Non è normale che in un periodo di deflazione cresca sensibilmente il
numero di quanti non possono garantirsi uno standard di vita
accettabile. Questo accade solo in Italia, che invece di chiedere
indietro i soldi ai pensionati dovrebbe immaginare misure adeguate di
sostegno al reddito. L’analisi di Alessandro Volpi
Nel corso degli ultimi anni si sono manifestati insieme due fenomeni che spesso, nella storia, si sono presentati disgiunti o meglio ancora in alternativa l’uno all’altro. Il combinato anomalo è quello di deflazione e significativo aumento della povertà: anomala perché, in genere, la discesa dei prezzi si è accompagnata ad una fase di sviluppo economico. Ora invece la povertà cresce in maniera vistosa mentre i prezzi scendono assai rapidamente.
Nel 2006, prima della crisi internazionale, le famiglie italiane in condizioni di povertà assoluta erano 789 mila, il 3,5% del totale del totale. Nel 2015 il numero delle famiglie in tali condizioni è quasi raddoppiato, arrivando a 1.582.000, pari al 6,1% del totale. Nello stesso arco di tempo è stato ancora più deciso l’incremento degli individui in condizioni di povertà assoluta, che sono passati da 1.660.000, poco meno del 3% del totale, a 4.598.000, pari al 7,6%.
Se poi dall’analisi della povertà assoluta, che comprende chi non è in grado di acquistare un paniere di beni e servizi necessari a raggiungere uno standard di vita minimo accettabile nel contesto di appartenenza, secondo la definizione Istat, si sposta la lente di osservazione sulla povertà relativa, propria di una famiglia di due persone con un consumo inferiore a quello medio pro-capite, allora il totale degli individui in queste condizioni arriva a 8,3 milioni, contro i 6 milioni del 2006.
A fronte di simili dati, nel 2016 i prezzi al consumo hanno fatto registrare un calo dello 0,1%, come media d’anno, una situazione che non si ripeteva dal 1959, quando in una fase, ben diversa, di boom economico, i prezzi scesero dello 0,4%. Si tratta di un fenomeno, peraltro, limitato al nostro Paese perché nel resto della zona euro, nel 2016, l’inflazione ha toccato il +1,1% su base annua.
Questa anomala combinazione italiana di povertà e deflazione tende a mettere in crisi un modello di politica economica che ha retto a lungo nel tempo.
Durante gli anni Settanta, infatti, la difesa del potere d’acquisto dei lavoratori e il miglioramento dello loro condizioni di vita erano passati attraverso il meccanismo della cosiddetta “scala mobile” che legava, in maniera automatica, le retribuzioni all’inflazione reale, per cui le prime salivano al crescere della seconda. Tale agganciamento, soprattutto dopo il varo nel 1975 del punto unico di contingenza, significò un gigantesco balzo in avanti del monte salariale. Da un lato questo ha determinato un importante avanzamento del reddito di gran parte della popolazione italiana, ma dall’altro accelerò ulteriormente il processo inflazionistico e tolse competitività al sistema economico nazionale.
Con lo scoppio della crisi della finanza pubblica e con l’avvento dei vincoli europei, all’inizio degli anni Novanta, si ritenne indispensabile rompere quel meccanismo di adeguamento automatico e i salari non furono più agganciati all’inflazione reale ma a quella programmata, definita, appunto, anno per anno su base programmatica. In questo modo, i salari cessavano di essere una “variabile indipendente” e venivano messi in relazione alle condizioni generali dell’economia e della finanza pubblica per evitare incrementi incontrollati del debito pubblico e nuovi aumenti inflazionistici. Le politiche di rigore avviate in particolare dopo il 2011 hanno, tuttavia, gelato ogni prospettiva di aumento dei prezzi che hanno cominciato a scendere in maniera ancora più rapida e netta di quanto ogni anno è stato programmato.
Così, è molto probabile che i pensionati italiani debbano restituire, da febbraio, allo Stato lo 0,1% dell’importo ricevuto nel 2015 proprio per effetto della differenza tra l’inflazione programmata e quella effettiva su cui è stato calcolato l’adeguamento al costo della vita delle pensioni. Appare evidente che una simile prospettiva mal si concilia con una fase di povertà crescente, e -al di là delle misure contingenti per scongiurare il rischio di questa restituzione- risulta necessario ripensare anche i meccanismi di indicizzazione, concepiti in un periodo in cui la grande paura nasceva dall’inflazione, oggi assai debole e sostituita da un forse più pericoloso raffreddamento dei prezzi.
Per avviare una strategia che superi l’anomalo binomio di povertà e deflazione è quindi sempre più indispensabile varare subito misure di sostegno al reddito che raggiungano un fetta non trascurabile di popolazione e che abbiano una copertura finanziaria più ampia del miliardo previsto per il reddito d’inclusione dall’ultima legge di bilancio.
Nel corso degli ultimi anni si sono manifestati insieme due fenomeni che spesso, nella storia, si sono presentati disgiunti o meglio ancora in alternativa l’uno all’altro. Il combinato anomalo è quello di deflazione e significativo aumento della povertà: anomala perché, in genere, la discesa dei prezzi si è accompagnata ad una fase di sviluppo economico. Ora invece la povertà cresce in maniera vistosa mentre i prezzi scendono assai rapidamente.
Nel 2006, prima della crisi internazionale, le famiglie italiane in condizioni di povertà assoluta erano 789 mila, il 3,5% del totale del totale. Nel 2015 il numero delle famiglie in tali condizioni è quasi raddoppiato, arrivando a 1.582.000, pari al 6,1% del totale. Nello stesso arco di tempo è stato ancora più deciso l’incremento degli individui in condizioni di povertà assoluta, che sono passati da 1.660.000, poco meno del 3% del totale, a 4.598.000, pari al 7,6%.
Se poi dall’analisi della povertà assoluta, che comprende chi non è in grado di acquistare un paniere di beni e servizi necessari a raggiungere uno standard di vita minimo accettabile nel contesto di appartenenza, secondo la definizione Istat, si sposta la lente di osservazione sulla povertà relativa, propria di una famiglia di due persone con un consumo inferiore a quello medio pro-capite, allora il totale degli individui in queste condizioni arriva a 8,3 milioni, contro i 6 milioni del 2006.
A fronte di simili dati, nel 2016 i prezzi al consumo hanno fatto registrare un calo dello 0,1%, come media d’anno, una situazione che non si ripeteva dal 1959, quando in una fase, ben diversa, di boom economico, i prezzi scesero dello 0,4%. Si tratta di un fenomeno, peraltro, limitato al nostro Paese perché nel resto della zona euro, nel 2016, l’inflazione ha toccato il +1,1% su base annua.
Questa anomala combinazione italiana di povertà e deflazione tende a mettere in crisi un modello di politica economica che ha retto a lungo nel tempo.
Durante gli anni Settanta, infatti, la difesa del potere d’acquisto dei lavoratori e il miglioramento dello loro condizioni di vita erano passati attraverso il meccanismo della cosiddetta “scala mobile” che legava, in maniera automatica, le retribuzioni all’inflazione reale, per cui le prime salivano al crescere della seconda. Tale agganciamento, soprattutto dopo il varo nel 1975 del punto unico di contingenza, significò un gigantesco balzo in avanti del monte salariale. Da un lato questo ha determinato un importante avanzamento del reddito di gran parte della popolazione italiana, ma dall’altro accelerò ulteriormente il processo inflazionistico e tolse competitività al sistema economico nazionale.
Con lo scoppio della crisi della finanza pubblica e con l’avvento dei vincoli europei, all’inizio degli anni Novanta, si ritenne indispensabile rompere quel meccanismo di adeguamento automatico e i salari non furono più agganciati all’inflazione reale ma a quella programmata, definita, appunto, anno per anno su base programmatica. In questo modo, i salari cessavano di essere una “variabile indipendente” e venivano messi in relazione alle condizioni generali dell’economia e della finanza pubblica per evitare incrementi incontrollati del debito pubblico e nuovi aumenti inflazionistici. Le politiche di rigore avviate in particolare dopo il 2011 hanno, tuttavia, gelato ogni prospettiva di aumento dei prezzi che hanno cominciato a scendere in maniera ancora più rapida e netta di quanto ogni anno è stato programmato.
Così, è molto probabile che i pensionati italiani debbano restituire, da febbraio, allo Stato lo 0,1% dell’importo ricevuto nel 2015 proprio per effetto della differenza tra l’inflazione programmata e quella effettiva su cui è stato calcolato l’adeguamento al costo della vita delle pensioni. Appare evidente che una simile prospettiva mal si concilia con una fase di povertà crescente, e -al di là delle misure contingenti per scongiurare il rischio di questa restituzione- risulta necessario ripensare anche i meccanismi di indicizzazione, concepiti in un periodo in cui la grande paura nasceva dall’inflazione, oggi assai debole e sostituita da un forse più pericoloso raffreddamento dei prezzi.
Per avviare una strategia che superi l’anomalo binomio di povertà e deflazione è quindi sempre più indispensabile varare subito misure di sostegno al reddito che raggiungano un fetta non trascurabile di popolazione e che abbiano una copertura finanziaria più ampia del miliardo previsto per il reddito d’inclusione dall’ultima legge di bilancio.
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