Dopo Iowa e New Hampshire, Bernie Sanders ha vinto – anzi ha stravinto – le primarie del partito democratico in Nevada lo scorso sabato.
Lo
Stato del Sud Est era un banco di prova fondamentale, non tanto per il
numero di delegati che avrebbe assegnato – 36 su poco meno di 2000 –
alla convention democratica che designerà questa estate lo
sfidante di Donald Trump, ma per comprendere i comportamenti elettorali
di afro-americani e latinos dopo le performance in due stati “bianchi”; e dunque capire se il trend positivo dei due precedenti exploit sarebbe stato confermato.
Per
la cronaca Sanders ha “doppiato” il centrista Joe Biden, ottenendo il
46,8% dei voti totali e 24 delegati, contro il 20,2% dell’ex “numero
due” di Obama che manda 9 delegati alla convention, il “centrista”
giovane Pete Buttigieg – “Wall Street Pete”, come lo chiamano i
sostenitori di Sanders – ottiene il 14,3% dei voti con 3 delegati,
mentre in quarta posizione si assesta Elizabeth Warren con poco meno del
10% e nessun delegato.
In sintesi Sanders ha preso più voti dei suoi primi tre diretti sfidanti messi insieme.
Questo
sommato ai vari sondaggi che stanno uscendo per singoli Stati e sul
dato nazionale dei democratici fanno di lui l’anti-Trump “naturale”.
In
primis, bisogna ricordare che Sanders ha vinto dove aveva perso 4 anni
fa sfidando Hillary Clinton, ed in seconda battuta che il “vecchio”
candidato centrista Joe Biden sembrava favorito per via dell’appeal
di cui gode quest’ala del Partito tra gli elettori afro-americani, il
cui voto è fondamentale per le primarie nella Carolina del Sud questo
sabato, ultima tappa delle primarie prima del “Super Martedì” del 3
marzo, in cui il miliardario Bloomberg scenderà ufficialmente in campo.
Se
Biden, secondo i sondaggi, ha riscosso più di un terzo del voto degli
afro-americani, Sanders l’ha incalzato di stretta misura: l’uno ha
ottenuto il 36% e l’altro il 27%, e complessivamente – come abbiamo
visto – è arrivato molto dietro.
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Ma
è tra gli ispano-americani che Sanders ha raccolto un consenso decisivo
– più della metà dei voti -, importante per due ordini di motivi.
Uno più strutturale e macro, l’altro più contingente e connesso alle future primarie in California ed in Texas.
Gli
ispanici sono la principale minoranza etnica americana. Erano il 18,1%
della popolazione statunitense totale il primo luglio del 2017 – secondo
l’ufficio di censimento – cioè 58,9 milioni, e raggiungeranno il 19%
quest’anno secondo le previsioni, giungendo ad essere più di 62 milioni.
I
cambiamenti demografici intercorsi negli Stati Uniti contemporanei
hanno fatto aumentare significativamente gli elettori non bianchi, che
rappresentano per il Pew Research Center quasi un terzo degli aventi
diritto al voto, minacciando di fatto il peso elettorale WASP.
Trump
in parte è la risposta a questa “fine di egemonia” dell’elettorato
bianco e protestante, in prospettiva; un declino inesorabile di uno dei
perni dell’identità “Stelle e Strisce”, che si è strutturata attorno a
questo nocciolo duro, e all’assimilazione a tappe successive
dell’immigrazione europea e russa, in particolare.
Entra in crisi il “suprematismo bianco”, corollario ideologico principale dell’american way of life, sulla spinta dei profondi cambiamenti demografici, base materiale della sua implosione.
Gli
ispanici sono concentrati soprattutto in dieci Stati dell’Unione,
alcuni dei quali – California, Texas, New York, Florida e Illinois –
rivestono una importanza cruciale per l’esito del voto presidenziale.
Un peso demografico a cui si unisce una maggiore desiderio di partecipazione elettorale, soprattutto tra le fasce giovanili.
In
Nevada – dove si è tenuta l’ultima tappa delle primarie democratiche –
così come New York, Texas, Illinois, California, New Jersey e Florida,
il numero di ispanici di età compresa tra i 18 e 24 anni che si reca
alle urne è superiore del 170% a quello dei non ispanici!
In
California, che insieme al Texas, sarà uno degli Stati fondamentali nel
“super martedì” del 3 marzo di quest’anno – considerato l’alto numero
di delegati che lo Stato esprime alla convention – l’elettorato ispanico
è cresciuto quattro volte di più rispetto a quello non ispanico.
Le elezioni midterm
del 2018 sono state un barometro importante per comprendere i
comportamenti elettorali con l’affluenza alle urne degli ispanici che è
aumentata drasticamente rispetto a quelle del 2014, passando da 6,7 a 13
milioni.
Riassumendo,
gli ispanici crescono demograficamente e sono quasi un quinto della
popolazione totale, aumenta la loro partecipazione al voto in alcuni
casi in maniera esponenziale; e questo avviene soprattutto nelle fasce
giovanili, quei famosi millenials cresciuti con la fine del “sogno americano”, successivo allo scoppio della crisi del 2007-2008.
Sanders
ha intercettato il desiderio di riscatto di questa parte della
popolazione, più volte al centro della politica razzista di The Orange Man, sbaragliando gli altri competitor democratici con una campagna “porta a porta”, sostenuta in Nevada da due delle maggiori organizzazioni ispaniche: Mijente e Make Road Action, con il loro “inedito” endorsement,
hanno arricchito la già potente macchina da guerra degli attivisti che
ha il suo nervo nei DSA, gli agguerriti “socialisti americani”.
Tío Bernie, com’è chiamato affettuosamente dai latinos,
ha fatto una campagna di strada (sono state bussate 200.000 porte in 17
giorni) parlando in spagnolo ai diretti interessati attraverso
attivisti ispanici; e la lingua è uno dei maggiori vettori identitari di
questa componente, in uno Stato dove l’8,5% degli abitanti lo parla.
Solo Texas con il 12%, California con l’11,9% e Florida con il 9,2% hanno più persone che parlano spagnolo nell’Unione.
Gli
altri candidati si sono spesi con un marketing elettorale a tratti
pietoso quanto lucroso; due candidati, intervistati, non hanno saputo
dire nemmeno il nome dell’attuale presidente messicano!
In
sintesi, il “socialista” quasi ottantenne parla a questa parte della
popolazione con la propria lingua, e viene riconosciuto come colui che
gli dà voce, a cominciare da chi quotidianamente svolge attività per il
miglioramento di questa comunità, godendo di un riconoscimento e di un
radicamento che i flussi di denaro del market politico tipico del
centrismo “dem” non possono assicurare. Se poi a questo si somma la
crassa ignoranza…
Sanders ha catalizzato più di un terzo delle donazioni totali della comunità statunitense dei latinos
– il 36% – pari a 8,3 milioni di dollari, in una campagna di raccolta
fondi che si basa su donazioni diffuse di poco meno di 20 dollari a
testa, che però gli permette di disporre di una cifra superiore a quella
di tutti gli altri candidati democratici – tranne il miliardario
Bloomberg, ovvio – senza accettare soldi da nessun amministratore
delegato delle maggiori aziende quotate in borsa, la S&P500.
Bisogna
ricordare che questo “risveglio” degli ispano-americani è in diretta
continuità con ciò che fu negli anni sessanta e settanta il movimento chicano, che i commentatori politici nostrani sembrano ignorare.
Un movimento di classe dai forti connotati culturali anti-“assimilazionisti” ed internazionalisti, quello chicano,
che l’altro rivendicava quelle terre che gli Stati Uniti sottrassero al
Mexico (Texas, New Mexico, Arizona, Utah, California, parte del
Colorado e del Wyoming) a meno di trent’anni dall’indipendenza dalla
Spagna del 1821, con il trattato di Guadalupe Hidalgo del 1848, dopo la
guerra di conquista del 1846-48.
Bisogna ricordare che il movimento All of Mexico
propugnava allora il completamento dell’annessione, spingendosi col
pensiero fino al centro-America; ipotesi infine scartata perché i
messicani di allora – così come molti yankees pensano attualmente degli
ispanici – incomprimibili nel canone bianco-protestante della nazione.
Già
la guerra di conquista del Messico aveva visto la diserzione di una
componente importante di artiglieri irlandesi, il San Patrizio, che si
erano uniti alla resistenza messicana facendo emergere quella
discrepanza tra necessità belliche e la capacità di tenuta dei propri
ranghi…
E forse agli occhi degli ispano-americani, per la maggior parte di origine messicana, Tío Bernie è mutatis mutandis l’erede di quei “traditori di razza” che furono al heroico battallon de San Patricio cui una discreta produzione artistica ricorda tutt’ora le gesta.
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Tornando alle primarie in Nevada, bisogna registrare altri fatti significativi.
Il
primo è legato al successo di Sanders tra i giovanissimi: 2/3 dei voti
degli elettori sotto i trent’anni sono andati a lui. Il secondo è legato
alla categoria di coloro che si definiscono “very liberal”, che ha votato in massa per il senatore del Vermont, di fatto rendendo inconsistente l’appeal verso l’altra candidata dell’ala sinistra del partito democratico ed ex consigliera di Obama, E. Warren.
In generale Bernie vince in tutte le categorie d’età tranne che i sessantenni.
Il
secondo è la delegittimazione della dirigenza di uno dei più importanti
“corpi intermedi” del centrismo democratico, il sindacato dei
lavoratori del settore dei casinò che raggruppa 60.000 aderenti – la Culinary Union – e che aveva fatto la guerra alla proposta di Sanders dell’assistenza medica gratuita pubblica per tutti, la medicare for all, definendola disastrosa.
La base – composta da un buon numero di latinos
– ha votato contro l’atteggiamento “corporativo” della propria centrale
interessata a mantenere una tipologia di assistenza medica privata, che
avvantaggia propri iscritti e ne fa un perno della propria strategia, a
discapito degli altri settori più vulnerabili dei subalterni.
Il terzo non meno importante è l’annichilimento della campagna diffamatoria dei media mainstream – una vera e propria guerra mediatica – dai toni maccartisti, che ha avuto come punta di lancia il Washington Post,
di cui è proprietario il numero uno di Amazon, Jeff Bezos, uno di
coloro che più ha spinto alla candidatura il tre volte sindaco di New
York, ex repubblicano ed uno degli uomini più ricchi del Pianeta,
Michael Bloomberg.
Un
socialista quasi ottantenne, senatore in uno degli stati meno
importanti per i giochi politici tradizionali statunitensi, sta
cambiando radicalmente i connotati della sfida politica per le
presidenziali.
Se
il ciclone Sanders continuerà vittorioso nella sua corsa, il 3 novembre
prossimo i cittadini statunitensi potrebbero essere chiamati a
scegliere tra due visioni degli Stati Uniti non semplicemente “in
competizione”, ma radicalmente contrapposte. Segno che il grado di
maturazione delle contraddizioni politico-sociali complessive negli
States è arrivato probabilmente ad un punto di non ritorno.
Un
movimento inter-generazionale e multi-razziale, che è alla base della
“rivoluzione politica” di Sanders dopo avere sfidato le mille sfumature
di neo-liberalismo della politica centrista dei democratici, potrebbe
gareggiare contro il più feroce rappresentante dell’imperialismo
americano, ultra-reazionario.