Doveva
essere la “manovra del popolo” da parte di un governo autoproclamatosi
“del cambiamento”. Ma per il popolo (se con questo termine indichiamo
quei settori sempre più ampi sui quali si stanno scaricando gli effetti
della crisi) nella manovra così come rimodellata dalla Commissione
Bilancio della Camera, rimane poco o niente. La Legge di Bilancio è
stata approvata alla Camera con il voto di fiducia. Ora passa in seconda
lettura al Senato.
Certo,
la legge di bilancio deve ancora completare il suo percorso, ma il
quadro che si sta delineando ne indica chiaramente la direzione.
Le
promesse, gli annunci, le affermazioni roboanti, si infrangono sul muro
eretto dall’Unione europea a guardia dei conti e della disciplina di
bilancio. Un muro che è destinato ad essere invalicabile finchè non vi
sarà una reale volontà di rottura di quei vincoli e delle asfissianti e
opprimenti rigidità imposte dalla governance europeista.
Se
la legge di stabilità doveva essere il banco di prova per verificare la
corrispondenza tra le aspettative suscitate dalla nuova compagine
governativa e la concretezza dei fatti, il test non può considerarsi
superato.
Una
manovra timida già nella sua formulazione originaria perché, al di là
della bagarre mediatica, il deficit al 2,4% comunque già garantiva un
avanzo primario di bilancio per lo Stato, esattamente come avviene nelle
leggi di bilancio del nostro paese da 25 anni a questa parte.
Eppure
è stata subito giudicata eccessiva dalla Commissione europea, ed ora il
governo giallo verde si appresta a un clamoroso, anche se ampiamente
annunciato, dietrofront, in particolare su quelle due misure (reddito di
cittadinanza e pensioni) che ne dovevano costituire l’asse portante.
Non
poteva andare diversamente: pensare di sfidare i diktat europei a
parole, magari confidando in qualche improbabile alleato in Europa e
senza mettere in moto un processo sociale di mobilitazione capace di
costruire le condizioni per reggere lo scontro con mercati e l’Unione
Europea, si è rivelata una pia illusione.
E
soltanto una opposizione, di centro destra e di centro sinistra,
apertamente schieratasi a favore dei mercati e di quei parametri
economici che in questi anni hanno impoverito strati sempre più larghi
della popolazione, poteva far apparire questo governo come un paladino
degli interessi popolari.
Vediamo nel dettaglio le misure.
Pubblico impiego
Per
la tornata contrattuale 2019/2021, sono stati stanziati 1775 milioni di
euro pari ad un recupero salariale del 1,95% a fronte di un’inflazione
prevista dall’ISTAT al 4,2% (IPCA)!
Con
queste risorse i lavoratori pubblici non recupereranno neanche
l’inflazione del triennio, senza parlare di quanto già lasciato per
strada col il blocco contrattuale durato quasi dieci anni.
Il
ripristino del turn over al 100% trova riscontro nella legge di
stabilità ove sono previste, oltre all’immancabile potenziamento degli
organici nelle Forze di Polizia, assunzioni nel Ministero della
Giustizia, nei Beni Culturali, nei Vigili del Fuoco, nella Ricerca,
nella Scuola, all’Inail e all’Ispettorato del lavoro. Lo consideriamo un
segnale positivo, ma ancora troppo parziale e timido perché permane il
problema dei danni causati da anni di blocco delle assunzioni.
E’
di queste ore la proposta surreale, alla quale starebbe lavorando il
governo in vista dell’arrivo della legge di bilancio al Senato, di
pagare i premi di risultato dei dipendenti pubblici in Btp italiani per
risanare i conti pubblici. Ogni commento è superfluo..
Infine
si segnala il pesante intervento contro il congedo di maternità
obbligatorio, che ha di fatto inserito la possibilità di continuare a
lavorare fino al nono mese di gravidanza se il medico non prevede
diversamente. Chiunque può intendere che la trasformazione del diritto
ad interrompere l’attività lavorativa all’inizio dell’ottavo mese in una
mera facoltà, espone le donne lavoratrici ad una pericolosa condizione
di ricattabilità.
Reddito di cittadinanza e pensioni.
Il
reddito di cittadinanza e le pensioni sono ancora un oggetto
misterioso. E pensare che dovevano essere l’architrave della “manovra
del popolo”…
La
partita su queste due misure si dovrà giocare al Senato, attualmente ci
si è limitati ad individuare un tetto di spesa, affidando i dettagli ad
un disegno di legge da emanare in un momento successivo, ritardandone
l’entrata in vigore di qualche mese per ridurne i costi. Ma anche questo
slittamento (che consentirebbe un risparmio di circa 4 miliardi) è
insufficiente per far scendere il deficit verso (o meglio al di sotto)
del 2% gradito alla Commissione europea.
E
così l’abolizione della riforma Fornero, tramutatasi già nel contratto
di governo in quota 100, è poi diventata una falsa quota 100, poiché
per andare in pensione occorrono necessariamente ed esclusivamente due
requisiti: 38 anni di contributi e 62 anni di età.
Sotto
i colpi della Commissione europea, la corsa al ribasso su questo tema è
inarrestabile e già si parla di traghettare tutti da quota 100 a 41
anni di contributi dal 2023. Altro che abolizione della Fornero: si
tratta solo di un prepensionamento per una platea ridotta di lavoratori!
Il
reddito di cittadinanza segue la stessa parabola discendente. Tra
riduzione dell’assegno e della platea dei destinatari, introduzione di
varie condizionalità (obbligo di otto ore di lavoro gratuito, obbligo di
accettazione alla terza offerta di lavoro) questo strumento si è presto
tramutato in una forma di accompagnamento forzoso allo sfruttamento
lavorativo.
La
trattativa con l’Unione europea e le pressioni della Lega stanno
letteralmente mutando la natura di questa misura: la proposta che si sta
facendo strada è quella di coinvolgere le imprese attraverso uno
sgravio contributivo pari a tre o sei mensilità di reddito da trasferire
alle aziende che decideranno di assumere. Altro che lotta alla povertà è
il solito incentivo alle imprese!
Pioggia di soldi alle imprese,
Ridimensionate
fortemente le misure sociali, resta il segno e la traiettoria di una
manovra che, in continuità con quelle dei precedenti governi, riafferma
la centralità dell’ideologia della impresa ribadita nelle tante
elargizioni (con qualche lieve ritocco in basso per le grandi imprese)
nei confronti di quel mondo imprenditoriale che viene considerato
(erroneamente) l’unico capace di rilanciare economia ed occupazione.
Soltanto l’ingordigia di un mondo industriale, specie quello che fa
riferimento alle grandi imprese maggiormente legate al processo di
integrazione europea, spiega il dissenso espresso dalla Confindustria
nei confronti di questa manovra.
Un
dissenso che ha le sue ragioni di fondo nel fatto che l’associazione
degli industriali si è abituata a ricevere col governo Renzi una
quantità di soldi impressionante tra taglio delle tasse e
decontribuzione per i neo assunti col job act. La manovra della attuale
compagine governativa certo non penalizza le imprese (anzi!), soltanto
rimodula le poste indirizzandole in misura maggiore verso la piccola
impresa che costituisce il naturale serbatoio elettorale della Lega e,
in misura minore, del M5S.
Ecco le misure nel dettaglio.
Riduzione
di 9 punti percentuali, dal 24 al 15% sull’IRES per gli utili investiti
dalle società di capitali in beni strumentali e nuova occupazione;
Raddoppio dal 20 al 40% della deducibilità dell’IMU ai fini Ires e Irpef per gli immobili strumentali;
Innalzamento
al 170% dell’iper ammortamento, nell’ambito del piano Industria 4.0,
per lo scaglione di investimento sino a 2,5 milioni di euro;
Conferma
del credito di imposta per le imprese per la formazione 4.0 con una
rimodulazione che per le piccole imprese fa salire l’agevolazione al
50%, per le medie imprese resta ferma al 40%, mentre scende al 30% per
le grandi imprese;
Credito di imposta del 25 e del 50% su spese incrementali per ricerca e sviluppo;
Contributo
a fondo perduto, per le prestazioni consulenziali di natura
specialistica finalizzate a sostenere i processi di digitalizzazione
delle imprese, per due anni per le piccole imprese nella misura del 50%
dei costi sostenuti ed entro il limite di 40.000 euro, e per le medie
imprese nella misura del 30% entro il limite di 25.000 euro.
Insomma alla timidezza e ai dietrofront nei confronti delle misure sociali corrisponde la consueta generosità verso le imprese
Questione fiscale
Il segno della politica del governo si coglie anche nel pesante intervento in materia fiscale.
La
flat tax, fiore all’occhiello della Lega, costituisce l’ennesimo colpo
assestato al principio di progressività dell’imposta contenuto nella
Costituzione, allontanando definitivamente il nostro sistema fiscale da
qualsiasi vocazione redistributiva e determinando un doppio
sbilanciamento: tra lavoratori autonomi tassati in maniera
proporzionale e dipendenti e pensionati tassati invece con aliquote
progressive, e tra lavoratori autonomi e imprese individuali che
pagheranno egualmente l’aliquota del 15% pur percependo un reddito ben
più basso.
Infatti
l’aliquota agevolata del 15 percento, ad oggi già applicata nei
confronti di tutti quei professionisti che percepiscono ricavi fino a
30mila euro, viene estesa ad autonomi e società di persone ( Snc, Sas e
Srl) con ricavi fino a 65mila euro. Dai 65mila ai 100mila euro si
pagherebbe poi un 5 percento addizionale a partire dal 2020.
Non
vi è dubbio che la flat tax indirizzi il vantaggio fiscale alle fasce
di reddito più alte e in particolare ai percettori di redditi
indipendenti facenti capo a strutture imprenditoriali e non riguarderà
minimamente quel mondo dei lavoratori precari a cui tutti si rivolgono
giusto il tempo della campagna elettorale.
Condoni
Sono
contenuti nel decreto-legge 23 ottobre 2018, n. 119, già approvato al
Senato e si collocano nel solco di quella infinita stagione dei condoni
che da sempre caratterizza la politica fiscale di tutti i governi,
indipendentemente dal colore politico.
Certo,
il piatto forte del decreto fiscale era la “dichiarazione integrativa”
che consentiva di dichiarare fino al 30 percento in più di quanto già
comunicato al Fisco, (con un tetto massimo di 100.000 euro di imponibile
per anno di imposta su 5 anni) sanando Irap, Irpef, Iva, ritenute e
contributi non dichiarati, con il pagamento di una aliquota pari al 20
percento: tale misura è scomparsa dal testo, troppo impopolare per il
governo del cambiamento e soprattutto per la componente grillina che
dell’onestà aveva fatto la sua bandiera.
Ciò
non toglie che nel decreto, se pur depurato di questo condono, oltre la
definizione delle cartelle, ve ne sono altri, magari non eclatanti come
la “dichiarazione integrativa”, ma egualmente insopportabili:
definizione agevolata dei processi verbali di constatazione (PVC): si tratta dell’atto prodromico all’avviso di accertamento che il contribuente potrà definire, pagando gli imponibili e non le relative sanzioni.
Riguarda imposte sui redditi e relative addizionali, contributi
previdenziali e ritenute, imposte sostitutive, imposta regionale sulle
attività produttive, imposta sul valore degli immobili all’estero,
imposta sul valore delle attività finanziarie all’estero e imposta sul
valore aggiunto.
definizione agevolata degli atti del procedimento di accertamento:
gli avvisi di accertamento notificati entro la data di entrata in
vigore del decreto non impugnati e ancora impugnabili possono essere
sanati versando solo le imposte e non sanzioni, interessi ed eventuali accessori, entro trenta giorni dall’entrata in vigore del decreto
definizione agevolata delle controversie tributarie:
siamo nella fase del contenzioso. Le controversie in cui è parte
l’Agenzia delle entrate, aventi ad oggetto atti impositivi, pendenti in
ogni stato e grado del giudizio, compreso quello in Cassazione possono
essere definite, a domanda del soggetto che ha proposto ricorso, con il
pagamento del 90 percento del tributo senza pagamento di interessi e sanzioni.
Nell’ipotesi
di soccombenza dell’Agenzia delle Entrate in primo grado il
contribuente pagherà il 40 per cento del tributo; in caso di
soccombenza nella pronuncia di secondo grado il 15 per cento;
nell’ipotesi in cui l’Agenzia delle entrate abbia perso già nei
precedenti due gradi di giudizio e la causa sia pendente innanzi alla
Corte di Cassazione il 5% del tributo.