Il 70 per cento degli italiani è analfabeta: legge, guarda, ascolta,
ma non capisce. Non è affatto un titolo sparato, per impressionare;
anzi, è un titolo riduttivo rispetto alla realtà, che avvicina la cifra
autentica all’80 per cento. E questo vuol dire che tra la gente che
abbiamo attorno a noi, al caffè, negli uffici, nella metropolitana, nel
bar, nel negozio sotto casa, più di 3 di loro su 4 sono analfabeti:
sembrano “normali” anch’essi, discutono con noi, fanno il loro lavoro,
parlano di politica e di sport, sbrigano le loro faccende senza
apparenti difficoltà, non li distinguiamo con alcuna evidenza da
quell’unico di loro che non è analfabeta, e però sono “diversi”. Qual è
questa loro diversità? Che sono incapaci di ricostruire ciò che hanno
appena ascoltato, o letto, o guardato in tv e sul computer. Sono
incapaci! La (relativa) complessità della realtà gli sfugge, colgono
soltanto barlumi, segni netti ma semplici, lampi di parole e di
significati privi tuttavia di organizzazione logica, razionale,
riflessiva.
Non sono certamente analfabeti “strumentali”, bene o
male sanno leggere anch’essi e – più o meno – sanno tuttora far di conto
(comunque c’è un 5 per cento della popolazione italiana che ancora oggi
è analfabeta strutturale, “incapace di decifrare Mimmo
Cànditoqualsivoglia lettera o cifra”); ma essi sono analfabeti
“funzionali”, si trovano cioè in un’area che sta al di sotto del livello
minimo di comprensione nella lettura o nell’ascolto di un testo di
media difficoltà. Hanno perduto la funzione del comprendere, e spesso –
quasi sempre – non se ne rendono nemmeno conto. Quando si dice che
quella di oggi non è più la civiltà della ragione ma la civiltà della
emozione, si dice anche di questo. E quando Bauman (morto ieri, grazie a
lui per ciò che ci ha dato) diceva che, indipendentemente da qualsiasi
nostro comportamento, ogni cosa é intessuta in un discorso, anche
l’”analfabetismo” sta nel “discorso”. Cioè disegna un profilo di società
nella quale la competenza minima per individuare una capacità di
articolazione del proprio ruolo di “cittadino” – di soggetto consapevole
del proprio ruolo sociale, disponibile a usare questo ruolo nel pieno
controllo della interrelazione con ogni atto pubblico e privato – questa
competenza appartiene soltanto al 20 per cento dei nostri connazionali.
E’ sconcertante, e facciamo fatica ad accettarlo. Ma gli strumenti
scientifici di cui la linguistica si serve per analizzare il rapporto
tra “messaggio” e “comprensione” hanno una evidenza drammatica. Non é un
problema soltanto italiano. L’evoluzione delle tecnologie elettroniche e
la sostituzione del messaggio letterale con quello iconico stanno
modificando un po’ dovunque il livello di comprensione; ma se le
percentuali attribuibili ad altre societá (anche Francia, Germania,
Inghilterra, o anche gli Usa, che non sono affatto il modello
metropolitano del nostro immaginario ma piuttosto un’ampia America
Valeria Fedeliprofonda, incolta, ignorante, estremamente provinciale) se
anche quelle societá denunciano incoerenze e ritardi, mai si avvicinano
a queste angosciose latitudini, che appartengono soltanto all’Italia, e
alla Spagna.
Il “discorso” è complesso, e ha radici profonde,
sociali e politiche. Se prendiamo in mano i numeri, con il loro peso che
non ammette ambiguità e approssimazioni, dobbiamo ricordare che nel
nostro paese circa il 25% della popolazione non ha alcun titolo di
studio o ha, al massimo, la licenza della scuola elementare. Non é che
la scuola renda intelligenti, e però fornisce strumenti sempre più
raffinati – quanto più avanti si vada nello studio – per realizzare
pienamente le proprie qualità individuali. Vi sono anche laureati e
diplomati che sono autentiche bestie, e però è molto più probabile
trovare “bestie” tra coloro che laurea e diploma non sanno nemmeno che
cosa siano. (La percentuale dei laureati in Italia, poi, é poco più
della metà dei paesi più sviluppati.)
Diceva Tullio De Mauro, il
più noto linguista italiano, ministro anche della Pubblica Istruzione
(incarico che siamo capaci di assegnare perfino a chi non ha né laurea
né diploma – e questo dato rientra sempre nel “discorso”), che più del
50 per cento degli italiani si informa (o non si informa), vota (o non
vota), lavora (o non lavora), seguendo soltanto una capacità di analisi
elementare: una capacità di analisi, quindi, che non solo sfugge le
complessità, ma che anche davanti a un evento complesso (la crisi
economica, le guerre, la politica nazionale o internazionale) é capace
di una comprensione appena basilare. Un dato impressionante ce l’ha
fatto conoscere ieri l’Istat: il 18,6 per cento degli italiani – cioè
quasi uno su 5 – lo scorso anno non ha mai aperto un libro o un
giornale, non é mai andato al cinema o al teatro o a un concerto, e
neppure allo stadio, o a ballare. Ha vissuto prevalentemente per la
televisione come strumento informativo fondamentale, e non é azzardato
credere – visti i dati di riferimento della scolarizzazione – che la sua
comprensione della realtà lo piazzi a pieno titolo in quell’80 per
cento di Tullio De Mauroanalfabeti funzionali (che riguarda comunque un
universo sociale drammaticamente molto più ampio di questa pur amara
marginalità). E da qui, poi, il livello e il grado della partecipazione
alla vita della società, le scelte e gli stili di vita, il voto
elettorale, la reazione solo di pancia – mai riflessiva – ai messaggi
dove la realtà si copre spesso con la passione, l’informazione e la sua
contaminazione con la pubblicità e tant’altro che ben si comprende. E’
il “discorso”.
Il “discorso” ha al centro la scuola, il sistema
educativo del paese, le scelte e gli investimenti per la costruzione di
un modello funzionale che superi il ritardo con cui dobbiamo misurarci
in un mondo sempre più aperto e sempre più competitivo. Se noi
destiniamo alla ricerca la metà di un paese come la Bulgaria,
evidentemente c’é un “discorso” da riconsiderare. (Questo testo é un
omaggio a Tullio De Mauro, morto nei giorni scorsi, che ha portato la
linguistica fuori dalle aule dell’accademia, e l’ha resa uno degli
strumenti fondamentali di analisi di una società) .
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