martedì 31 gennaio 2017

Una banca pubblica per rilanciare il paese

Ondate di carta e debito si abbattono ormai incessantemente sulle economie europee provocando un'implosione controllata del welfare e delle strutture economiche e produttive dei Paesi. Questo processo è stato definito "finanziarizzazione dell'economia". Di cosa si tratta esattamente, e cosa possiamo fare da subito per invertire la rotta?
Ci sono almeno tre grandi tecniche di finanziarizzazione in atto: i) la trasformazione in carta di attività reali (cartolarizzazione); ii) la creazione di scommesse sul valore di altri strumenti finanziari (derivati); iii) la pervasività del debito ad ogni livello principalmente guidato dai presunti programmi di quantitative-easing della BCE (debito pubblico, delle famiglie, delle imprese).
Per capire la rilevanza del tema, vediamo alcuni dati di trend dal 2000 al 2015 (fonte BIS).
Il debito pubblico mondiale è passato dal 41% al 86% del PIL del mondo;
Il valore nominale dei derivati non-regolamentati (OTC) è passato da 2,3 a 6,8 volte il PIL mondo;
Il debito lordo (Stati, famiglie e imprese) è passato da 1 a 2,56 volte il PIL del mondo.
Ciò dimostra chiaramente che l'Euro è stato un acceleratore del processo di finanziarizzazione e di indebitamento dell'economia, ma conferma anche che il problema sussisteva già prima dell'introduzione dell'Euro. Dunque, è un problema che ha radici lontane e l'Euro ne ha costituito la fase di completamento. In tal senso, possiamo pensare all'Euro come ad un "acceleratore di particelle.di debito", una sorta di "fibra ottica" che ha consentito al debito di circolare più rapidamente.
Peraltro, ricordiamo che L'Euro come pseudo-moneta agisce all'interno di un'impalcatura che include il Fiscal Compact, che porta con sé la menzogna dell'austerità, la BCE con le false politiche di quantitative-easing che sono semplici trasferimenti di tesoreria alle banche, il MES come organo di governance mascherato da fondo salva-Stati e tutta una serie di altre istituzioni e regolamenti che nel complesso costituiscono il grande disegno di indebitamento e asservimento dei popoli dell'Eurozona. Quindi, parlando di Euro va sempre ricordato che il problema è più vasto e profondo e richiede il ripensamento di un intero modello di asservimento che sta falcidiandoci.
Questo sistema è disegnato per alimentare la sfera finanziaria, che ha bisogno di crescere secondo fattori esponenziali, non compatibili con la creazione di ricchezza da parte dell'economia reale, per questo ha bisogno di appropriarsi direttamente dei beni, sia pubblici che privati. È una grande idrovora che aspira ricchezza dalla sfera reale e produttiva a vantaggio di quella finanziaria e speculativa.
Quali sono le conseguenze di queste azioni incessanti messe in atto dal settore finanziario? Alcune di esse sono sotto ai nostri occhi. Reati finanziari quali la manipolazione di mercato (rating), truffe sulla vendita dei titoli derivati, appropriazione indebita di interessi passivi, aggiotaggio di borsa; agevolazione dei processi di privatizzazione e svendita in combinazione con tecniche di cartolarizzazione dei beni; maggiore diffusione del debito a tutti i livelli.
In questo contesto, l'attuazione della Costituzione incontra ostacoli insormontabili. Vediamone i principali. Per quanto attiene agli Art. 35-36 (lavoro e diritti), ricordiamo che la finanziarizzazione dell'economia ha bisogno di deflazione e disoccupazione strutturale, come è stato anche ammesso da noti esponenti del PD negli ultimi tempi (vedi dichiarazioni dell'On. D'Attorre). Non basta. La finanziarizzazione ha anche comportato l'assorbimento del lavoro all'interno della legge utilitaristica della domanda e dell'offerta, nota dottrina neo-liberista secondo la quale il livello dei salari manterrebbe in equilibrio il mercato.Ecco dunque lo scadimento di qualsiasi forma di tutela, di diritti e di operosità sociale del lavoro (aiutato anche dal selvaggio flusso immigratorio.).
Ancora, l'Art. 38 che tratta di assistenza sociale trova certamente nel Fiscal Compact uno degli ostacoli alla propria attuazione; l'Art. 41, dove si dice che "La legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l'attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali", incontra l'ostacolo fondamentale della perdita di governo dell'economia da parte degli esecutivi nazionali dovuti alla cessione di sovranità; l'Art. 42 che tutela la proprietà pubblica si scontra con l'esigenza ricordata che ha la sfera finanziaria di provocare processi di privatizzazione e svendita.
Ma è soprattutto l'Art. 47 della Costituzione ad essere ostacolato più di qualsiasi altro. Laddove si dice che "La Repubblica incoraggia e tutela il risparmio in tutte le sue forme; disciplina, coordina e controlla l'esercizio del credito". Ciò è l'esatto opposto di quanto accade ormai da decenni.
Il credito è moneta, dato che oltre il 90% della massa monetaria in circolazione (secondo dati BCE) è rappresentata dai depositi fittizi creati dalle banche commerciali all'atto della concessione di crediti alla clientela (circa 9 trilioni di euro sul totale di 10 trilioni di aggregato monetario M2 al 2015). Ora, la gestione della moneta e quindi del credito è stata appaltata ad un sistema di banche private, di entità finanziarie assimilabili alle nostre società per azioni, che perseguono finalità di profitto privato senza alcuna logica o considerazione di obiettivi sociali o pubblici. Ciò è tanto vero che la stessa BCE non ha nei propri obiettivi quello della crescita dell'economia reale, bensì quello del contenimento dell'inflazione, che misura il potere d'acquisto della moneta da essi creata.
C'è a ben vedere una radice comune a tutto ciò che si chiama debito. Infatti, il rating e le relative manipolazioni che stiamo conoscendo meglio in questi giorni grazie alla Procura di Trani riguardano il debito pubblico; la clausola del "bail in" riguarda il debito delle banche; i derivati sono stati venduti alla pubblica amministrazione come parte di operazioni di indebitamento; l'appropriazione indebita degli interessi passivi riguarda il debito pubblico; ed i principali casi di aggiotaggio hanno riguardato operazione di leva finanziaria cioè di debito.
Le soluzioni urgenti per ridare ossigeno all'economia e guadagnare tempo per rivedere i Trattati e attuare riforme strutturali sono due:
1) Una banca pubblica per la raccolta fondi presso la BCE, consentita esplicitamente dal comma 2 dall'art 123 del Trattato sul funzionamento dell'Unione Europea, per l'attuazione di un vasto programma di erogazione di finanziamenti alla piccola e media impresa. Ciò consentirebbe di porre un argine alle manovre speculative contro il nostro Paese (quali ad esempio l'uso strumentale dello spread) e ricostruire una politica di intervento pubblico in quei settori strategici irrinunciabili quali acqua, energia, difesa, telecomunicazioni che sono tuttora in parte di proprietà statale in numerosi Paesi dell'Eurozona inclusi Francia e Germania.
Nelle condizioni attuali, ciò può essere attuato sia impiegando opportunamente MPS, dato il sacrificio che tutti faremo per salvarla, sia trasformando in banca una sezione della Cassa Depositi e Prestiti, sul modello della KfW tedesca.
2) La separazione tra banche commerciali e banche d'affari, dove nel primo caso si stabilisca una protezione incondizionata del risparmio. Ciò consentirebbe anche un corretto espletarsi di politiche di finanziamento alle imprese, che contribuirebbero a ridare ossigeno alla parte produttiva del Paese.
Infine, è forse superfluo ribadire che il problema è complesso ed include numerose altre variabili quali il debito complessivo Italia detenuto da soggetti non residenti (che oggi ammonta ad oltre 1.000 miliardi di euro), una nuova legge bancaria che ricollochi gli istituti di credito a servizio dell'economia reale, la revisione dei Trattati Europei, e diverse altre misure di politica interna ed internazionale. Tutto insieme non si può fare.
È dunque inevitabile pensare ad un processo almeno a due fasi dove nella prima si intervenga sulle emergenze a breve, cioè gli interventi che si possono operare all'interno dei Trattati vigenti, e nella seconda si modifichino le condizioni strutturali e dunque si ponga mano ai Trattati Europei.

lunedì 30 gennaio 2017

Rapporto Eurispes, famiglie sempre più povere e i giovani tornano dai genitori

Nel Rapporto Italia 2017 l'Eurispes svela a livello pubblico la realtà che solo la classe politica non conosce non essendo abituata a vivere se non tra hotel di lusso, voli privati e ristoranti dai prezzi inaccessibili. O forse è più corretto dire che fa finta di non conoscerla, visto che risultati statistici del genere continuano solo ad evidenziare una polarizzazione della ricchezza che la politica stessa alimenta quotidianamente. Comunque, il rapporto statistico è abbastanza eterogeneo in quanto a domanda, facendo emergere qualche dato interessante.
"Il 48,3% non riesce ad arrivare alla fine del mese", con un incremento "di circa un punto percentuale rispetto all'anno scorso, dove si registrava un 47,2%, per questo motivo il 28,7% delle famiglie è costretta a tentare di contrarre un mutuo. Le ragioni principali per si è costretti ad indebitarsi in Italia sono: l'acquisto della prima casa (46,8%), ripagare altri debiti accumulati, specie con altre banche o finanziarie (17,9%), e la necessità di pagare cure mediche (10,9%). Quindi, mentre le famiglie vanno impoverendosi, le banche lucrano dall'erosione del welfare o da mutui precedenti.
Tra le problematiche economiche principali delle famiglie italiane emerge la difficoltà a pagare il mutuo della casa, problema nel 28,5% dei casi, e la difficoltà a pagare il canone di affitto, per il 42,1% degli affittuari. Quindi, la lotta per la casa sembra essere ancora di primaria importanza.
Le misure di austerità, l'assenza o riduzione del reddito insieme alle riforme del governo Renzi/Gentiloni contribuiscono all'impoverimento sociale, abbassando il livello della qualità della vita. Infatti il 38,1% rinuncia alle spese mediche, il 70,9% non riesce più a permettersi un pasto fuori casa.
Il dato nuovo riguarda il problema casa vissuto dai giovani: pagare l'affitto o il mutuo pesa e allora per andare avanti c'è chi deve tornare indietro, sotto un unico tetto con genitori o suoceri. Questo avviene per il 13,8% dei giovani che avevano provato a vivere fuori casa, senza quindi calcolare i moltissimi che il tentativo non lo prendono nemmeno in considerazione data la precarietà dei lavori a cui sono relegati.

venerdì 27 gennaio 2017

Terremoto e inefficienze, ricostruiamo il paese a partire dai buoni esempi

In questi momenti di disagio e sofferenza determinati da eventi catastrofici ma anche da crisi economica e culturale, determinate persone assurgono a simbolo di quello che è nel bene e nel male, il nostro Paese. Soffermarsi a riflettere su questi esempi può essere utile per identificare la via da percorrere se vogliamo risanare, salvare e rilanciare l’Italia (non vuote chiacchiere renziane ma fatti concreti e scelte inevitabili nella giusta direzione).
Cominciamo dagli elementi negativi. Uno dei fattori principali di stress e sofferenza di questi giorni è costituito, a detta delle autorità locali e dei cittadini che hanno la sfortuna di risiedere nelle zone colpite da terremoto e maltempo, è costituito dal funzionamento di un ente fondamentale come Enel che si è rivelato incapace di fornire l’essenziale servizio di fornitura dell’energia elettrica a un numero enorme di famiglie.
Si scopre quindi che la rete elettrica è obsoleta e che elementari operazioni di manutenzione non sono state adeguatamente condotte. Al punto che sono in molti gli amministratori locali e regionali che chiedono oggi esplicitamente la cacciata dell’amministratore delegato Starace mentre si annunciano le prime inchieste penali e sostanziose richieste di risarcimento dei danni. Si tratta d’altronde dello stesso personaggio passato qualche mese fa alla cronaca per aver teorizzato la necessità di terrorizzare gli oppositori interni per affermare il proprio potere. Un programma ben eseguito, sembrerebbe.
Ironia a parte, è chiaro che questo modello di concepire le relazioni aziendali e quelle con il pubblico, basato non sul soddisfacimento dell’interesse generale ma sull’alimentazione del proprio personale potere, è in buona misura alla base di molti fallimenti dell’Italia di oggi. E’ a ben vedere la stessa logica delle privatizzazioni selvagge con le quali si è distrutto un patrimonio pubblico accumulato nel corso di decenni a costo di molti sacrifici. Si tratta quindi di un modello da rovesciare immediatamente. Non solo Starace, del resto, ne è il rappresentante, se è vero che tutti i manager insediati da Renzi sono oggi sotto accusa per una ragione o per l’altra, tutte riconducibili peraltro in ultima istanza a tale modello perversamente autoreferenziale di direzione aziendale.
Un esempio positivo è invece costituito da tutti coloro che, operando in condizioni di estrema difficoltà, sono riusciti a portare aiuto alle popolazioni colpite. In primo luogo l’eroico corpo dei vigili del fuoco e poi anche le forze dell’ordine nel loro complesso e la moltitudine dei volontari, tra i quali voglio sottolineare il ruolo di taluni richiedenti asilo che si sono mobilitati anch’essi con efficacia. Si tratta di categorie bistrattate ed umiliate da tutti i governi. Basti ricordare, per quanto riguarda i vigili del fuoco, la vicenda delle pensioni, con il mancato riconoscimento del carattere usurante delle mansioni svolte, o quella dei rischi ambientali, in particolare dovuti ad esposizione ad amianto, non adeguatamente contrastati.
L’attuale agonizzante governo Gentiloni, nato sulle macerie del renzismo che sarebbe ora di sgombrare definitivamente dalla scena, continua ovviamente a caratterizzarsi per assecondare gli aspetti negativi e frustrare quelli positivi della situazione che stiamo attualmente vivendo. Non è un caso che in Italia oggi prosperino le inaccettabili diseguaglianze sia nel reddito che nel patrimonio. Non c’era del resto da aspettarsi nulla di diverso da un governo che è nato facendo orecchie da mercante rispetto alla richiesta di radicali cambiamenti che è venuta dalla valanga di No al referendum del 4 dicembre. Rovesciare le politiche in questione appare invece sempre di più un imperativo urgente e su ciò devono riflettere ed attrezzarsi le forze dell’alternativa.
Per salvare e rilanciare l’Italia occorre rilanciare il concetto dell’interesse pubblico umiliato e sotterrato dalla nostra sciagurata classe dirigente, si chiami essa Pd o Forza Italia. Sollecitando e gratificando le enormi energie sociali e politiche di lavoratori, giovani e donne oggi disperse e sprecate, cominciando con il referendum contro il Jobs Act e attuando politiche redistributive ed egualitarie. Non c’è bisogno di “uomini forti”. Chi li invoca dovrebbe ricordarsi della storia del nostro Paese.

giovedì 26 gennaio 2017

Trump affossa il Tpp e la globalizzazione

I primi tre atti firmati nello studio ovale vanno a coprire un arco vasto di temi su cui ha raccolto consensi. Due mosse sono molto tradizionali, per un repubblicano, anche se importanti. Ha infatti reintrodotto il "Mexico City abortion rules", ossia il divieto di finanziare son soldi pubblici federali le Ong che praticano l'aborto. Non è una novità, comunque. Si tratta di una legge fatta dai repubblicani oltre 30 anni fa, cancellata da ogni presidente democratico e reintrodotta da ogni repubblicano. Una bandiera, insomma, da sventolare in faccia agli elettori, ma dai limitati effetti pratici.
Assolutamente in linea con la tradizione del Gop anche lo stop alle assunzioni nel pubblico impiego, eccezion fatta per i corpi militari.
Fin qui, a dirla tutta, nessun elemento davvero “innovativo”. L'unica decisione che esorbita – entro certi limiti – dalla normalità è la terza. Ha infatti firmato il decreto operativo che sancisce il ritiro degli Stati Uniti dal Tpp. Ossia dal Trans Pacific Partnership, un accordo di libero scambio con 11 paesi del Pacifico che erano costati due anni di sforzi diplomatici (condotti pressoché in contemporanea con il più noto Ttip, con i paesi dell'Atlantico, affossato dall'asse franco-tedesco). Poco prima dell'insediamento del neopresidente, il Giappone lo aveva ratificato, sperando in tal modo di “pesare” sulla decisione del tycoon. Niente da fare. In campagna elettorale, ogni giorno e più volte al giorno,Trump lo lo aveva giudicato "pericoloso per l'industria americana". Quindi non era pensabile che potesse tornare indietro senza pagare da subito un prezzo molto alto nel suo blocco sociale.
Sul piano pratico, in ogni caso, non è una mossa che gli sia costata fatica. Il Tpp non era stato ancora approvato dal Congresso, dunque non cambia nulla negli scambi economici in atto. Certo, getta un'ombra consistente sulle dinamiche di “libero mercato” per gli anni a venire.
Solo i media più legati al vecchio carrozzone, o alla vecchia “narrazione”, inquadrano questo ritiro dal Tpp con il risorgere dell'antico “isolazionismo” dei repubblicani. E' una vecchia volpe dell'establishment Usa come Ian Bremmer a spiegare – in un'intervista al Corriere della sera – «Non è isolazionismo: Trump continuerà a tessere rapporti, ma lo farà sul piano bilaterale. Lo considera più conveniente in termini di forza negoziale, ma in questo modo non solo getta nel caos l’attuale sistema di scambi commerciali, ma rende precari i rapporti politici degli Stati Uniti con molti Paesi in Asia e in America Latina».
Non è insomma meno “imperialista” dei predecessori che hanno cercato di governare la globalizzazione dell'economia; è semplicemente l'espressione dell'impossibilità di governarla “con benefici per tutti”, e quindi ne decreta la fine contando sulla forza preponderate degli Usa nei rapporti “bilaterali”. Insomma, invece di faticare a costruire il consenso generale tra interessi nazionali o continentali divergenti (c'è “concorrenza e competizione”, in ambito capitalistico), Trump dà voce a quella parte dell'economia Usa che ritiene di poter “competere” meglio se non ci sono regole uguali per tutti, ma tante regole commerciali quanti sono i partner (tutti più deboli, presi singolarmente).
E' la fine del sistema costruito proprio dagli Usa nel corso degli ultimi 70 anni e “sbocciato in tutte le sue potenzialità” con la caduta del Muro, dell'Urss e del “socialismo reale”. I sintomi della crisi erano stati registrati da tutti i sismografi economici fin dal 2007, la domanda era soltanto: dove inizierà a smagliarsi quel tessuto? La old economy statunitense ha selezionato Trump per giocare d'anticipo rispetto ad altri attori, ma per riuscirci ha dovuto segare il rampo su cui l'egemonia degli States era assisa dalla fine della Seconda guerra mondiale.
«Gli organismi multinazionali che ha citato, e aggiungerei anche l’Onu, hanno di certo preso un colpo durissimo con la nuova politica di Trump. Sono organismi nati dalla “pax americana” del Dopoguerra, riflettono una visione dei rapporti internazionali che era soprattutto quella di Washington. Se l’America inverte la rotta, crolla tutto. Come sa, io parlo da anni di un mondo “G-Zero”, privo di una guida. Ecco, quel mondo adesso è qui. E da venerdì è finita anche l’era della “pax americana”».
Del resto, se si legge attentamente lo stesso Bremmer, reduce dall'appuntamento di Davos, il cosiddetto Gotha mondiale che aveva fin qui gestito un lungo periodo di globalizzazione – un modello economico complesso e strutturato, che ha determinato le attuali disparità infernali di ricchezza sul pianeta (8 persone detengono la stessa ricchezza di altri 3,5 miliardi) – non ha più soluzioni per far fronte allo sgretolarsi dell'architettura che aveva messo in piedi.
«Purtroppo è così: le classi dirigenti faticano a capire che il populismo non è, o non è solo, una minaccia, ma è soprattutto il sintomo di un malessere che va affrontato agendo sulle cause. Non ho visto gente disposta a rimettere in discussione in modo radicale le distorsioni del modello di sviluppo degli ultimi anni».
Bremmer non è certamente un marxista, ma ha colto quella che nel nostro linguaggio è una contraddizione insanabile. La vecchia nave-mondo va incontro alla fine, ma coloro che stanno ancora al timone non hanno alcuna intenzione di mollarlo pur non avendo più idea di come tracciare una nuova rotta.
Ma se questa è, crudamente, la situazione, credete davvero che il problema sia stare a fare il tifo per Trump o per i "globalizzatori politically correct" che non sanno più che fare?
Eppure proprio questa realtà suggerirebbe di sperimentare al più presto qualche idea indipendente rispetto a due strade egualmente dirette verso l'esplosione…

mercoledì 25 gennaio 2017

PAESE PUÒ LASCIARE L’EUROZONA, MA DEVE PRIMA “PAGARE IL CONTO”

Meno di 4 anni fa, e poco dopo la famigerata minaccia agli speculatori del “whatever it takes“, Mario Draghi rispondeva a una domanda dei lettori di Zero Hedge, affermando che “non esiste un piano B” per quel che riguardava i piani di emergenza nel caso una nazione della zona euro uscisse dall’unione monetaria. Il ragionamento era semplice: concepire un tale scenario significava ammettere la possibilità che si verificasse, ed è per questo che la BCE voleva disperatamente dare l’impressione che la coesione dell’Europa fosse indistruttibile, a qualsiasi costo.
Facciamo un veloce passo avanti a quattro anni dopo, quando non solo questa particolare strategia è stata completamente rigettata, ma per la prima volta il Governatore della BCE ha fornito un quadro, per quanto vago, che mostra cosa potrebbe accadere in caso di Exit.
In una lettera a due deputati italiani al Parlamento europeo pubblicata venerdì, e riportata per la prima volta da Reuters, Mario Draghi ha ammesso che un paese potrebbe uscire dalla zona euro – e questo è quanto per il suo “non esiste un Piano B” – ma prima di chiudere dovrebbe saldare i debiti col sistema di pagamenti Target2 dell’eurozona.
“Se un paese dovesse lasciare l’Eurosistema, i crediti o le passività della sua banca centrale nazionale verso la BCE dovrebbero essere risolti in toto“, ha detto Draghi nella lettera, senza specificare in quale valuta dovrebbe aver luogo la “liquidazione”. Non è chiaro nemmeno quale sarebbe la reazione della BCE se un paese non “regolasse integralmente i suoi conti”: in definitiva, la BCE non dispone di un esercito che garantisca il rispetto delle sue politiche.
Come conferma Reuters, il commento di Draghi costituisce “un vago riferimento da parte del Governatore della BCE alla possibilità che l’eurozona perda dei membri“. Noi diremmo non solo un “riferimento”, ma l’ammissione che un’Italexit è fin troppo possibile, e che tuttavia l’unico modo in cui la BCE lo permetterebbe sarebbe quello di far prima pagare all’Italia il suo conto Target2 di 357 miliardi di euro (sul quale diversi sprovveduti professori di economia hanno sostenuto negli ultimi 5 anni che non sarebbe mai stato utilizzato dalla BCE come merce di scambio nei negoziati sull'”exit” e che non ha implicazioni politiche; oops).
A dire il vero, il beneficiario di questo pagamento sarebbe il paese che fa più affidamento sul persistere dello status quo: la Germania, che ha qualcosa come 754 miliardi di euro di “attività” nel sistema Target2, che potrebbero essere azzerate se uno o più paesi della zona euro dovessero uscire senza soddisfare i propri obblighi di pagamento.
Nella lettera, Draghi ha ribadito che gli squilibri sono dovuti al ​​programma di acquisto titoli della BCE, nel quale molti dei venditori sono investitori stranieri con conti in Germania, e al conseguente riequilibrio dei portafogli.
L’ammissione di Draghi che il “QuItaly” – o UscIta come è chiamata all’interno del paese – è una possibilità fin troppo reale, coincide con un’ondata di sentimenti anti-euro in Italia e in altri stati dell’eurozona, alimentati in parte dalla decisione senza precedenti della Gran Bretagna nel giugno scorso di lasciare l’Unione europea.
La minaccia di default sui debiti transfrontalieri è stata spesso ritenuta un elemento di coesione della zona euro durante la crisi finanziaria. Poiché questi pagamenti generalmente non sono saldati, le economie più deboli, tra cui l’Italia, la Spagna e la Grecia, hanno accumulato enormi debiti verso Target2, mentre la Germania si distingue come il più grande creditore, con crediti netti per 754,1 miliardi di euro.
Gli squilibri Target2 sono peggiorati negli ultimi mesi, quando l’economista di Harvard Carmen Reinhart ha lanciato l’allarme su una fuga di capitali dall’Italia. Lo si può vedere nel grafico sottostante, il quale conferma come sotto la calma apparente dei bassi rendimenti dei titoli italiani – anche se recentemente risultano in crescita – si stanno accumulando enormi squilibri di capitali.
Crediti e debiti nel sistema Target2 – in verde la Germania e in rosso l’Italia – dal 2003 al 2016
L’ammissione di Draghi, da intendere quasi come una minaccia all’Italia, potrebbe aver aperto un nuovo vaso di Pandora per la stabilità europea, in aggiunta alle preoccupazioni per Trump, perché non solo Draghi ha confermato che l’uscita dalla zona euro è stata esplicitamente prevista dalla banca centrale, ma definisce anche le condizioni alle quali sarebbe presa in considerazione e consentita.
Ancora più importante, ancora una volta fornisce la base per una “negoziazione” aggressiva, che potenzialmente può degenerare in una escalation di rancorose trattative tra l’Italia e la Germania, poiché la BCE ha messo di colpo in chiaro che il guadagno dell’Italia in una “ipotetica” uscita dalla zona euro costituirebbe una tremenda perdita per Berlino e per la Merkel. Siamo sicuri che in tempo brevissimo emergerà anche la questione di “quanto” valga la pena per la Merkel prevenire tale perdita. Quanto al significato della dichiarazione di Draghi per i paesi con un debito Target2 molto inferiore, che potrebbero anche prendere in considerazione l’uscita dall’unione monetaria, la risposta è racchiusa in due parole: “via libera”.


martedì 24 gennaio 2017

L’epoca delle folle analfabete

Più di sette persone su dieci leggeranno questo articolo senza intenderlo.
Distingueranno le lettere e le parole, certo, approssimativamente coglieranno la sintassi e fors’anche l’analisi logica, ma senza intenderne il senso portante, senza saperne memorizzare il succo e senza essere in grado di riportare i passaggi fondamentali.
Se a questo aggiungiamo la patologia per antonomasia dei «nativi digitali», ossia l’incapacità a mantenere desta l’attenzione (e quindi accesi i filtri cognitivi) su testi che superino le dieci righe, quantomeno senza l’interruzione di un video, una foto, o magari una notifica da qualche chat o social network, direi che abbiamo chiara davanti agli occhi la patologia che affligge l’uomo della nostra epoca.
Senza contare il numero elevatissimo di coloro che neppure si sognano di voler leggere un libro o un articolo.
Mutazione antropologica
E’ l’Istat, per quanto concerne l’Italia, a fornirci il dato secondo cui il 70% degli italiani soffre di «analfabetismo funzionale», ma sarebbe fallace pensare che per gli altri paesi industrializzati le cose stiano tanto diversamente.
Rimuovere questa vera e propria «mutazione antropologica», per prendere a presto la nota espressione di Pasolini, ignorando quello che di fatto si presenta come passaggio dall’«homo sapiens» all’«homo videns» (dall’uomo che intende la realtà a uno che si limita a guardarla attraverso il filtro di uno schermo piatto), significa precludersi la possibilità di comprendere appieno la dinamica del tempo presente.
A tutto questo aggiungiamo pure che da una cittadinanza esposta all’analfabetismo funzionale, nonché alla mutazione cognitiva, comportamentale ed emotiva prodotta dalle nuove tecnologie digitali, nessuno di noi è in grado di chiamarsi fuori del tutto. Neanche quei tre che non rientrano fra gli analfabeti funzionali.
Nessuno o quasi di noi, soprattutto, alle condizioni suddette è in grado di attingere a strumenti (leggi: informazioni, vere e proprie armi di distrazione della massa) utili alla formazione di una vera conoscenza, con cui difendersi dalle due grandi mistificazioni della nostra epoca: da una parte il capitalismo finanziario, che si serve perlopiù delle notizie pilotate dal mainstream mediatico per far digerire i propri dogmi a un pubblico indifferente e passivo; dall’altra parte il cosiddetto populismo, che utilizza la Rete per diffondere quelle che spesso si rivelano pseudo-notizie, iperboliche ed emotivamente orientate, presso un pubblico mediamente afflitto da un attivismo direttamente proporzionale alla sua ignoranza.
Lo specchio fedele del nostro tempo
Del resto, nell’epoca dell’informazione proprio quest’ultima si rivela lo specchio più fedele per comprendere il tempo presente.
Tempo (e informazione) che oscilla fra due macrodimensioni: la prima è quella delle «bufale» e della nevrosi emotiva della Rete, terreno su cui ogni politico improvvisato e dai toni violenti, e in genere ogni intellettuale e opinionista (o pseudo-tale) in cerca di una visibilità tanto «popolare» quanto sterile, è in grado di ottenere consensi facili a fronte del nulla ideale e programmatico.
La seconda è quella delle notizie pilotate e patinate proprie delle grandi televisioni e giornali, all’interno della quale tutto rientra e deve tenersi per un pubblico mediamente lobotomizzato e inerte, passivamente appiattito su un ordine esistente (quello del capitalismo finanziario) ritenuto insostituibile, immodificabile e perfino intoccabile.
Tale situazione, insieme all’analfabetismo funzionale nonché al tracollo programmato delle istituzioni deputate all’educazione e alla conoscenza (Scuola e Università in primis), ci fornisce la misura del quadro lugubre da cui difficilmente potremo uscire.
L’attacco sferrato dal sistema tecno-finanziario all’ultimo e più radicale bastione in difesa dell’umano (il pensiero e la conoscenza), attacco peraltro riuscito visti i dati summenzionati, rende impossibile qualunque visione e progetto alternativi fin dall’origine.
L’ultimo bastione dell’umano
Anche in presenza di grandi idee, grandi visioni e progetti rivoluzionari concreti (che peraltro non si scorgono all’orizzonte), infatti, finalizzati a modificare un mondo il cui la tecno-finanza sfrutta l’essere umano a suon di disuguaglianza e tutela dei pochi poteri forti e privilegiati, la stragrande maggioranza delle persone non avrebbe la capacità, la voglia e gli strumenti per intenderli ed eventualmente farli propri.
Qualunque azione rivoluzionaria, insegnava il buon Marx, passa per il momento fondamentale della «consapevolizzazione» (della propria condizione, delle contraddizioni oggettive e degli strumenti organizzativi volti a costruire un superamento): ma nessuna consapevolizzazione da parte delle grandi masse è mai neppure pensabile se queste sono afflitte da analfabetismo cognitivo, funzionale e comportamentale, se sette persone su dieci (quindi anche molti politici, giornalisti, anche molti intellettuali e docenti, vista la scarsa selezione fondata su tutto tranne che sul merito e sulle capacità) vedono ma non intendono.
Nessuna consapevolizzazione è pensabile per una grande massa che oscilla fra una cultura politica genuflessa al capitalismo finanziario dominante (malgrado tutti i disastri che essa sta producendo da almeno un trentennio), e un comprensibile «populismo» legittimato dai disastri della casta, che per di più contempla dentro alle sue fila razzisti, xenofobi, demagoghi, dilettanti e incompetenti dell’ultima ora, tutti accomunati dalla rabbia popolare da cavalcare e da una Rete che ormai ha legittimato qualunque «sfogatoio», possibilmente sguaiato e violento.
Circondati
Da questo punto di vista, solo da questo (ma è essenziale) non c’è alcuna differenza tra Obama e Trump (malgrado la retorica del politicamente corretto), così come rischia di non esserci fra Grillo, Salvini e colui che spunterà dalle beghe del centrosinistra come del centrodestra per provare a contenere la marea «populista».
A quei relativamente pochi, ancora in possesso di occhi per vedere e cervello per intendere, insomma, non rimane che la sgradevole e sconsolante sensazione di essere circondati.
Da una casta ripiegata su se stessa e sui suoi privilegi da una parte, e da incompetenti iracondi e privi di progetti seri dall’altra.
Così circondati, anche quei pochi resistenti sono destinati a una repentina e inesorabile estinzione.
I risultati rischiano di essere sconvolgenti e imprevedibili.

lunedì 23 gennaio 2017

Le confessioni del criminale John Kerry

La guerra contro la Siria è il primo conflitto dell'epoca informatica a durare oltre sei anni. Numerosissimi documenti che sarebbero dovuti rimanere a lungo segreti sono già stati pubblicati. Benché siano stati divulgati [in misura diversa, ndt] in Paesi diversi e l'opinione pubblica non abbia così potuto prenderne piena consapevolezza, essi consentono sin da ora una ricostruzione degli avvenimenti. La pubblicazione della registrazione di quanto dichiarato da John Kerry in privato, a settembre scorso, rivela la politica del Dipartimento di Stato americano e costringe tutti gli osservatori, noi compresi, a rivedere le proprie analisi.
La registrazione integrale dell'incontro del segretario di Stato John Kerry con membri della Coalizione nazionale siriana delle forze dell'opposizione e della rivoluzione, avvenuta il 22 settembre nei locali della delegazione olandese alle Nazioni unite, pubblicata da The Last Refuge, rimette in causa la nostra analisi della posizione USA nei confronti della Siria [1].
In primo luogo, avevamo creduto che Washington, dopo aver dato inizio all'operazione chiamata "Primavera araba", finalizzata a rovesciare i regimi laici a beneficio dei Fratelli Mussulmani, avesse lasciato i propri alleati da soli a dare l'avvio alla Seconda guerra contro la Siria, iniziata a luglio 2012. E avevamo creduto che, perseguendo questi alleati obiettivi propri (ricolonizzazione per Francia e Regno Unito; conquista del gas per il Qatar; espansione del wahabismo e vendetta della Guerra civile libanese per l'Arabia saudita; annessione della Siria del nord per la Turchia, secondo il modello cipriota, ecc.), l'obiettivo iniziale fosse stato abbandonato. Invece, nella registrazione si sente John Kerry affermare che Washington non ha mai rinunciato ai tentativi di rovesciamento della Repubblica araba siriana. Ciò significa che gli USA hanno seguito passo per passo l'operato degli alleati. Di fatto, negli ultimi quattro anni gli jihadisti sono stati comandati, armati e coordinati dall'AlliedLandCom (Comando delle forze terrestri) della NATO, basato a Smirne (Turchia).
In secondo luogo, John Kerry riconosce che Washington non poteva esporsi maggiormente per due ragioni: il diritto internazionale e la posizione della Russia. Sia chiaro, gli Stati Uniti non hanno mai avuto scrupoli a violare il diritto internazionale: hanno distrutto le strutture nodali della rete petrolifera e del gas della Siria, con il pretesto di combattere gli jihadisti (ciò che è conforme al diritto internazionale), senza però che il presidente al-Assad glielo avesse chiesto (quindi, in violazione del diritto internazionale).
Non hanno invece osato mandare truppe terrestri per combattere in campo aperto la Repubblica siriana, come viceversa avevano fatto in Corea, in Vietnam e in Iraq. E hanno scelto di mandare in prima linea i loro alleati (secondo la strategia della leadership from behind - leadership occulta) e di sostenere, senza peraltro grande discrezione, i mercenari, come avvenne in Nicaragua, rischiando di venire condannati dalla Corte internazionale di Giustizia (il tribunale dell'ONU).
In realtà, Washington non vuole imbarcarsi in una guerra contro la Russia. E, dal canto suo, la Russia, che non si era opposta alla distruzione della Jugoslavia e della Libia, ora ha rialzato la testa e spinto più in là il limite da non oltrepassare. Mosca è in condizione di difendere il Diritto con la forza, qualora Washington ingaggiasse apertamente una nuova guerra di conquista.

In terzo luogo, quanto detto da John Kerry dimostra che Washington sperava in una vittoria di Daesh sulla Repubblica siriana. Fino a oggi, basandoci sul rapporto del generale Michael Flynn del 12 agosto 2012 e dell'articolo di Robert Wright sul New York Times del 28 settembre 2013, avevamo ritenuto che il Pentagono volesse creare un "Sunnistan" a cavallo tra Siria e Iraq, per tagliare la via della seta.
Nella registrazione Kerry confessa che il piano andava ben oltre. Probabilmente, Daesh avrebbe dovuto prendere Damasco per poi venirne cacciato da Tel Aviv (ossia, ripiegare sul "Sunnistan", appositamente creato). La Siria avrebbe potuto così essere spartita: il sud a Israele, l'est a Daesh, il nord alla Turchia.
Ciò fa capire perché Washington abbia dato l'impressione di non controllare nulla, di "lasciar fare" gli alleati: gli Stati Uniti hanno indotto Francia e Regno Unito a impegnarsi nel conflitto, facendo loro credere che avrebbero potuto ricolonizzare il Levante, [mentre], al contrario, avevano già deciso che sarebbero stati esclusi dalla spartizione della Siria.
In quarto luogo, John Kerry, ammettendo di aver "sostenuto" Daesh, riconosce di averlo armato. La retorica della "guerra contro il terrorismo" si riduce perciò a nulla.
‒ Dall'attentato del 22 febbraio 2006 alla moschea al-Askari di Samarra [Iraq, ndt], sapevamo che Daesh (che inizialmente si chiamava "Emirato islamico dell'Iraq") era stato creato dal direttore nazionale dell'intelligence USA, John Negroponte, e dal colonnello James Steele per stroncare la Resistenza irachena e provocare una guerra civile, sul modello di quanto fatto in Honduras.
‒ Dopo la pubblicazione sul quotidiano del PKK [Partito dei lavoratori del Kurdistan, ndt], Özgür Gündem, del processo verbale della riunione di pianificazione, tenutasi ad Amman il 1° giugno 2014, sapevamo che gli Stati Uniti avevano organizzato un'offensiva congiunta di Daesh su Mosul, e del governo regionale del Kurdistan iracheno su Kirkuk.
In quinto luogo, abbiamo ritenuto che il conflitto tra il clan Allen/Clinton/Feltman/Petraeus da un lato, e l'amministrazione Obama/Kerry dall'altro vertesse sul sostegno o no a Daesh. Non è affatto così. Entrambi i campi non hanno avuto scrupoli a organizzare e sostenere gli jihadisti più fanatici. Il loro disaccordo attiene esclusivamente al ricorso alla guerra aperta - e al rischio di un conflitto con la Russia - o alla scelta di manovrare dietro le quinte. Solo Flynn, attuale consigliere per la sicurezza di Trump - si è opposto allo jihadismo.
Se accadesse che, fra qualche anno, gli Stati Uniti crollassero, com'è accaduto per l'URSS, la registrazione di John Kerry potrebbe essere utilizzata contro di lui e contro Obama davanti a una giurisdizione internazionale - ma non davanti alla Corte penale internazionale dell'ONU, ormai screditata.
Avendo riconosciuto la veridicità degli estratti pubblicati dal New York Times, Kerry non potrebbe contestare l'autenticità del documento sonoro integrale. Il sostegno a Daesh che Kerry esibisce vìola parecchie risoluzioni delle Nazioni Unite e costituisce una prova della responsabilità sua e di Obama nei crimini contro l'umanità commessi dall'organizzazione terrorista

mercoledì 18 gennaio 2017

Italiani analfabeti, 7 su 10 non capiscono quel che leggono

Il 70 per cento degli italiani è analfabeta: legge, guarda, ascolta, ma non capisce. Non è affatto un titolo sparato, per impressionare; anzi, è un titolo riduttivo rispetto alla realtà, che avvicina la cifra autentica all’80 per cento. E questo vuol dire che tra la gente che abbiamo attorno a noi, al caffè, negli uffici, nella metropolitana, nel bar, nel negozio sotto casa, più di 3 di loro su 4 sono analfabeti: sembrano “normali” anch’essi, discutono con noi, fanno il loro lavoro, parlano di politica e di sport, sbrigano le loro faccende senza apparenti difficoltà, non li distinguiamo con alcuna evidenza da quell’unico di loro che non è analfabeta, e però sono “diversi”. Qual è questa loro diversità? Che sono incapaci di ricostruire ciò che hanno appena ascoltato, o letto, o guardato in tv e sul computer. Sono incapaci! La (relativa) complessità della realtà gli sfugge, colgono soltanto barlumi, segni netti ma semplici, lampi di parole e di significati privi tuttavia di organizzazione logica, razionale, riflessiva.
Non sono certamente analfabeti “strumentali”, bene o male sanno leggere anch’essi e – più o meno – sanno tuttora far di conto (comunque c’è un 5 per cento della popolazione italiana che ancora oggi è analfabeta strutturale, “incapace di decifrare Mimmo Cànditoqualsivoglia lettera o cifra”); ma essi sono analfabeti “funzionali”, si trovano cioè in un’area che sta al di sotto del livello minimo di comprensione nella lettura o nell’ascolto di un testo di media difficoltà. Hanno perduto la funzione del comprendere, e spesso – quasi sempre – non se ne rendono nemmeno conto. Quando si dice che quella di oggi non è più la civiltà della ragione ma la civiltà della emozione, si dice anche di questo. E quando Bauman (morto ieri, grazie a lui per ciò che ci ha dato) diceva che, indipendentemente da qualsiasi nostro comportamento, ogni cosa é intessuta in un discorso, anche l’”analfabetismo” sta nel “discorso”. Cioè disegna un profilo di società nella quale la competenza minima per individuare una capacità di articolazione del proprio ruolo di “cittadino” – di soggetto consapevole del proprio ruolo sociale, disponibile a usare questo ruolo nel pieno controllo della interrelazione con ogni atto pubblico e privato – questa competenza appartiene soltanto al 20 per cento dei nostri connazionali.
E’ sconcertante, e facciamo fatica ad accettarlo. Ma gli strumenti scientifici di cui la linguistica si serve per analizzare il rapporto tra “messaggio” e “comprensione” hanno una evidenza drammatica. Non é un problema soltanto italiano. L’evoluzione delle tecnologie elettroniche e la sostituzione del messaggio letterale con quello iconico stanno modificando un po’ dovunque il livello di comprensione; ma se le percentuali attribuibili ad altre societá (anche Francia, Germania, Inghilterra, o anche gli Usa, che non sono affatto il modello metropolitano del nostro immaginario ma piuttosto un’ampia America Valeria Fedeliprofonda, incolta, ignorante, estremamente provinciale) se anche quelle societá denunciano incoerenze e ritardi, mai si avvicinano a queste angosciose latitudini, che appartengono soltanto all’Italia, e alla Spagna.
Il “discorso” è complesso, e ha radici profonde, sociali e politiche. Se prendiamo in mano i numeri, con il loro peso che non ammette ambiguità e approssimazioni, dobbiamo ricordare che nel nostro paese circa il 25% della popolazione non ha alcun titolo di studio o ha, al massimo, la licenza della scuola elementare. Non é che la scuola renda intelligenti, e però fornisce strumenti sempre più raffinati – quanto più avanti si vada nello studio – per realizzare pienamente le proprie qualità individuali. Vi sono anche laureati e diplomati che sono autentiche bestie, e però è molto più probabile trovare “bestie” tra coloro che laurea e diploma non sanno nemmeno che cosa siano. (La percentuale dei laureati in Italia, poi, é poco più della metà dei paesi più sviluppati.)
Diceva Tullio De Mauro, il più noto linguista italiano, ministro anche della Pubblica Istruzione (incarico che siamo capaci di assegnare perfino a chi non ha né laurea né diploma – e questo dato rientra sempre nel “discorso”), che più del 50 per cento degli italiani si informa (o non si informa), vota (o non vota), lavora (o non lavora), seguendo soltanto una capacità di analisi elementare: una capacità di analisi, quindi, che non solo sfugge le complessità, ma che anche davanti a un evento complesso (la crisi economica, le guerre, la politica nazionale o internazionale) é capace di una comprensione appena basilare. Un dato impressionante ce l’ha fatto conoscere ieri l’Istat: il 18,6 per cento degli italiani – cioè quasi uno su 5 – lo scorso anno non ha mai aperto un libro o un giornale, non é mai andato al cinema o al teatro o a un concerto, e neppure allo stadio, o a ballare. Ha vissuto prevalentemente per la televisione come strumento informativo fondamentale, e non é azzardato credere – visti i dati di riferimento della scolarizzazione – che la sua comprensione della realtà lo piazzi a pieno titolo in quell’80 per cento di Tullio De Mauroanalfabeti funzionali (che riguarda comunque un universo sociale drammaticamente molto più ampio di questa pur amara marginalità). E da qui, poi, il livello e il grado della partecipazione alla vita della società, le scelte e gli stili di vita, il voto elettorale, la reazione solo di pancia – mai riflessiva – ai messaggi dove la realtà si copre spesso con la passione, l’informazione e la sua contaminazione con la pubblicità e tant’altro che ben si comprende. E’ il “discorso”.
Il “discorso” ha al centro la scuola, il sistema educativo del paese, le scelte e gli investimenti per la costruzione di un modello funzionale che superi il ritardo con cui dobbiamo misurarci in un mondo sempre più aperto e sempre più competitivo. Se noi destiniamo alla ricerca la metà di un paese come la Bulgaria, evidentemente c’é un “discorso” da riconsiderare. (Questo testo é un omaggio a Tullio De Mauro, morto nei giorni scorsi, che ha portato la linguistica fuori dalle aule dell’accademia, e l’ha resa uno degli strumenti fondamentali di analisi di una società) .

martedì 17 gennaio 2017

I prezzi calano ma la povertà cresce: in Italia qualcosa non torna

Non è normale che in un periodo di deflazione cresca sensibilmente il numero di quanti non possono garantirsi uno standard di vita accettabile. Questo accade solo in Italia, che invece di chiedere indietro i soldi ai pensionati dovrebbe immaginare misure adeguate di sostegno al reddito. L’analisi di Alessandro Volpi
Nel corso degli ultimi anni si sono manifestati insieme due fenomeni che spesso, nella storia, si sono presentati disgiunti o meglio ancora in alternativa l’uno all’altro. Il combinato anomalo è quello di deflazione e significativo aumento della povertà: anomala perché, in genere, la discesa dei prezzi si è accompagnata ad una fase di sviluppo economico. Ora invece la povertà cresce in maniera vistosa mentre i prezzi scendono assai rapidamente.
Nel 2006, prima della crisi internazionale, le famiglie italiane in condizioni di povertà assoluta erano 789 mila, il 3,5% del totale del totale. Nel 2015 il numero delle famiglie in tali condizioni è quasi raddoppiato, arrivando a 1.582.000, pari al 6,1% del totale. Nello stesso arco di tempo è stato ancora più deciso l’incremento degli individui in condizioni di povertà assoluta, che sono passati da 1.660.000, poco meno del 3% del totale, a 4.598.000, pari al 7,6%.
Se poi dall’analisi della povertà assoluta, che comprende chi non è in grado di acquistare un paniere di beni e servizi necessari a raggiungere uno standard di vita minimo accettabile nel contesto di appartenenza, secondo la definizione Istat, si sposta la lente di osservazione sulla povertà relativa, propria di una famiglia di due persone con un consumo inferiore a quello medio pro-capite, allora il totale degli individui in queste condizioni arriva a 8,3 milioni, contro i 6 milioni del 2006.
A fronte di simili dati, nel 2016 i prezzi al consumo hanno fatto registrare un calo dello 0,1%, come media d’anno, una situazione che non si ripeteva dal 1959, quando in una fase, ben diversa, di boom economico, i prezzi scesero dello 0,4%. Si tratta di un fenomeno, peraltro, limitato al nostro Paese perché nel resto della zona euro, nel 2016, l’inflazione ha toccato il +1,1% su base annua.
Questa anomala combinazione italiana di povertà e deflazione tende a mettere in crisi un modello di politica economica che ha retto a lungo nel tempo.
Durante gli anni Settanta, infatti, la difesa del potere d’acquisto dei lavoratori e il miglioramento dello loro condizioni di vita erano passati attraverso il meccanismo della cosiddetta “scala mobile” che legava, in maniera automatica, le retribuzioni all’inflazione reale, per cui le prime salivano al crescere della seconda. Tale agganciamento, soprattutto dopo il varo nel 1975 del punto unico di contingenza, significò un gigantesco balzo in avanti del monte salariale. Da un lato questo ha determinato un importante avanzamento del reddito di gran parte della popolazione italiana, ma dall’altro accelerò ulteriormente il processo inflazionistico e tolse competitività al sistema economico nazionale.

Con lo scoppio della crisi della finanza pubblica e con l’avvento dei vincoli europei, all’inizio degli anni Novanta, si ritenne indispensabile rompere quel meccanismo di adeguamento automatico e i salari non furono più agganciati all’inflazione reale ma a quella programmata, definita, appunto, anno per anno su base programmatica. In questo modo, i salari cessavano di essere una “variabile indipendente” e venivano messi in relazione alle condizioni generali dell’economia e della finanza pubblica per evitare incrementi incontrollati del debito pubblico e nuovi aumenti inflazionistici. Le politiche di rigore avviate in particolare dopo il 2011 hanno, tuttavia, gelato ogni prospettiva di aumento dei prezzi che hanno cominciato a scendere in maniera ancora più rapida e netta di quanto ogni anno è stato programmato.
Così, è molto probabile che i pensionati italiani debbano restituire, da febbraio, allo Stato lo 0,1% dell’importo ricevuto nel 2015 proprio per effetto della differenza tra l’inflazione programmata e quella effettiva su cui è stato calcolato l’adeguamento al costo della vita delle pensioni. Appare evidente che una simile prospettiva mal si concilia con una fase di povertà crescente, e -al di là delle misure contingenti per scongiurare il rischio di questa restituzione- risulta necessario ripensare anche i meccanismi di indicizzazione, concepiti in un periodo in cui la grande paura nasceva dall’inflazione, oggi assai debole e sostituita da un forse più pericoloso raffreddamento dei prezzi.
Per avviare una strategia che superi l’anomalo binomio di povertà e deflazione è quindi sempre più indispensabile varare subito misure di sostegno al reddito che raggiungano un fetta non trascurabile di popolazione e che abbiano una copertura finanziaria più ampia del miliardo previsto per il reddito d’inclusione dall’ultima legge di bilancio.

lunedì 16 gennaio 2017

La generazione che ha tradito la storia

Qualcuno ha scritto che combattere un’ombra sia semplicemente impossibile: l’unica cosa che possiamo fare è illuminarla. È solo attraverso le domande, le giuste domande, che possiamo davvero determinare chi siamo, dove siamo, quanto valiamo e soprattutto cosa vogliamo. Porsi delle domande però richiede tanto coraggio perché ognuna di esse presenta un prezzo che dobbiamo necessariamente pagare: accettare e sopportare la risposta al quesito stesso. Per quanto doloroso possa essere, tuttavia, è forse solo attraverso le domande che si possono individuare le responsabilità che ognuno di noi ha il dovere di assumersi. L’individuazione di una responsabilità è condizione essenziale per il conseguimento della crescita e dell’emancipazione di un individuo e quindi di un’intera comunità. Assumersi una responsabilità non basta: è una sana premessa, sissignore, ma ad essa dobbiamo scegliere se far seguire una desolante rassegnazione o un tentativo di riscatto. Il riscatto passa necessariamente attraverso la lotta. E allora possiamo cominciare con l’interrogarci su questo: se la condizione nella quale versano i giovani in Italia oggi si fosse verificata, ad esempio, una settantina d’anni fa, che cosa sarebbe accaduto? A voler guardare meno lontano, come avrebbero gestito la crisi che viviamo i giovani degli anni sessanta e settanta? Due quesiti sciocchi, penseranno alcuni: impossibile paragonare epoche tanto diverse e metterne a confronto i comportamenti sociali. Forse è così.
A Valle Giulia, dinanzi alla facoltà di Architettura, il 1° marzo del 1968 si svolge uno degli scontri più duri fra studenti e poliziotti. Decine di studenti arrestati, ma per la prima volta i giovani anzichè scappare, sembrano prevalere.
Più che confrontare però i singoli eventi, si cerchi di riflettere sulle attitudini, sulle propensioni, sulla “religione civile”, su quella che una volta si chiamava “coscienza di classe”. Insomma, oggi viviamo un’epoca senza futuro: la disoccupazione giovanile costituisce un problema di dimensioni mastodontiche; non si pone in essere alcuna manifestazione di solidarietà intergenerazionale dal momento che qualsiasi intervento (dalle leggi in materia di lavoro e previdenza, alle ristrutturazioni aziendali) sembra orientato afar pagare comunque i giovani; la precarizzazione della vita in tutti i suoi aspetti rende impossibile qualsiasi tipo di progettualità professionale e familiare; lo svilimento e il prosciugamento degli investimenti su cultura e istruzione fanno sì che non ci sia alcun processo di arricchimento intellettuale o canale di espressione, anche artistica; non v’è alcun tipo di organizzazione o movimento in generale che sia in grado di risvegliare e rinvigorire la voglia dei giovani a, banalmente, partecipare al processo del divenire. Dinanzi a tutto questo, qual è la reazione? Non si vuole qui necessariamente fare la celebrazione del passato, dei soliti miti, e però vengono in mente i giovani partigiani descritti da Renata Viganò: affamati e assetati aspettavano per giorni e giorni il momento di agire e di morire. Non c’è solo la resistenza, con le sue infinite contraddizioni, ma anche i giovani che arrivavano ad essere così follemente inebriati da ammazzarsi per le strade durante gli anni di piombo, convinti di dover dare la vita, di dover combattere, perché un ideale trovasse realizzazione nel quotidiano di un paese che ancora faticava a definire la sua identità post bellica. Viene in mente quella dolcissima e malinconica canzone che fa:
“Quale silenzio ci confonderà / quale invisibile padrone / ci sentivamo invincibili / ci credevamo così. / Chi ci ha piegato le mani / chi ci ha tradito non so / come le macchine che vanno via / ombre e stagioni così”.
Possibile che sia tutta colpa del c.d. riflusso culturale degli anni ’80? Possibile che sia tutta colpa del ventennio berlusconiano e delle sue televisioni spazzatura? Possibile che sia tutta colpa delle tette e dei culi al vento, di “Non è la Rai”, di “Buona Domenica” di Costanzo e di “Uomini e donne” della De Filippi? Sarebbe tutto dannatamente troppo facile, troppo semplice, troppo comodo: è necessario tornare a puntare il faro su sé stessi, porsi domande, affrontarne le risposte, individuare e assumersi le emergenti responsabilità, crescere, emanciparsi e lottare. E chi siamo noi? Fa rabbia, ma aveva ragione Mentana il 10 aprile 2016 al Festival Internazionale del Giornalismo di Perugia: siamo quelli che sanno tenere nelle loro mani solo spritz e smartphone e che dovrebbero liberarsene almeno una per brandire un cartello di protesta. Dobbiamo dircelo, per quanto bruciante sia, perché altrimenti non ripartiremo mai.
Noi siamo la generazione dei selfie, delle labbra a culo di gallina, dei libri poggiati alla rovescia sulle cosce nude al mare. Noi siamo la generazione che se la fa sotto, che teme di ammettere le proprie fragilità, le proprie paure, e che deve necessariamente manifestare sicurezza e spavalderia. Noi siamo una generazione completamente “vuota”, ripiegata sulla sua stessa inedia, sulla sua stessa noia, sulla sua desolate anomia. Noi siamo la generazione che non sa nulla, che non ha letto nulla, ma che pretende di essere rock politik, fashion democrat, radical chic. Noi siamo la generazione che si crogiola in un finto e patetico decadentismo animato da figli di papà che non sanno fare nulla, non sanno conseguire nulla, che non sanno riconoscere nulla, che non hanno il coraggio di rincorrere, che non hanno il coraggio di lottare. Noi siamo una generazione spesso priva di umiltà, sensibilità, umanità, laddove esiste un solo idolo: il nostro io, il nostro cieco individualismo, il nostro cieco egoismo. Noi siamo la generazione che si commuove nel vedere foto di dolci gattini su facebook, me che resta indifferente dinanzi alla sofferenza e al sacrificio del prossimo. Noi siamo la generazione che paragona le persone a dei prodotti di fabbrica: dove tutti devono essere provvisti di determinate caratteristiche, da riscontrare con incredibile perizia sotto una spietata lente d’ingrandimento. Noi siamo la generazione che pretende sempre e comunque di avere una riposta, di avere un’opinione, che ha sostituito i libri con le citazioni di aforismi.it e che pretende di giudicare, puntare il dito. Noi siamo la generazione dell’esteriorità, dell’immediato, del percettivo. Noi siamo la generazione che va via, che si arrende, che sta in silenzio. Noi siamo la generazione che queste parole se le farà scivolare addosso, con un impermeabile sorriso.
Viviamo in un mondo che ci ha disegnato attorno una realtà fittizia e inesistente: nutriamo una sensazione, una percezione di infinità potenzialità laddove invece tutto è precario perché ritenuto insufficiente rispetto a quello che crediamo di poter ottenere. Dobbiamo essere social perché è fondamentale. Siamo circondati da persone, siamo in mezzo alla gente, ma sempre più impantanati in un soffocante senso di solitudine.

venerdì 13 gennaio 2017

Il 2016 l'anno più caldo da metà del 1800

Nel 2016 le temperature globali misurate sono state di circa 1,2° C più elevate rispetto ai livelli pre-industriali; lo affermano gli esperti dell'Organizzazione Mondiale della Meteorologia.
Il 2016 probabilmente sarà stato l'anno più caldo mai registrato da metà del 1800, secondo i dati relativi ai primi undici mesi dell'anno dell'Organizzazione Mondiale della Meteorologia (WMO); le temperature medie globali superano anche i record del 2015.
Nel 2016 le temperature globali sono di circa 1,2° C più elevate rispetto ai livelli pre-industriali. Peraltro, tutti gli anni più caldi mai registrati sono stati in questo secolo.
Il Segretario generale della WMO ha commentato che "Gli studi scientifici stanno sempre più dimostrando il legame tra gli eventi meteorologici estremi - in particolare il calore - ed il cambiamento climatico indotto dall'uomo con i gas serra. Questo aumenta la necessità di investire per assicurare migliori previsioni del tempo in grado di prevedere gli impatti di tali eventi e sistemi di allarme rapido per salvare vite umane e sostenere l'adattamento ai cambiamenti climatici, ora e nei prossimi decenni a venire"

giovedì 12 gennaio 2017

BARACK OBAMA, DA PREMIO NOBEL PER LA PACE A MEDAGLIA D’ONORE DEL PENTAGONO

Sette anni dopo che gli è stato conferito il Premio Nobel per la Pace per i suoi “straordinari sforzi per rafforzare la diplomazia internazionale e la cooperazione tra i popoli” nonostante fosse in carica da meno di un anno e non avesse ancora raggiunto alcun risultato diplomatico tangibile, il presidente Obama si accinge a lasciare la Casa Bianca dopo aver sganciato, nel solo 2016, ben 26.171 bombe su paesi stranieri in giro per il mondo (3.027 bombe in più rispetto al 2015).
Secondo un’analisi dei dati del Dipartimento della Difesa fatta dal Council on Foreign Relations (CFR), un think-tank indipendente, la maggior parte delle bombe di Obama nel 2016 sono state sgnaciate in Siria e in Iraq. Nel mentre in Afghanistan, un paese da cui il presidente Obama aveva promesso di ritirare le truppe americane entro la fine del suo mandato, è stato bombardato 1.300 volte, vale a dire il 40% in più rispetto all’anno precedente. McClatchy DC riporta:
Gli USA hanno sganciato il 79 percento di tutte le bombe della coalizione anti-ISIS in Siria e in Iraq, vale a dire 24.287 bombe. Questo dato, assieme ad altri analizzati dal CFR, è probabilmente inferiore al reale, perché in un attacco aereo possono essere sganciate bombe a grappolo.
Obama ha autorizzato un aumento delle truppe in Afghanistan — in un conflitto al quale, durante la sua campagna presidenziale, si era impegnato a mettere fine — dove nel corso del 2016 gli USA hanno sganciato 1.337 bombe. Attualmente ci sono 8.400 soldati statunitensi nel paese, più di quanti Obama si fosse impegnato a mantenerne entro la fine del suo mandato. Nel 2015 gli USA avevano sganciato in Afghanistan 947 bombe.
Nel 2016 gli USA hanno anche sganciato più bombe in Libia di quante ne avessero sganciate nell’anno precedente. Quasi 500 bombe sono state lanciate nel 2016 sul paese nordafricano, che si trova sostanzialmente senza un governo da quando, nel 2011, è stato rovesciato il dittatore Gheddafi. Gheddafi è stato catturato e ucciso durante la guerra civile libica, innescata dalle proteste della primavera araba che, tra l’altro, hanno dato inizio anche alla guerra in Siria.
Ed ecco come si è espresso Ron Paul su tutta questa farsa, sulla sua pagina Facebook:
“Barack Obama ha iniziato la presidenza con il Nobel per la Pace e la sta terminando con una medaglia d’onore per servizi speciali del Pentagono.
Sembra la cosa giusta, per un presidente che ha bombardato 7 paesi ed è diventato il primo presidente USA ad essere stato in guerra in ogni singolo giorno dei suoi otto anni di amministrazione.”

mercoledì 11 gennaio 2017

Efficienza pubblica amministrazione: Italia ultima in Europa

Le inefficienze della pubblica amministrazione hanno un impatto negativo devastante sull’economia. Secondo l’Ufficio studi della Cgia di Mestre, se la nostra amministrazione pubblica avesse in tutta Italia la stessa qualità nella scuola, nei trasporti, nella sanità, nella giustizia, etc. che ha nei migliori territori del Paese, il Pil nazionale aumenterebbe di 2 punti (ovvero di oltre 30 miliardi di euro) all’anno.
La macchina amministrativa statuale, guidata da Marianna Madia continua ad essere un mostruoso Leviatano disorganizzato e sprecone, in barba alla massima accademica la quale pretende l’efficacia e l’efficienza della stessa, in ogni suo ambito e competenza.
L’analisi degli Artigiani di Mestre su dati relativi a uno studio realizzato dal Fondo Monetario Internazionale non ci lascia scampo. Tra le migliori 30 regioni europee non c’è traccia di nessuna amministrazione pubblica del nostro Paese. La prima, ovvero la Provincia autonoma di Trento, si colloca al 36° posto della classifica generale. La Provincia autonoma di Bolzano al 39°, la Valle d’Aosta al 72° e il Friuli Venezia Giulia al 98°. Appena al di sotto della media Ue troviamo al 129° posto il Veneto, al 132° l’Emilia Romagna e di seguito tutte le altre.
Nella classifica generale la Pa italiana si colloca al 17° posto su 23 paesi analizzati. Solo Grecia, Croazia, Turchia e alcuni paesi dell’ex blocco sovietico fanno peggio di noi. Tutti gli altri Stati garantiscono dei servizi nettamente superiori a quelli offerti dalla nostra Pa. A guidare la classifica, invece, sono le Pa dei paesi del nord Europa (Danimarca, Finlandia, Svezia, Paesi Bassi, etc.)

martedì 10 gennaio 2017

La ricchezza, la deflazione, la bussola

Per molti anni, in passato, il dibattito economico tra sinistra e destra è stato sulla "creazione" versus la "distribuzione" delle ricchezze.
A destra, come noto, si sosteneva che distribuire troppo la ricchezza prodotta mortificava la creazione della stessa; in altre parole, che le ricette di sinistra finivano per redistribuire solo povertà.
Io non credo, come alcuni, che questa teoria sia stata una creazione a tavolino dei "ricchi" per avere l'alibi di non ridistribuire: anzi, in passato è stata vera, è successo così. Bisogna dirlo in onestà intellettuale. Il cosiddetto socialismo reale è fallito (anche) per questo.
Adesso forse - dopo trent'anni in cui ha avuto l'egemonia culturale e politica - la destra economica dovrebbe interrogarsi sul contrario, tuttavia. Specie in Italia e in tempi di deflazione.
Dovrebbe interrogarsi cioè sull'ipotesi - che a me sembra molto suffragata dai dati di realtà - che l'eccesso di concentrazione della ricchezza a sua volta soffochi la produzione della stessa.
Ad esempio, deprimendo i consumi.
Ma anche provocando quella parcellizzazione sociale (il tutti contro tutti tra categorie e tra fasce che stanno in basso) che è il contrario della coesione sociale; e che a sua volta provoca sfiducia e scarsa progettazione del futuro, cioè le condizioni ideali per una spirale di recessione.
Forse ci si potrebbe anche utilmente chiedere, da quelle parti, se la "flessibilizzazione" a lungo evocata (ad esempio, la licenziabilità e il precariato estremo) alla fine ha effetti più negativi che positivi: perché chi non ha un minimo di certezza del reddito non consuma, non fa girare la macchina dell'economia. Quindi l'imprenditore, tutto contento perché può assumere e licenziare a piacimento anche solo per un'ora, poi si scopre un po' meno contento perché nessuno compra più nulla.
Negli ultimi trent'anni la sinistra ha fatto profonda e spesso fondata autocritica sugli errori dei suoi dogmi economici; un'autocritica che ha talvolta portato la sinistra stessa a sposare incondizionatamente e acriticamente la visione opposta. Il governo Renzi, in questo, è stato emblematico - anche se non certo l'unico né il primo: ha scommesso cioè tutto sugli imprenditori, ha dato loro miliardi di euro in incentivi e mani libere nel mercato del lavoro, ha applicato in modo quasi religioso le teorie classiche della destra economica sperando che producessero una ripresa della dinamica produzione-consumi. Risultato, siamo in deflazione: non credo che sia troppo aggressivo dire che quella scommessa è clamorosamente fallita.
A proposito: non è ancora alle viste alcuna autocritica della destra economica né di chi, pur provenendo da altra storia, i dettami di quella destra ha sposato: benché questi abbiano portato non solo alla crisi iniziata nel 2008 ma anche al disastro sociale-civile contemporaneo, ai Trump e alle Le Pen, alla cieca rivolta dei ceti medi impoveriti e senza bussola.
Eppure, forse, oggi - con i dati di realtà inoppugnabili sulla enorme concentrazione di ricchezze che è avvenuta negli ultimi trent'anni e sulla situazione drammatica in cui troviamo, anche in termini di stabilità e prospettive comuni - si potrebbe avanzare l'ipotesi che redistribuire un po' sia utile non solo a chi se ne avvantaggia direttamente, ma a tutto il sistema economico.
E sì, credo che sia questo il principale dibattito da fare nel 2017, in Europa e in Italia.

lunedì 9 gennaio 2017

Il voltafaccia della Turchia

La Turchia è un membro della NATO, un alleato dell'Arabia Saudita, un patrono del jihadismo internazionale a seguito del ricovero del principe Bandar Ben Sultan nel 2012, nonché lo sponsor della Fratellanza Musulmana dopo il rovesciamento di Mohamed Morsi e la lite tra Doha e Riyad nel 2013 -14. Oltre a questo, ha attaccato la Russia nel novembre 2015, distruggendo un Sukhoi-24 e causando l'interruzione dei rapporti diplomatici con Mosca.
Eppure, questa è la stessa Turchia che ha appena sponsorizzato il cessate il fuoco in Siria, concepito dalla Russia [1].
Perché?
Dal 2013, Washington non considera più Recep Tayyip Erdoğan come un partner di fiducia. La CIA ha quindi lanciato diverse operazioni, non contro la Turchia, ma contro Erdoğan in persona. Nel mese di maggio-giugno 2013, ha organizzato e sostenuto il movimento di protesta al Parco Taksim Gezi. Durante le elezioni legislative del giugno 2015, ha finanziato e supervisionato il partito delle minoranze, l'HDP, in modo da limitare i poteri del presidente. Ha giocato con la stessa tattica durante le elezioni del novembre 2015, che il potere aveva truccato. La CIA passa quindi dall'influenza politica all'azione segreta. Organizza quattro tentativi di assassinio, l'ultimo dei quali, nel luglio 2016 finisce male, costringendo gli ufficiali kemalisti a tentare un colpo di Stato per il quale non erano preparati.
Erdoğan si trova pertanto in una posizione simile a quella del primo ministro italiano degli anni '70, Aldo Moro. Entrambi gli uomini sono alla testa di uno Stato membro della NATO, ed entrambi devono affrontare l'ostilità degli Stati Uniti. La NATO è riuscita a eliminare l'italiano, manipolando un gruppo di estrema sinistra [2], ma non è riuscita a uccidere il turco.
Inoltre, al fine di vincere le elezioni del novembre 2015, Erdoğan ha lusingato i suprematisti turco-mongoli espandendo unilateralmente il conflitto con la minoranza curda. In questo modo, ha aggiunto i presunti «nazionalisti» del MHP alla sua base elettorale islamista (AKP). In pochi mesi, ha causato la morte di oltre 3.000 cittadini turchi di etnia curda, e distrutto diversi villaggi, o persino certi quartieri di grandi città.
Infine, trasmettendo ad al-Qa'ida e a Daesh le armi che gli facevano pervenire l'Arabia Saudita, il Qatar e la NATO, ha tessuto stretti rapporti con le organizzazioni jihadiste. Non ha esitato a utilizzare la guerra contro la Siria per fare soldi a titolo personale. All'inizio smantellando e saccheggiando le fabbriche di Aleppo, poi trafficando il petrolio e le antichità rubati dai jihadisti. Progressivamente, tutto il suo clan si è legato ai jihadisti. Ad esempio, il suo primo ministro, il mafioso Binali Yıldırım, ha organizzato fabbriche per la confezione di merci contraffatte nei territori amministrati da Daesh.
Tuttavia, l'intervento di Hezbollah nella seconda guerra contro la Siria, a partire da luglio 2012, poi quello della Federazione Russa, nel settembre 2015, hanno rovesciato le sorti della guerra. Ormai, la gigantesca coalizione degli «Amici della Siria» ha largamente perso il terreno che aveva occupato, e ha incontrato crescenti difficoltà nel reclutamento di nuovi mercenari. Migliaia di jihadisti hanno disertato il campo di battaglia e hanno già ripiegato in Turchia.
Orbene, la maggior parte di questi jihadisti sono incompatibili con la civiltà turca. In effetti, i jihadisti non erano stati reclutati per formare un esercito coerente, ma solo per far numero. Sono stati almeno 250.000, forse ancora molti di più. In un primo momento, di trattava di delinquenti arabi supervisionati dai Fratelli Musulmani. Progressivamente, si sono aggiunti i sufi Naqshbandi provenienti dal Caucaso e dall'Iraq, nonché dei giovani occidentali in cerca di rivoluzione. Questo miscuglio inverosimile non può tenersi insieme se lo si sposta in Turchia. Prima di tutto perché ormai ciò che i jihadisti vogliono è uno stato tutto loro, e sembrerebbe impossibile annunciare nuovamente il Califfato in Turchia. E poi per tutta una serie di ragioni culturali. Per esempio: i jihadisti arabi hanno adottato il wahhabismo dei loro benefattori sauditi. Secondo questa ideologia del deserto la Storia non esiste. Hanno quindi distrutto molte vestigia antiche, con il pretesto che il Corano proibisce l'idolatria. Anche se tutto ciò non ha finora posto problemi ad Ankara, è fuori discussione che si permetta loro di osar toccare il patrimonio turco-mongolo.
Così, oggi Erdoğan deve affrontare tre nemici contemporaneamente - senza contare la Siria:
- Gli Stati Uniti ed i loro alleati turchi, il FETÖ dell'islamista borghese Fethullah Gülen;
- I kurdi indipendentisti, in particolare il PKK;
- Le ambizioni sunnite intese a creare uno Stato proprio dei jihadisti, in particolare di Daesh.
Mentre l'interesse principale della Turchia sarebbe, in via prioritaria, di comporre i conflitti interni con il PKK e il FETÖ, l'interesse personale di Erdoğan è quello di trovarsi un nuovo alleato. È stato l'alleato degli Stati Uniti, quando la loro influenza era al suo apice, e attualmente spera di diventare l'alleato della Russia, ormai la prima potenza militare convenzionale nel mondo.
Questo voltafaccia sembra tanto più difficile da realizzare poiché il suo paese è membro dell'Alleanza atlantica, un'organizzazione che nessuno è mai riuscito a lasciare. Forse in un primo momento avrebbe potuto lasciare il comando militare integrato, come fece la Francia nel 1966. All'epoca, il presidente Charles De Gaulle dovette fronteggiare un tentativo di colpo di Stato e numerosi tentativi di assassinio da parte del OAS, un'organizzazione finanziata dalla CIA [3].
Anche supponendo che la Turchia riuscisse a gestire questa evoluzione, dovrebbe ancora affrontare altri due problemi principali.
Prima di tutto, anche se non sappiamo con precisione il numero di jihadisti in Siria e in Iraq, si può stimare che essi ora non siano più di un numero compreso tra 50.000 e 200.000. Dato che questi mercenari sono massicciamente irrecuperabili, che cosa se ne deve fare? L'accordo di cessate il fuoco, il cui testo è volutamente impreciso, lascia aperta la possibilità di un attacco contro di loro a Idlib. Questo governatorato è occupato da uno stuolo di gruppi armati che non hanno legami tra loro, ma sono coordinati da parte della NATO dal LandCom di Izmir, tramite alcune ONG «umanitarie». Contrariamente a Daesh, questi jihadisti non hanno mai imparato a organizzarsi correttamente e continuano a dipendere dagli aiuti dell'Alleanza atlantica. Questo aiuto arriva loro attraverso il confine turco, che potrebbe presto essere chiuso. Tuttavia, mentre è facile controllare camion che viaggiano su percorsi ben definiti, non è possibile controllare il passaggio di uomini che attraversano i campi. Migliaia, forse anche decine di migliaia di jihadisti potrebbero presto fuggire in Turchia e destabilizzarla.
La Turchia ha già iniziato a cambiare la sua retorica. Il presidente Erdoğan ha accusato gli Stati Uniti di continuare a sostenere i jihadisti in generale e Daesh in particolare, lasciando intendere che se lui stesso l'ha fatto in passato, ciò avveniva sotto l'influenza malefica di Washington. Ankara spera di fare soldi affidando la ricostruzione di Homs e di Aleppo alla sua società di costruzioni e lavori pubblici. Tuttavia, è difficile immaginare come la Turchia possa sfuggire alle proprie responsabilità, dopo aver pagato centinaia di migliaia di siriani affinché lasciassero il loro paese, dopo aver saccheggiato il nord della Siria, e dopo aver sostenuto i jihadisti che hanno distrutto questo paese e ucciso centinaia di migliaia di siriani.
Il voltafaccia della Turchia, se sarà confermato nei mesi a venire, provocherà una reazione a catena di conseguenze. A cominciare dal fatto che il presidente Erdoğan oramai si presenti non solo come l'alleato della Russia, ma anche come il partner di Hezbollah e della Repubblica islamica dell'Iran, vale a dire gli eroi del mondo sciita. Fine, quindi, del miraggio di una Turchia leader del mondo sunnita, che combatta gli «eretici» con denaro saudita. Ma il conflitto artificiale inter-musulmano lanciato da Washington non finirà fino a quando l'Arabia Saudita non vi avrà rinunciato essa stessa.
Lo straordinario ribaltamento di posizioni da parte della Turchia è probabilmente difficile da comprendere per gli occidentali, secondo i quali la politica è sempre di pubblico dominio. Lasciando da parte l'arresto di ufficiali turchi in un bunker della NATO a est di Aleppo, che risale a due settimane fa, il tutto è più facile da capire per chi ricorda il ruolo personale di Erdoğan durante la prima guerra cecena, quando dirigeva la Millî Görüş; un ruolo di cui Mosca non ha mai parlato, ma sul quale i servizi segreti russi hanno conservato parecchi archivi. Vladimir Putin ha preferito trasformare un nemico in un alleato, piuttosto che farlo cadere e dover continuare a combattere il suo Stato. Il presidente Bashar el-Assad, Sayyed Hassan Nasrallah, e l'ayatollah Ali Khamenei hanno volentieri seguito il suo esempio.
Da ricordare:
- Dopo aver sperato di conquistare la Siria, il presidente Erdoğan si trova, soltanto a causa della sua politica, a essere sfidato su tre fronti: dagli Stati Uniti e il FETÖ di Fethullah Gülen, dai separatisti curdi del Pkk e da Daesh.
- A questi tre avversari, potrebbe di nuovo aggiungersi la Russia, che detiene numerose informazioni sul suo percorso personale. Anche il presidente Erdoğan ha scelto invece di allearsi con Mosca e potrebbe uscire dal comando integrato della NATO.

giovedì 5 gennaio 2017

Vivere al di sopra delle proprie possibilità

L’Italia è al secondo posto in Europa per tasse sulle imprese, e dodicesima nel mondo. Il dato ormai non ha -purtroppo- sapore di novità, essendo stato confermato da più fonti negli ultimi anni, Corte dei Conti inclusa. A guardarci bene però, potremmo dire che la classifica è errata, sfortunatamente per difetto; solitamente si ha infatti la tendenza a prendere in considerazione le tasse singolarmente a comparti stagni, anziché con uno sguardo di insieme. Forse la cosa si spiega perché, da buoni italiani, non amiamo le cattive notizie, e una pressione fiscale superiore al 100% non lo è di certo; purtroppo però, è necessario farsi forza, e quindi i conti in tasca.
Respiri dunque paghi
Cominciamo dall’Irpef, l’imposta di reddito delle persone fisiche, che grava su ognuna delle persone fisicamente residenti in Italia, e su tutte le tipologie di reddito prodotte. Insomma, non importa che tu sia leone o gazzella, comunque paghi, ed è inutile pensare di sfuggire producendo all’estero, la tassa vale infatti per ogni tipo di reddito prodotto…nel mondo. Fra i redditi tassati troviamo: quello da lavoro autonomo (liberi professionisti), da capitale (derivati, azioni, titoli di stato ecc), da lavoro dipendente, e fondiari. Come noto si tratta di una tassa progressiva, pertanto si paga per scaglioni, con aliquote che vanno da un minimo del 23% (con un reddito di 15000 euro) fino a un massimo di 43% (oltre 75000). Insomma, di media già un 30% del guadagno se ne va, oplà!
Costi quel che costi
l’Irpef, come visto, la paga chiunque, ma se qualcuno fa impresa, ovviamente non mancano altri dazi. Vi pare infatti giusto che qualcuno che produca o dia lavoro e quindi sostenga la propria ed altre famiglie, debba godersi i sudati guadagni? Ah no, non sia mai, pertanto oltre alle tasse sul reddito, e ai numerosi costi di gestione cui un imprenditore deve far fronte, ecco che si trova fra capo e collo l’Irap, la tassa sul differenziale tra il valore di produzione e i costi di quest’ultima. Da pagare su base regionale, con un’aliquota che va, a seconda del tipo di impresa e a seconda della regione, da un minimo di circa il 4% a un massimo di circa il 9%.
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Pressione fiscale sui redditi da lavoro (imposta sul reddito più contribuzioni a carico di dipendente e datore di lavoro). Fonte: OECD
Tanto va il guadagno al largo…
Non mancano ovviamente delle tasse più specifiche, come l’Ires, per le società di capitali (24%), e l’Iri, per le società di persone (sempre al 24%). Insomma, si può dire che al momento, di media, stiamo tra il 40% e il 60%. Finito? Oh, proprio no. Andando molto velocemente, è evidente che gli imprenditori, a prescindere dalla loro forma imprenditoriale o societaria, dovranno pagare degli stipendi, e quindi dei contributi, Tfr compreso, il trattamento di fine rapporto, ossia il diritto a un indennizzo per il lavoratore proporzionale agli anni di servizio svolti; manco a dirlo, questo “diritto” è parimenti tassato. I contributi ad ogni modo, costati sangue e sudore tanto del datore di lavoro che del lavoratore, servono teoricamente a contribuire (anche se non direttamente) a quella che sarà poi, un giorno molto lontano, la pensione, anch’essa ovviamente soggetta all’Irpef. Tasse su costi già sostenuti e denaro già tassato, e purtroppo non si tratta dell’ultimo esempio.
Si comincia a far chiaro come mai le aziende nostrane licenzino, chiudano o delocalizzino, perché il nostro Stato, assieme alle politiche europee, uccide l’impresa.
Tutto il resto è dazio
Ora, spostandoci dal “lavoro” vediamo come la situazione non migliori affatto. Con quel poco che è rimasto infatti si dovrà pur campare, no? No, che domande. Quindi, se dovete prendere la macchina, o qualsiasi altro mezzo motorizzato (per il quale comunque e tanto per gradire bisogna pagare l’assicurazione e il bollo), ricordiamoci che su circa 1,5 euro al litro di benzina, un euro (due terzi!) sono accise, e quindi tasse. Se invece decidessimo di optare per una passeggiata a piedi o in bici, ci risparmieremmo sicuramente il salasso ma il moto, si sa, mette appetito; ecco allora che ci si ristora con un pasto, un po’ d’acqua e un bel caffè, che ingurgitiamo insieme a un’indigesta Iva del 22%, pagata utilizzando soldi sui quali, di nuovo, le tasse sono già state pagate. Dopo il pranzo però -se si ha il vizio- una sigaretta ci sta bene, e anche su quelle ci sono le accise, così i soldi vanno letteralmente, in fumo (ad ogni modo oltre al portafogli non ringraziano nemmeno i polmoni). Tutto questo pagare però, insomma, è veramente stancante, meglio tornare a casa. Ah, casa dolce casa, quanti sacrifici per comprarla (a cominciare dal 3% di imposta di registro sul contratto di acquisto); però dai, chissenefrega, ne è valsa la pena, ognuno ha diritto alla propria bicocca, peccato che ogni anno arriva la stangata dell’Imu, che al confronto il mutuo è una bazzeccola. E le bollette? Vogliamo parlare delle bollette? Da quest’anno ci saranno circa 1000euro in più da pagare per famiglia. Roba da matti! Viene quasi voglia di fare come nei film americani e ingozzarsi di gelato finto o di qualsiasi altra porcheria, anzi no! Perché poi c’è da pagare la tassa sui rifiuti. Tanto vale accendere un po’ di tv, che tanto il canone Rai adesso si paga per forza.
Inutile aggiungere come al contempo, e vergognosamente, i servizi essenziali del welfare siano sempre più compromessi e non garantiti. Ecco, l’elenco non è finito, ma è chiaro quanto la cosa sia assurda, ossia pagare e ripagare tasse su quanto già tassato, per arrivare ad una cifra astronomica praticamente uguale se non superiore a quanto guadagniamo. Come è possibile in tutto ciò metterci anche il semplice mangiare o vestirsi, come? Come è possibile in tutto ciò, che la cosa sembri normale? Perché allora è vero, proprio sì, che “viviamo al di sopra delle nostre possibilità”

mercoledì 4 gennaio 2017

Italia nel baratro

Lo hanno chiamato “Salva Risparmio” ma si tratta dell’ennesima manovra salva banche. Il testo della risoluzione prevede che il debito pubblico potrà aumentare fino a 20 miliardi di euro con lo scopo di finanziare tutti quei provvedimenti atti a tutelare il sistema bancario. A Montecitorio la risoluzione è passata con 389 sì, 134 no e 8 astenuti, mentre a Palazzo Madama il via libera è arrivato con 221 sì, 60 no e 3 astenuti. Dopo l’ufficializzazione del fallimento dell’aumento di capitale della banca, il Consiglio dei ministri si è riunito poco prima di mezzanotte del 22 Dicembre per un’ora e ha dato il via libera all’istituzionalizzazione di un fondo da 20 miliardi di euro, già approvato dal Parlamento. Il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan ha precisato che la prima banca a beneficiarne sarà Monte dei Paschi di Siena, ma “è pensato anche per altre situazioni” e ha aggiunto che “ciascuna banca che sia interessata dovrà fare domanda”. Soprattutto stupisce, se si è ancora in grado di farlo, il modo in cui si conclude la parte finale del testo della relazione presentata al Parlamento dalla presidenza del consiglio dedicata a “finalità del provvedimento e piano di rientro”:
“In relazione all’incertezza sulle modalità, sui tempi e sull’entità finanziaria dei provvedimenti da adottare, l’aggiornamento del quadro programmatico di finanza pubblica e il relativo piano di rientro potranno essere dettagliati con i prossimi documenti di programmazione tenuto conto delle misure che potranno essere effettivamente intraprese”. (Testo completo qui)
In pratica non si sa nulla di come si potranno spendere questi soldi e soprattutto non si sa come saranno restituiti. Ed è proprio su questo punto che le associazioni dei consumatori hanno incentrato la loro protesta. Il Codacons, si rivela subito molto aggressivo nei confronti del governo: “Ancora una volta si tenta di salvare gli istituti di credito ricorrendo ai soldi dei cittadini” così attacca il presidente Carlo Rienzi e continua: “I 20 miliardi di euro che il Governo vuole mettere sul tavolo per far fronte alla crisi delle banche avranno un impatto diretto sugli italiani: è come se ogni famiglia fosse costretta a versare 833 euro per salvare le banche in difficoltà”.
Incalzato dai media, Padoan ha dichiarato: " bisogna continuare con l'azione di controllo e di responsabilità nei confronti di manager che dovessero deviare da comportamenti ovviamente leciti”, dichiarazioni senza riscontri pratici dove continuare ironicamente e tristemente, risulta essere la parola chiave.
Incalzato dai media, Padoan ha dichiarato: “Bisogna continuare con l’azione di controllo e di responsabilità nei confronti di manager che dovessero deviare da comportamenti ovviamente leciti”, dichiarazioni senza riscontri pratici dove continuare ironicamente e tristemente, risulta essere la parola chiave
Inoltre la sfiducia nei confronti del Ministro dello Sviluppo Economico è arrivata alle stelle, i consumatori non credono ad una parola del Ministro Padoan secondo cui “gli impatti sui risparmiatori saranno minimizzati o resi inesistenti”, perché fino ad oggi gli unici soggetti che hanno pagato per la gestione scriteriata delle banche sono stati proprio i risparmiatori, attraverso il crollo delle azioni e l’azzeramento delle obbligazioni subordinate, con perdite complessive per miliardi di euro. Nessun riferimento ai manager che hanno ridotto Mps allo stato in cui si trova adesso, nessuna commissione d’inchiesta nei confronti del Cda della banca, insomma nessun responsabile, perlomeno formale.
La crisi delle banche continua ad esser pagata dai cittadini invece che dai manager degli istituti che hanno prodotto la disastrosa situazione attuale. E continua ad essere una proposta quasi ridicola quella di ricorrere al loro patrimonio personale per sanare il debito. Piuttosto avrebbe senso proporre la sanzione pecuniaria oltre che penale di certi atteggiamenti e certe condotte che risultano rischiose per gli azionisti. Chiaramente, come spesso succede il governo e il suo nuovo premier hanno saputo rivendere la notizia come un traguardo per i risparmiatori:
Gentiloni in conferenza stampa sul decreto Salvarisparmio
Politicamente si tratta dell’inaugurazione di un nuovo patto tra Pd e Forza Italia, le quali prerogative sembrano sempre più chiare agli occhi del pubblico: essere disposti a qualsiasi accordo pur di salvare le aziende del patron Silvio Berlusconi. Negli stessi giorni in cui, per trovare i soldi di Mps ci sono volute poche ore ed un solo Consiglio dei Ministri, sono altri due i fallimenti in ambito di politica economica che pesano come macigni sulle finanze e sul morale degli italiani.
Il primo è l’insuccesso dell’ultimo tentativo di mediazione avuto per la storica azienda romana operante dal 1983 Almaviva Contact; la società sarà costretta a chiudere una delle sue sedi e questo di fatto ha messo sulla strada 1666 dipendenti della sede romana. L’affare Almaviva va avanti da qualche mese ormai ed è recente la notizia rilanciata da Affaritaliani, secondo cui l’azienda in Italia chiude e licenzia mentre investe all’estero e nello specifico in Brasile con una linea di finanziamento da 6 milioni di euro concessa mesi fa da Simest, la partecipata pubblica e italianissima, votata alla internazionalizzazione all’estero delle imprese italiane. Questa operazione sembrerebbe di fatto un tentativo di delocalizzazione dell’azienda, confermando il trend di delocalizzazione avviato dalla maggioranza delle medie e grandi aziende italiane. I costi per le imprese e la pressione fiscale costringono gli investitori ad investire altrove e ad abbandonare l’Italia, mentre le politiche del Mise continuano a concentrarsi sul come trovare i fondi per salvare le banche in crisi. Il viceministro del Ministero dello Sviluppo Economico Teresa Bellanova che ha partecipato alla trattativa di fine dicembre con Almaviva e sindacati (dovesse scomodarsi il Ministro in persona) prontamente ha dato la colpa ai delegati dei sindacati che non sono stati in grado di gestire l’offerta proposta dal governo all’azienda di rinviare di altri tre mesi la fine della trattativa come era stato fatto per la sede di Napoli.
L’offerta del governo era però un semplice palliativo di fronte ad un’enorme discontento dei lavoratori che già da parecchi mesi si portano avanti questa situazione di incertezza lavorativa. Quando a fallire sono le banche, non è mai colpa dei manager che le hanno portate sul baratro, quando invece a fallire sono le aziende che danno lavoro, non ci sono manovre che tengano: licenziamento facile con colpe attribuite a caso e dipendenti mandati a casa tra natale e capodanno. È infatti inaccettabile che ancora una volta dopo i Monti bond, non si sappiano i nomi e i cognomi delle persone che hanno usufruito dei prestiti milionari che Mps ha concesso senza poi rivederne indietro i soldi. Tra le teste di serie dei debitori parrebbe esserci Carlo De Benedetti, che avrebbe usufruito di 600 milioni per la Sorgenia senza mai restituirli per poi farla fallire come l’Olivetti.
Ogni governo che si è susseguito dal 2011 in poi si è sempre dimostrato estremamente compiacente e comprensivo nei confronti dei fallimenti delle banche, nello specifico nel caso di Monte dei Paschi di Siena, offrendo contributi pagati dai cittadini per sanare il debito dell’istituto di credito. Questo atteggiamento compiacente non ha mai avuto una controparte che si occupasse di vigilare i manager e le pratiche che hanno portato al disastro bancario che abbiamo davanti. D’altra parte lo stesso Stato non manca di vigilare le piccole e medie imprese che danno lavoro, non risparmiandole dalle eventuali sanzioni che derivano dal mancato pagamento delle imposte e in generale della pressione fiscale pesantissima che sono costrette a subire. Due pesi e due misure in un sistema di aiuti/sanzioni che impostata così è difficilissima da sopportare, economicamente e moralmente.
A dimostrazione della pessima gestione, sempre tra panettone e cotechino, e sotto la completa disattenzione dei media, la corte di cassazione ha stabilito che d’ora in avanti sarà legittimo il licenziamento con il fine di aumentare i profitti. “Il motivo oggettivo di licenziamento determinato da ragioni inerenti all’attività produttiva, nel cui ambito rientra anche l’ipotesi di riassetto organizzativo per la più economica gestione dell’impresa, è rimesso alla valutazione del datore di lavoro, senza che il giudice possa sindacare la scelta dei criteri di gestione dell’impresa”. In sostanza Il licenziamento del manager può essere legittimo anche quando i conti dell’impresa sono buoni, la crisi non è all’orizzonte e non ci sono spese straordinarie da sostenere. Questa sentenza riporta indietro di 100 anni i diritti dei lavoratori, per cui già vedevano indebolite le proprie tutele a seguito del Jobs Act di Renzi con l’abolizione del principio di licenziamento per giusta causa nei nuovi contratti a tempo indeterminato.

martedì 3 gennaio 2017

Chi sono quelli che non restituiscono i prestiti al Mps?

Perché una banca può andare a rotoli? Perché i soldi che ha prestato non sono tornati indietro e sono diventati “sofferenze bancarie”, ossia crediti quasi inesigibili che probabilmente non rientreranno tutti o non rientreranno mai. Ma chi sono i furbetti che hanno preso i soldi in prestito dalla banca e poi non riescono o non intendono restituirli? E’ il sig. Mario che ha fatto un mutuo ma poi è stato licenziato e non riesce più a pagare le rate per la casa? Robetta!! E’ la sig.ra Maria che ha chiesto un prestito per pagare il rifacimento della facciata del palazzo e sta saltando le rate? Bazzecole!! A mettere in crisi le banche sono soggetti che somigliano molto ai banchieri e spesso ci vanno a cena insieme: i prenditori.
Una analisi dei debitori del Monte dei Paschi di Siena, porta alla luce tanti nomi della imprenditoria italiana ai quali la banca ha prestato soldi e che da tempo non sono rientrati.
Fra i clienti che non hanno rimborsato il Mps troviamo ad esempio la Sorgenia della famiglia De Benedetti che ha lasciato un buco di 600 milioni e poi Don Verzè fondatore del l’ospedale San Raffaele portato al dissesto con un buco di duecento milioni. Fino all’anno scorso, risulta poi una fidejussione di 8,3 milioni di Berlusconi a favore della ex cognata Antonella Costanza, prima moglie del fratello Paolo. La signora Costanza aveva acquistato, per nove milioni, una villa sfarzosa in Costa Azzurra e aveva dimenticato di pagarla. A Siena, però, conoscevano bene la famiglia Berlusconi e si fidavano. Erano stati i primi a credere nella capacità imprenditoriali di Silvio e non se n’erano certo pentiti.
Ma Mps opera anche attraverso altre banche come la Banca Agricola Mantovana in stretti rapporti d’affari con il gruppo Marcegaglia che ha accumulato un’esposizione verso la banca di 1,6 miliardi..
Insomma da un primo screening viene fuori che il 70% delle insolvenze è concentrato tra i clienti che hanno ottenuto finanziamenti superiori ai 500mila euro, dunque molto ma molto di più del sig. Mario o della sig.ra Maria. In totale si tratta di 9.300 posizioni debitorie in cui il tasso di insolvenza cresce all’aumentare del finanziamento. La percentuale maggiore dei cattivi pagatori (32,4%) si trova fra quanti hanno ottenuto più di tre milioni di euro. Si è scoperto poi che gran parte parte dei problemi nasce dopo l’acquisizione della bannca Antonveneta da parte del Mps. I prestiti concessi nel 2008 sono diventati sofferenza nel 2014.
Dunque la crisi del Mps, per la quale lo Stato ha trovato subito e stanziato 8 miliardi di euro, dipende soprattutto dalla stessa classe alla quale appartengono i banchieri. E’ questo il motivo per cui chi sostiene che anche questa volta ci troviamo di fronte ad una “socializzazione delle perdite e privatizzazione dei profitti”, ha ragioni da vendere. Una volta che si è deciso di intervenire con fondi pubblici, sarebbe meglio una nazionalizzazione della banca stessa, e non pre restituirla ai banditi di sempre dopo aver risanato i conti, ma per metterla a disposizione del paese e non dei soliti noti.

lunedì 2 gennaio 2017

La fabbrica delle illusioni

Obama esce di scena in maniera quasi infantile, come vendicatore della Clinton. Sanzioni alla Russia, ritenuta colpevole della vittoria di Trump su un'élite incapace di interpretare l'umore dell'opinione pubblica.
Rinnovo delle sanzioni all'Iran, colpevole di essere un Paese che non si piega agli Usa e di avere raggiunto in Siria un accordo di tregua con Mosca e Ankara.
Ha fatto poco, se non l'accordo sul nucleare con Teheran senza però dargli alcun seguito.
Sarà rimpianto solo se il successore farà peggio: in otto anni ai vertici dell'Ufficio Propaganda, lui ha soprattutto moltiplicato le illusioni. Buona fortuna