martedì 11 dicembre 2018

La “manovra del popolo” diventa Legge di Bilancio.

Doveva essere la “manovra del popolo” da parte di un governo autoproclamatosi “del cambiamento”. Ma per il popolo (se con questo termine indichiamo  quei settori sempre più ampi sui quali si stanno scaricando gli effetti della crisi) nella manovra così come rimodellata dalla Commissione Bilancio della Camera, rimane poco o niente. La Legge di Bilancio è stata approvata alla Camera con il voto di fiducia. Ora passa in seconda lettura al Senato.
Certo, la legge di bilancio deve ancora completare il suo percorso, ma il quadro che si sta delineando ne indica chiaramente la direzione.
Le promesse, gli annunci, le affermazioni roboanti, si infrangono sul muro eretto dall’Unione europea a guardia dei conti e della disciplina di bilancio. Un muro che è destinato ad essere invalicabile finchè non vi sarà una reale volontà di rottura di quei vincoli e delle asfissianti e opprimenti rigidità imposte dalla governance europeista.
Se la legge di stabilità doveva essere il banco di prova per verificare la corrispondenza tra le aspettative suscitate dalla nuova compagine governativa e la concretezza dei fatti, il test non può considerarsi superato.
Una manovra timida già nella sua formulazione originaria  perché, al di là della bagarre mediatica, il deficit al 2,4% comunque già garantiva un avanzo primario di bilancio per lo Stato, esattamente come avviene nelle leggi di bilancio del nostro paese da 25 anni a questa parte.
Eppure è stata subito giudicata eccessiva dalla Commissione europea, ed ora il governo giallo verde si appresta a un clamoroso, anche se ampiamente annunciato, dietrofront, in particolare su quelle due misure (reddito di cittadinanza e pensioni) che ne dovevano costituire l’asse portante.
Non poteva andare diversamente: pensare di sfidare i diktat europei a parole, magari confidando in qualche improbabile alleato in Europa e senza mettere in moto un processo sociale di mobilitazione capace di costruire le condizioni per reggere lo scontro con  mercati e l’Unione Europea, si è rivelata una pia illusione.
E soltanto una opposizione, di centro destra e di centro sinistra, apertamente schieratasi a favore dei mercati e di quei parametri economici che in questi anni hanno impoverito strati sempre più larghi della popolazione, poteva far apparire questo governo come un paladino degli interessi popolari.
Vediamo nel dettaglio le misure.
Pubblico impiego
Per la tornata contrattuale 2019/2021, sono stati stanziati 1775 milioni di euro pari ad un recupero salariale del 1,95% a fronte di un’inflazione prevista dall’ISTAT al 4,2% (IPCA)!
Con queste risorse i lavoratori pubblici non recupereranno neanche l’inflazione del triennio, senza parlare di quanto già lasciato per strada col il blocco contrattuale durato quasi dieci anni.
Il ripristino del turn over al 100% trova riscontro nella legge di stabilità ove sono previste, oltre all’immancabile potenziamento degli organici nelle Forze di Polizia, assunzioni nel Ministero della Giustizia, nei Beni Culturali, nei Vigili del Fuoco, nella Ricerca, nella Scuola, all’Inail e all’Ispettorato del lavoro. Lo consideriamo un segnale positivo, ma ancora troppo parziale e timido perché permane il problema dei danni causati da anni di blocco delle assunzioni.
E’ di queste ore la proposta surreale, alla quale starebbe lavorando il governo in vista dell’arrivo della legge di bilancio al Senato, di pagare i premi di risultato dei dipendenti pubblici in Btp italiani per risanare i conti pubblici. Ogni commento è superfluo..
Infine si segnala il pesante intervento contro il congedo di maternità obbligatorio, che ha di fatto inserito la possibilità di continuare a lavorare fino al nono mese di gravidanza se il medico non prevede diversamente. Chiunque può intendere che la trasformazione del diritto ad interrompere l’attività lavorativa all’inizio dell’ottavo mese in una mera facoltà, espone le donne lavoratrici ad una pericolosa condizione di ricattabilità.
Reddito di cittadinanza e pensioni.
Il reddito di cittadinanza e le pensioni sono ancora un oggetto misterioso. E pensare che dovevano essere l’architrave della “manovra del popolo”…
La partita su queste due misure si dovrà giocare al Senato, attualmente ci si è limitati ad individuare un tetto di spesa, affidando i dettagli ad un disegno di legge da emanare in un momento successivo, ritardandone l’entrata in vigore di qualche mese per ridurne i costi. Ma anche questo slittamento (che consentirebbe un risparmio di circa 4 miliardi) è insufficiente per far scendere il deficit verso (o meglio al di sotto) del 2% gradito  alla Commissione europea.
E così l’abolizione della riforma Fornero, tramutatasi già nel contratto di governo in quota 100, è  poi diventata una falsa quota 100, poiché per andare in pensione occorrono necessariamente ed esclusivamente due requisiti: 38 anni di contributi e 62 anni di età.
Sotto i colpi della Commissione europea, la corsa al ribasso su questo tema è inarrestabile e già si parla di traghettare tutti da quota 100 a 41 anni di contributi  dal 2023. Altro che abolizione della Fornero: si tratta solo di un prepensionamento per una platea ridotta di lavoratori!
Il reddito di cittadinanza segue la stessa parabola discendente. Tra riduzione dell’assegno e della platea dei destinatari, introduzione di varie condizionalità (obbligo di otto ore di lavoro gratuito, obbligo di accettazione alla terza offerta di lavoro) questo strumento si è presto tramutato in una forma di accompagnamento forzoso allo sfruttamento lavorativo.
La trattativa con l’Unione europea e le pressioni della Lega stanno letteralmente mutando la natura di questa misura: la proposta che si sta facendo strada è quella di coinvolgere le imprese attraverso uno sgravio contributivo pari a tre o sei mensilità di reddito da trasferire alle aziende che decideranno di assumere. Altro che lotta alla povertà è il solito incentivo alle imprese!
Pioggia di soldi alle imprese,
Ridimensionate fortemente le misure sociali, resta il segno e la traiettoria di una manovra che, in continuità con quelle dei precedenti governi, riafferma la centralità dell’ideologia della impresa ribadita nelle tante elargizioni (con qualche lieve ritocco in basso per le grandi imprese) nei confronti di quel mondo imprenditoriale che viene considerato (erroneamente) l’unico capace di rilanciare economia ed occupazione. Soltanto l’ingordigia di un mondo industriale, specie quello che fa riferimento alle grandi imprese maggiormente legate al processo di integrazione europea, spiega il dissenso espresso dalla Confindustria nei confronti  di questa manovra.
Un dissenso che ha le sue ragioni di fondo nel fatto che l’associazione degli industriali si è abituata a ricevere col governo Renzi una quantità di soldi impressionante tra taglio delle tasse e decontribuzione per i neo assunti col job act. La manovra della attuale compagine governativa certo non penalizza le imprese (anzi!), soltanto rimodula le poste indirizzandole in misura maggiore verso la piccola impresa che costituisce il naturale serbatoio elettorale della Lega e, in misura minore, del M5S.
Ecco le misure nel dettaglio.
Riduzione di 9 punti percentuali, dal 24 al 15% sull’IRES per gli utili investiti dalle società di capitali in beni strumentali e nuova occupazione;
Raddoppio dal 20 al 40% della deducibilità dell’IMU ai fini Ires e Irpef per gli immobili strumentali;
Innalzamento al 170% dell’iper ammortamento, nell’ambito del piano Industria 4.0, per lo scaglione di investimento sino a 2,5 milioni  di euro;
Conferma del credito di imposta per le imprese per la formazione 4.0 con una rimodulazione che per le piccole imprese fa salire l’agevolazione al 50%, per le medie imprese resta ferma al 40%, mentre scende al 30% per le grandi imprese;
Credito di imposta del 25 e del 50% su spese incrementali per ricerca e sviluppo;
Contributo a fondo perduto, per le prestazioni consulenziali di natura specialistica finalizzate a sostenere i processi di digitalizzazione delle imprese, per due anni per le piccole imprese nella misura del 50% dei costi sostenuti ed entro il limite di 40.000 euro, e per le medie imprese nella misura del 30% entro il limite di 25.000 euro.
Insomma alla timidezza e ai dietrofront nei confronti delle misure sociali corrisponde la consueta generosità verso le imprese
Questione fiscale
Il segno della politica del governo si coglie anche nel pesante intervento in materia fiscale.
La flat tax, fiore all’occhiello della Lega, costituisce l’ennesimo colpo assestato al principio di progressività dell’imposta contenuto nella Costituzione, allontanando definitivamente il nostro sistema fiscale da qualsiasi vocazione redistributiva e determinando un doppio sbilanciamento: tra  lavoratori autonomi tassati in maniera proporzionale e dipendenti e pensionati tassati invece con aliquote progressive, e tra lavoratori autonomi e imprese individuali che pagheranno egualmente l’aliquota del 15% pur percependo un reddito ben più basso.
Infatti l’aliquota agevolata del 15 percento, ad oggi già applicata nei confronti di tutti quei professionisti che percepiscono ricavi fino a 30mila euro, viene estesa ad  autonomi e società di persone ( Snc, Sas e Srl) con ricavi fino a 65mila euro. Dai 65mila ai 100mila euro si pagherebbe poi un 5 percento addizionale a partire dal 2020.
Non vi è dubbio che la flat tax indirizzi il vantaggio fiscale alle fasce di reddito più alte e in particolare  ai percettori di redditi indipendenti facenti capo a strutture imprenditoriali e non riguarderà minimamente quel mondo dei lavoratori precari a cui tutti si rivolgono giusto il tempo della campagna elettorale.
Condoni
Sono contenuti nel decreto-legge 23 ottobre 2018, n. 119, già approvato al Senato e si collocano nel solco di quella infinita stagione dei condoni che da sempre caratterizza la politica fiscale di tutti i governi, indipendentemente dal colore politico.
Certo, il piatto forte del decreto fiscale era la “dichiarazione integrativa” che consentiva di dichiarare fino al 30 percento in più di quanto già comunicato al Fisco, (con un tetto massimo di 100.000 euro di imponibile per anno di imposta su 5 anni) sanando Irap, Irpef, Iva, ritenute e contributi non dichiarati, con il pagamento di una aliquota pari al 20 percento: tale misura è scomparsa dal testo, troppo impopolare per il governo del cambiamento e soprattutto per la componente grillina che dell’onestà aveva fatto la sua bandiera.
Ciò non toglie che nel decreto, se pur depurato di questo condono, oltre la definizione delle cartelle, ve ne sono altri, magari non eclatanti come la “dichiarazione integrativa”, ma egualmente insopportabili:
definizione agevolata dei processi verbali di constatazione (PVC): si tratta dell’atto prodromico all’avviso di accertamento che il contribuente potrà definire, pagando gli imponibili e non le relative sanzioni. Riguarda  imposte sui redditi e relative addizionali, contributi previdenziali e ritenute, imposte sostitutive, imposta regionale sulle attività produttive, imposta sul valore degli immobili all’estero, imposta sul valore delle attività finanziarie all’estero e imposta sul valore aggiunto.
definizione agevolata degli atti del procedimento di accertamento:  gli avvisi di accertamento notificati entro la data di entrata in vigore del decreto non impugnati e ancora impugnabili possono essere sanati versando solo le imposte e non sanzioni, interessi ed eventuali accessori, entro trenta giorni dall’entrata in vigore del decreto
definizione agevolata delle controversie tributarie: siamo nella fase del contenzioso. Le controversie  in cui è parte l’Agenzia delle entrate, aventi ad oggetto atti impositivi, pendenti in ogni stato e grado del giudizio, compreso quello in Cassazione  possono essere definite, a domanda del soggetto che ha proposto ricorso, con il pagamento del 90 percento del tributo senza pagamento di interessi e sanzioni.
Nell’ipotesi di soccombenza dell’Agenzia delle Entrate in primo grado il contribuente pagherà il 40 per cento del  tributo; in caso di soccombenza nella pronuncia di secondo grado il 15 per cento;  nell’ipotesi in cui l’Agenzia delle entrate abbia perso già nei precedenti due gradi di giudizio e la causa sia pendente innanzi alla Corte di Cassazione il 5% del tributo.

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