinzione non era pertinente, il referendum sul divorzio deve
essere inquadrato in un decennio in cui i due piani correvano, come è
giusto, paralleli. Quindi, in quella battaglia, si affermarono diritti
sociali ed egualmente civili come è per esempio la parità tra uomo e
donna in famiglia e sul lavoro.
Gli
anni settanta non furono, come molti tendono oggi a narrarli, anni “di
piombo” bensì anni di grandi conquiste dei lavoratori e del movimento
popolare sull’onda dei forti movimenti studenteschi e in seguito operai
del 1968 e 1969, seguiti poi dal movimento del 77. Movimenti che avevano
veramente messo alle corde la borghesia italiana, che, stretta
dall’alleanza tra movimento operaio e studentesco e dallo schierarsi con
loro della piccola borghesia impiegatizia, aveva dovuto arretrare su
molte e importanti questioni.
Nel
1970 fu approvato lo Statuto dei lavoratori, una legge certamente di
mediazione politico-sindacale, non completamente soddisfacente (tanto
che PCI e PSIUP si astennero dall’approvarla) ma che sancì comunque una
serie di diritti importanti, contenendo per esempio il famoso articolo
18 diventato uno dei grandi punti di battaglia politica degli ultimi
venti anni Inoltre in quella legge fu riconosciuto il diritto
all’istruzione per i lavoratori, con l’istituzione delle 150 ore, una
conquista che usciva dal semplice terreno della lotta sindacale in
fabbrica, per porsi su quello più generale dei diritti sociopolitici.
Inoltre,
gli anni settanta furono costellati da molte altre lotte e conquiste,
come le battaglie sulla questione della salute in fabbrica, ancora oggi
tanto attuali, che trovarono in quel decennio la loro nascita. Il
movimento operaio usciva dalla semplice rivendicazione salariale o
sull’orario di lavoro per affrontare questioni più generali, come la
salute oppure la casa. Si poneva così la questione della gestione e
delle regole della società nel suo complesso.
La
lotta sui temi della salute trovò un approdo significativo
nell’istituzione, nel dicembre del 1978, del Sistema Sanitario
Nazionale, in seguito purtroppo regionalizzato, ed entrato in
collaborazione con il privato. con le conseguenze di cui oggi ci
rendiamo conto. Pochi mesi prima, la cosiddetta “Legge Basaglia” aveva
chiuso i manicomi, incubo non solo sanitario, ma anche politico, perché
luoghi di repressione di comportamenti non accettati nella società
borghese.
Intanto,
nel maggio del 1978, era stata approvata anche la legge sull’aborto.
Una legge non esente da limiti quale l’obiezione di coscienza concessa
ai medici, ma che affermò il principio generale della gravidanza come
scelta esclusiva della donna. Un passo avanti decisivo a cui in seguito
la DC si oppose con un altro referendum tenuto nel 1981 che la portò
alla seconda bruciante sconfitta referendaria.
Il
segretario della DC, Fanfani, aveva previsto già durante la campagna
referendaria del 1974 i possibili effetti a cascata di una vittoria del
NO quando aveva affermato: “Volete il divorzio? Allora dovete sapere che
dopo verrà l’aborto. E dopo ancora, il matrimonio tra omosessuali. E
magari vostra moglie vi lascerà per scappare con la serva!”
Il
referendum del 1974 portò con sé anche una definitiva scomposizione del
mondo cattolico, di cui la DC perse il monopolio della rappresentanza
Se già dal 1968 i fermenti di rottura dei cattolici progressisti con la
DC erano evidenti (lo testimonia, per esempio, la costituzione, anche se
non fortunata, del Movimento Politico dei Lavoratori di Livio Labor) il
referendum sul divorzio ne fu la sanzione.
Infatti,
se Comunione e Liberazione fu attivissima per il SI, molti altri
cattolici come Pietro Scoppola, Pierre Carniti, Raniero La Valle e
Adriana Zarri rifiutarono di sottomettersi alle gerarchie
ecclesiastiche. Il caso più eclatante fu quello di don Giovanni
Franzoni, abate della Basilica Ostiense, sospeso a divinis per
avere preso posizione pubblica a favore del divorzio. A Venezia, il
Patriarca Albino Luciani, futuro papa, sciolse la FUCI, associazione
degli universitari cattolici, che si era dichiarata a favore del
divorzio.
Tutto
ciò servì a chiarire che la DC non era più, se mai lo era stata,
rappresentante di tutti i cattolici. Una realtà che purtroppo il PCI,
come sappiamo, sottovalutava nella sua costante ricerca di mediazione
con la DC.
La
distorsione della visione gramsciana dei rapporti tra comunisti e
cattolici ha caratterizzato il PCI nel dopoguerra sino alla
teorizzazione del compromesso storico, Relativamente al tema di cui ci
occupiamo, il PCI non aveva compreso nemmeno il valore e l’importanza
del movimento del 68 e la sua forza dirompente sull’assetto dei rapporti
tradizionali e autoritari nella società e anche all’interno della
famiglia.
Il
referendum del maggio 1974 deve quindi essere ricordato come una tappa
di una lunga serie di lotte che costellarono oltre un decennio di storia
italiana cambiandone profondamente molti aspetti politici e sociali e
anche come un momento decisivo della crisi dell’egemonia democristiana
in Italia.