Tra i tanti effetti collaterali del coronavirus si segnala anche una mezza crisi diplomatica tra Roma e Pechino.
L’Italia è stata tra i primi paesi a bloccare i voli da/per la Cina, «sottovalutando» (è un eufemismo) i «disagi» (anche questo un eufemismo) che avrebbe causato in questo modo a migliaia di turisti cinesi presenti nel nostro paese, nonché a centinaia di connazionali che si trovano in Cina – tutti alle prese con grandi difficoltà a rientrare nei rispettivi paesi –, e alla gran quantità di persone che viaggiano per affari da un paese all’altro. Soprattutto, la decisione dello stop italiano ai collegamenti aerei – che segue a ruota quello statunitense, ed è ancora più restrittiva – è stata presa senza consultare la controparte cinese: la seconda economia del pianeta, trattata come l’ultimo micro-stato insulare del Pacifico.
Gli aeroporti italiani sono importanti: con Fiumicino primo in Europa per connessioni dirette (12) con la Repubblica popolare, il Belpaese rappresenta per i cinesi una porta d’accesso privilegiata all’area Schengen.
La scelta di blindare i nostri scali ai cinesi è stata presa il 31 gennaio scorso con una ordinanza del ministro della Salute, Roberto Speranza (Liberi e Uguali), contro la raccomandazione dell’Organizzazione mondiale della sanità, secondo cui «non esiste alcuna ragione per misure che interferiscono con i viaggi e con il commercio internazionale. Invitiamo tutti i paesi ad applicare decisioni coerenti e basate su fatti».
Non sappiamo come la decisione sia maturata all’interno del governicchio giallo-rosé, ma, in teoria, dovrebbe essere stata condivisa con la presidenza del Consiglio e il ministero degli Esteri.
Sia come sia, giovedì scorso il vice ministro degli esteri cinese, Qin Gang, ha manifestato tutta la sua insoddisfazione all’ambasciatore italiano a Pechino, Luca Ferrari. E, contemporaneamente, Xinhua ha compiuto una forzatura, annunciando un’imminente riapertura dei collegamenti aerei.
A quel punto il governo italiano (probabilmente anche per non dare l’impressione di cedere alle pressioni cinesi, prestando il fianco agli attacchi di salvini) ha smentito seccamente la notizia dell’agenzia di stampa cinese e la frittata era fatta. Una bella frittata nel 2020, cinquantenario delle relazioni diplomatiche, «Anno della cultura e del turismo Italia-Cina». Oggi la Cina ha insistito, auspicando che l’Italia «possa avere una valutazione obiettiva, razionale e fondata sulla scienza all’epidemia di coronavirus nel Paese asiatico – ha detto il portavoce del Ministero degli Esteri di Pechino, Geng Shuang – e che si trattenga dal prendere misure eccessive».
Le mosse del governo sono state fin qui improntate all’improvvisazione. Sulla home page del sito della presidenza del Consiglio non c’è un accenno all’emergenza coronavirus. Né si segnalano – in un anno così importante per le relazioni bilaterali – sostanziali iniziative di solidarietà con il popolo cinese da parte del governo Conte II. A spedire un aereo pieno di 700.000 mascherine ci ha pensato il Vaticano. Mentre il presidente della Repubblica, il democristiano Sergio Mattarella, ha messo in scena un beau geste riparatore, andando a visitare una scuola romana frequentata da tanti bimbi cinesi, una mossa per contrastare la psicosi alimentata dai media e i tanti episodi di sinofobia segnalati negli ultimi giorni. Ma che sul piano politico cambia poco.
La catastrofica gestione dell’emergenza coronavis nelle relazioni bilaterali con la Cina da parte del governicchio giallo-rosé arriva a meno di due mesi dalla relazione con la quale il Comitato parlamentare di controllo sui servizi segreti (Copasir) ha trasmesso al governo italiano l’indicazione statunitense di sbarrare la strada in Italia alla telco cinese Huawei nella costruzione dell’infrastruttura della rete 5G, provando ad arruolare Roma nella guerra dichiarata dall’Amministrazione Trump alle tecnologie innovative made in China.
A Pechino sono rimasti sbalorditi dalle mosse del camaleontico presidente del consiglio Conte, che nella versione precedente (giallo-verde) aveva apposto – unico paese del G7 – la firma a un protocollo d’intesa sulla nuova via della Seta a favore della Cina, e nella sua colorazione attuale (giallo-rosé) ha chiuso subito tutti i collegamenti con la Cina ed è rimasto incantato dalle sirene trumpiane.
Ad analizzarli dall’Italia, il memorandum sulla via della Seta e la decisione di chiudere subito tutti i collegamenti aerei sono in realtà frutto della medesima improvvisazione, della mancanza di consapevolezza all’interno della classe politica nazionale del ruolo della Cina, di un minimo di elaborazione su come vada gestito il rapporto con questo gigante in ascesa.
La vicenda del memorandum venne portata avanti da un ambizioso e scaltro sottosegretario al Mise, il «professor» Michele Geraci, con scarso coinvolgimento del ministero degli Esteri e del governo Conte I. Risultato? Alla Cina il leghista siciliano fece un grosso regalo politico (l’Italia è stato l’unico paese del G7 ad avallare la strategia della via della Seta), senza ottenere nulla in cambio (come avrebbe potuto essere altrimenti, per un’iniziativa gestita a livello personale?), né in termini di bilanciamento dell’interscambio né di miglioramento delle relazioni politiche. In compenso quella decisione contribuì ad accentuare l’isolamento dell’Italia all’interno dell’Unione europea e fece arrabbiare gli Stati uniti, partner strategici.
E forse proprio questo ha indotto qualcuno nel Conte II a volersi dimostrare più realista del re nei confronti di Washington, varando immediatamente dopo l’alleato una misura che si è dimostrata affrettata, senza valutazione delle conseguenze pratiche (per i cittadini cinesi e italiani) e politiche, nelle relazioni bilaterali con Pechino.
Certo, la Cina resta un partner politico e commerciale marginale per l’Italia. L’anno scorso abbiamo esportato nella Repubblica popolare 13 miliardi di beni (soprattutto meccanica, tessile e farmaceutica) importandone 33 miliardi. Perfino nel vino, continuiamo a mantenere una quota di mercato del 6-7%, surclassati dai cugini francesi, che si sono mossi molto prima e molto meglio.
Ma a qualcuno nell’Amministrazione è mai venuto in mente che questi ritardi (gravi per un paese manifatturiero ed esportatore come il nostro) forse dipendono anche dalla condotta politica, da una politica estera nei confronti della Cina inesistente, quando non autolesionista?
L’amicizia con la Cina si costruisce nei tempi lunghi, con un dialogo politico continuo e con manifestazioni di amicizia nei momenti importanti, come, ad esempio, la crisi del “coronavirus”.
L’ascesa della Cina è un fenomeno complesso, che sta sollevando un mare di contraddizioni all’interno del capitalismo globale, nonché di paure (spesso irrazionali) nelle opinioni pubbliche nazionali. Tuttavia siamo di fronte a un cambiamento storico rispetto al quale si rivelano del tutto inadeguati sia le iniziative personali più o meno improvvisate, sia lo schierarsi pavlovianamente dalla parte dell’alleato statunitense, anche quando ciò rischia di compromettere i cosiddetti «interessi nazionali» le relazioni con un attore sempre più importante come la Cina.
Continuare ad affidare al Geraci o allo Speranza di turno la gestione di questioni così complesse, con un attore così ingombrante come la Cina vuol dire condannarsi a darsi una zappa sui piedi dopo l’altra.
L’Italia è stata tra i primi paesi a bloccare i voli da/per la Cina, «sottovalutando» (è un eufemismo) i «disagi» (anche questo un eufemismo) che avrebbe causato in questo modo a migliaia di turisti cinesi presenti nel nostro paese, nonché a centinaia di connazionali che si trovano in Cina – tutti alle prese con grandi difficoltà a rientrare nei rispettivi paesi –, e alla gran quantità di persone che viaggiano per affari da un paese all’altro. Soprattutto, la decisione dello stop italiano ai collegamenti aerei – che segue a ruota quello statunitense, ed è ancora più restrittiva – è stata presa senza consultare la controparte cinese: la seconda economia del pianeta, trattata come l’ultimo micro-stato insulare del Pacifico.
Gli aeroporti italiani sono importanti: con Fiumicino primo in Europa per connessioni dirette (12) con la Repubblica popolare, il Belpaese rappresenta per i cinesi una porta d’accesso privilegiata all’area Schengen.
La scelta di blindare i nostri scali ai cinesi è stata presa il 31 gennaio scorso con una ordinanza del ministro della Salute, Roberto Speranza (Liberi e Uguali), contro la raccomandazione dell’Organizzazione mondiale della sanità, secondo cui «non esiste alcuna ragione per misure che interferiscono con i viaggi e con il commercio internazionale. Invitiamo tutti i paesi ad applicare decisioni coerenti e basate su fatti».
Non sappiamo come la decisione sia maturata all’interno del governicchio giallo-rosé, ma, in teoria, dovrebbe essere stata condivisa con la presidenza del Consiglio e il ministero degli Esteri.
Sia come sia, giovedì scorso il vice ministro degli esteri cinese, Qin Gang, ha manifestato tutta la sua insoddisfazione all’ambasciatore italiano a Pechino, Luca Ferrari. E, contemporaneamente, Xinhua ha compiuto una forzatura, annunciando un’imminente riapertura dei collegamenti aerei.
A quel punto il governo italiano (probabilmente anche per non dare l’impressione di cedere alle pressioni cinesi, prestando il fianco agli attacchi di salvini) ha smentito seccamente la notizia dell’agenzia di stampa cinese e la frittata era fatta. Una bella frittata nel 2020, cinquantenario delle relazioni diplomatiche, «Anno della cultura e del turismo Italia-Cina». Oggi la Cina ha insistito, auspicando che l’Italia «possa avere una valutazione obiettiva, razionale e fondata sulla scienza all’epidemia di coronavirus nel Paese asiatico – ha detto il portavoce del Ministero degli Esteri di Pechino, Geng Shuang – e che si trattenga dal prendere misure eccessive».
Le mosse del governo sono state fin qui improntate all’improvvisazione. Sulla home page del sito della presidenza del Consiglio non c’è un accenno all’emergenza coronavirus. Né si segnalano – in un anno così importante per le relazioni bilaterali – sostanziali iniziative di solidarietà con il popolo cinese da parte del governo Conte II. A spedire un aereo pieno di 700.000 mascherine ci ha pensato il Vaticano. Mentre il presidente della Repubblica, il democristiano Sergio Mattarella, ha messo in scena un beau geste riparatore, andando a visitare una scuola romana frequentata da tanti bimbi cinesi, una mossa per contrastare la psicosi alimentata dai media e i tanti episodi di sinofobia segnalati negli ultimi giorni. Ma che sul piano politico cambia poco.
La catastrofica gestione dell’emergenza coronavis nelle relazioni bilaterali con la Cina da parte del governicchio giallo-rosé arriva a meno di due mesi dalla relazione con la quale il Comitato parlamentare di controllo sui servizi segreti (Copasir) ha trasmesso al governo italiano l’indicazione statunitense di sbarrare la strada in Italia alla telco cinese Huawei nella costruzione dell’infrastruttura della rete 5G, provando ad arruolare Roma nella guerra dichiarata dall’Amministrazione Trump alle tecnologie innovative made in China.
A Pechino sono rimasti sbalorditi dalle mosse del camaleontico presidente del consiglio Conte, che nella versione precedente (giallo-verde) aveva apposto – unico paese del G7 – la firma a un protocollo d’intesa sulla nuova via della Seta a favore della Cina, e nella sua colorazione attuale (giallo-rosé) ha chiuso subito tutti i collegamenti con la Cina ed è rimasto incantato dalle sirene trumpiane.
Ad analizzarli dall’Italia, il memorandum sulla via della Seta e la decisione di chiudere subito tutti i collegamenti aerei sono in realtà frutto della medesima improvvisazione, della mancanza di consapevolezza all’interno della classe politica nazionale del ruolo della Cina, di un minimo di elaborazione su come vada gestito il rapporto con questo gigante in ascesa.
La vicenda del memorandum venne portata avanti da un ambizioso e scaltro sottosegretario al Mise, il «professor» Michele Geraci, con scarso coinvolgimento del ministero degli Esteri e del governo Conte I. Risultato? Alla Cina il leghista siciliano fece un grosso regalo politico (l’Italia è stato l’unico paese del G7 ad avallare la strategia della via della Seta), senza ottenere nulla in cambio (come avrebbe potuto essere altrimenti, per un’iniziativa gestita a livello personale?), né in termini di bilanciamento dell’interscambio né di miglioramento delle relazioni politiche. In compenso quella decisione contribuì ad accentuare l’isolamento dell’Italia all’interno dell’Unione europea e fece arrabbiare gli Stati uniti, partner strategici.
E forse proprio questo ha indotto qualcuno nel Conte II a volersi dimostrare più realista del re nei confronti di Washington, varando immediatamente dopo l’alleato una misura che si è dimostrata affrettata, senza valutazione delle conseguenze pratiche (per i cittadini cinesi e italiani) e politiche, nelle relazioni bilaterali con Pechino.
Certo, la Cina resta un partner politico e commerciale marginale per l’Italia. L’anno scorso abbiamo esportato nella Repubblica popolare 13 miliardi di beni (soprattutto meccanica, tessile e farmaceutica) importandone 33 miliardi. Perfino nel vino, continuiamo a mantenere una quota di mercato del 6-7%, surclassati dai cugini francesi, che si sono mossi molto prima e molto meglio.
Ma a qualcuno nell’Amministrazione è mai venuto in mente che questi ritardi (gravi per un paese manifatturiero ed esportatore come il nostro) forse dipendono anche dalla condotta politica, da una politica estera nei confronti della Cina inesistente, quando non autolesionista?
L’amicizia con la Cina si costruisce nei tempi lunghi, con un dialogo politico continuo e con manifestazioni di amicizia nei momenti importanti, come, ad esempio, la crisi del “coronavirus”.
L’ascesa della Cina è un fenomeno complesso, che sta sollevando un mare di contraddizioni all’interno del capitalismo globale, nonché di paure (spesso irrazionali) nelle opinioni pubbliche nazionali. Tuttavia siamo di fronte a un cambiamento storico rispetto al quale si rivelano del tutto inadeguati sia le iniziative personali più o meno improvvisate, sia lo schierarsi pavlovianamente dalla parte dell’alleato statunitense, anche quando ciò rischia di compromettere i cosiddetti «interessi nazionali» le relazioni con un attore sempre più importante come la Cina.
Continuare ad affidare al Geraci o allo Speranza di turno la gestione di questioni così complesse, con un attore così ingombrante come la Cina vuol dire condannarsi a darsi una zappa sui piedi dopo l’altra.
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