venerdì 28 aprile 2017

La squallida festività del centro commerciale

Aperto anche a Pasqua è la scritta che molti hanno potuto leggere all’ingresso di molti negozi in tutta Italia, e che vedranno sempre più spesso negli anni a venire. Ma i lavoratori dell’outlet di Serravalle Scrivia non erano d’accordo. Così due cortei hanno bloccato le entrate, per impedire l’accesso a imperterriti clienti decisi a trascorrere un giorno di festa, uno degli ultimi ancora liberi dallo sfruttamento, nel tempio del consumo. Ma a quanto pare ad alcuni irriducibili consumatori non sono bastati neanche i picchetti e gli insulti dei manifestanti per convincersi a desistere.
Molti lavoratori non hanno partecipato alla protesta, e perché costretti dai capi, e perché rassegnati a una vita sacrificata sull’altare del Dio Capitale. E la rassegnazione emerge dalle parole del sindaco del paese, che su di essa ha trovato motivo di lucro, economico ed elettorale: “Siamo in un’economia di mercato” dice “Io comunque non avrei potuto fare nessuna ordinanza per chiudere, anche perché siamo zona turistica”. Il centro commerciale porta soldi e turisti, e l’economia urbana non può che giovarne. “Siamo in un’economia di mercato”, è il capitalismo, bellezza!
L’Italia è l’unico Paese europeo che non prevede alcuna restrizioni di orari (e di aperture) per festivi e superfestivi. La novità è stata introdotta dal governo Monti che nel 2012 con il provvedimento Cresci Italia ha voluto liberalizzare del tutto gli orari degli esercizi pubblici.
L’Italia è l’unico Paese europeo che non prevede alcuna restrizioni di orari (e di aperture) per festivi e superfestivi. La novità è stata introdotta dal governo Monti che nel 2012 con il provvedimento Cresci Italia ha voluto liberalizzare del tutto gli orari degli esercizi pubblici.
Le liberalizzazioni degli orari hanno progressivamente ridotto il tempo libero (dove “libero” deve intendersi non soltanto come non occupato dal lavoro individuale ma nemmeno dal consumo). Prima si è cominciato ad aprire i supermercati saltuariamente di domenica, poi si è approdati all’apertura domenicale fissa, infine si è passati ad aperture eccezionali a Natale, a Pasqua, a Capodanno. Persino il 25 aprile, la Festa della Liberazione e il Primo Maggio, Festa dei Lavoratori, quasi con una triste e cinica ironia. Alcune grandi catene hanno addirittura pensato di introdurre l’apertura di ventiquattro ore, sull’esempio degli Stati Uniti, dove ormai è da tempo una prassi consolidata. L’Italia in questo campo, come direbbero i cantori del “progresso” neoliberale, non è “rimasta indietro”: siamo l’unico paese in Europa a non aver nessun tipo di restrizione sugli orari degli esercizi commerciali. E laddove esistono ancora lavoratori recalcitranti ci pensano i contratti flessibili e la minaccia dei licenziamenti “facili” a far loro cambiare idea.
Il valore di scambio colonizza tempi e spazi. Lavora di più, chi può lavorare, perché chi non lavora abbassi le pretese e non sia troppo “choosy”, come diceva un ex ministro in lacrime; e tutti quanti, poi, consumano. E perché questo avvenga nuovi spazi devono essere strappati alla vita comunitaria, a ciò che ne rimane, o alle rare nicchie di ambiente non ancora urbanizzato, per essere messi a profitto dalla produzione-consumo. Supermercati, grandi catene, negozi che contengono altri negozi al loro interno come scatole cinesi, vere e proprie città consumistiche, l’ultima frontiera della grande distribuzione.
L’outlet di Serravalle Scrivia è una delle tante cittadine commerciali – la più grande d’Europa – dove la gente può passeggiare, girando per i negozi attaccati l’uno all’altro, scorrendo di vetrina in vetrina, arrivando a mani vuote e andandosene, al calar del sole, carica di buste gonfie di merce acquistata in saldo. È l’esemplificazione perfetta di come il capitalismo abbia colonizzato tutti gli spazi e tutti i tempi di esistenza, e di conseguenza l’immaginario e le (in)coscienze. Probabilmente, molti di coloro che la domenica sono immersi nella gioia effimera della liturgia consumistica, il giorno dopo dovranno tornare a lavorare in un altro centro del consumo. Turni massacranti, contratti flessibili, con la minaccia del licenziamento o del mancato rinnovo, che il capitalismo postmoderno costringe ad accettare quasi con un senso di colpa, perché il lavoro è poco, e chi ce l’ha deve essere grato e non fare tante storie. Ma quando non si lavora non si riesce a fare nient’altro che far lavorare altri, i quali producono non per quello di cui la società umana abbisogna, ma perché altri possano consumare. E tutto si svolge in questa turnazione, dove il lavorare-per-il-consumo si alterna al consumo: il valore di scambio forgia per intero le nostre vite. Si arriva al paradosso che se anche esistessero turni e orari più umani, molti non saprebbero che farsene, se non trascorrere il tempo in qualche grande catena, in un fast-food o in un parco divertimenti, con tutta la famiglia al seguito. Perché la colonizzazione dei luoghi e dei tempi non è qualcosa di meramente negativo, che sottrae ai luoghi e ai tempi liberi, ma è la loro modulazione, definizione, la loro stessa creazione e ideazione.
Piazza di Catania: lo sport lo porta McDonald's
Piazza di Catania: lo sport lo porta McDonald’s
Un esempio illuminante è la mutazione della piazza – e l’Italia urbana, si può dire, si è fondata sulla piazza. Da centro e fulcro della vita pubblica cittadina sia religiosa (la chiesa) che laica (Il Comune, la Prefettura, ecc.) a non-luogo, simulacro di se stesso per attrarre turisti. La piazza, nella postmodernità, ha perduto la sua centralità come luogo della vita comunitaria e politica della popolazione urbana (anche perché praticamente non esiste più una vita comunitaria e politica). Le piazze d’Italia, nella loro magnificenza ereditata dal passato, sono state riadattate a luogo di semplice transito pedonale, “appoggio” per i locali, i bar e i ristoranti che vi si affacciano invadendola con i loro tavolini, cartoline turistiche, parcheggi (a pagamento) dove depositare l’auto per recarsi a lavorare o a consumare. Non più centri del pubblico, del collettivo e del politico, ma propaggini del mercato, del profitto e dell’individualistico.
Non bastano, quindi, le sacrosante rivendicazione lavorative, soltanto simulate dai sindacati e di cui oggi ci sarebbe bisogno urgente; per sfuggire alla morte civile e ripensare a un’autentica ribellione alla costellazione capitalistica odierna bisogna ridefinire gli spazi e i tempi, modellati dalle esigenze del profitto e del consumo, sulla base di istanze non consumistiche e non capitalistiche, di vita associata e di politica intesa nel suo più alto significato.

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