Ai tempi del suo indiscusso protagonismo,
sull’altalena dello spread ci si accalorava in ogni bar d’Italia
tanto quanto sul campionato di calcio. Eppure si trattava di un
argomento non privo di risvolti metafisici e di complicazioni tecniche.
Le riforme istituzionali non sembrano godere di altrettanto successo di pubblico. Non capita spesso in un autobus affollato o tra gli avventori di un caffè di cogliere appassionate discussioni sulle competenze del senato della repubblica o i premi di maggioranza. La spiegazione più ovvia e diffusa è che la vita quotidiana dei più impone preoccupazioni e urgenze assai diverse dal ridisegno delle architetture istituzionali.
Paradossalmente, tuttavia, il generale fastidio dei cittadini per questi temi finisce con l’entrare in consonanza proprio con quel decisionismo renziano che ne sancisce l’assoluta priorità. Come si spiega questa singolare combinazione?
In primo luogo l’insofferenza riguarda soprattutto il protrarsi di una discussione ritenuta del tutto irrilevante per le condizioni di vita imposte dalla crisi. Da cui consegue una naturale propensione per chi, pur avendo caparbiamente posto la questione, intenda tagliar corto e passare oltre. Anche se di questo “oltre” non si percepisce alcun indizio consolante. Su simili stati d’animo Renzi può senz’altro contare nonostante il fatto che buona parte degli “insofferenti” si tengono sempre più spesso e volentieri alla larga dalle urne.
All’attuale premier si deve riconoscere il fatto di avere preso sul serio più di chiunque altro la “crisi della rappresentanza” e il suo radicamento strutturale nell’economia liberista e nelle forme sociali che ne sono pervase. E di avere avviato una stagione politica che si propone il neanche tanto progressivo smantellamento della rappresentanza e del suo universo procedurale. Anche se, a onor del vero, molti si sono prodigati negli ultimi trent’anni ad aprirgli la strada e oggi trovi al suo fianco quella vecchia destra comunista che la democrazia l’ha sempre intesa come ordine e disciplina. Si perdono ormai nella notte dei tempi le prime allarmate denunce dell’eccessivo ricorso ai decreti legge in nome della craxiana “governabilità”.
La sinistra più tradizionale ha sempre fortemente sottovalutato il problema, ritenendo che quella crisi fosse dovuta a storture ed errori politici che potevano essere corretti. Non si contano gli appelli a «ritornare tra i cittadini e i loro problemi quotidiani», nonché le autocritiche di maniera della cosìddetta “casta”. Fatto sta che la sinistra si è illusa (e ha illuso) che la rappresentanza potesse essere ristabilita dalla “buona politica” senza tener conto del fatto che la composizione sociale su cui poggiava la democrazia rappresentativa del dopoguerra era ormai completamente sbaragliata. Pretendendo che la democrazia potesse essere salvaguardata, e addirittura estesa, senza toccare gli interessi dominanti (di cui oggi si nega perfino l’esistenza) e la sempre più evidente struttura oligarchica della società, la quale non avrebbe sopportato neanche il più pallido riflesso della tradizione socialdemocratica. Per non parlare del sistema fiscale più iniquo del mondo che strangola i ceti medi e medio-bassi, allargando a dismisura la forbice sociale. In queste condizioni era inevitabile che la retorica della rappresentanza venisse vissuta come lo strumento di autoconservazione di una classe politica meritevole di “rottamazione”. Matteo Renzi, forse più per istinto che per ragionamento politico, non solo ha preso sul serio la crisi della rappresentanza, ma la pratica e cerca di darle una forma che la porti a compimento, avendo buon gioco nell’indicare l’illusorietà di qualunque ipotesi di ritorno al passato. In questo è all’altezza dei tempi e in questo trova la sua forza.
Vi è tuttavia, nella sua politica, un elemento di debolezza altrettanto decisivo. Si imputa spesso al capo del Pd di essere un populista. Il termine viene usato frequentemente a sproposito. Ma generalmente con lo scopo di sottolineare l’enfasi posta sul rapporto diretto tra il leader e gli elettori (il cosìddetto “popolo sovrano”) sminuendo il ruolo delle istituzioni e della collegialità partitica; per indicare il ruolo decisivo del talento e delle strategie mediatiche, nonché la capacità demagogica di individuare quelle misure che con poca spesa, e ancor meno sostanza, possano garantire il massimo del consenso.
Anche il populismo storico e il fascismo (che pure non è interamente sovrapponibile al primo) si nutrivano di questi elementi. Tuttavia si trattava di espressioni politiche strettamente legate a un contesto di economia industriale e di modernizzazione dell’agricoltura e delle infrastrutture. Alla retorica nazionalpopolare e alla trasformazione autoritaria del sistema politico si accompagnavano imponenti realizzazioni di carattere materiale o sociale (bonifiche, colonie, industrie statali, edilizia, previdenza, per non dire del riarmo). Questa base materiale mancherebbe quasi interamente al cosìddetto populismo contemporaneo. Le proiezioni economiche e l’andamento di tutti gli indicatori lo escludono in maniera piuttosto netta. Gli scarni dati su una lieve flessione della disoccupazione e le discutibili misure “sviluppiste” promesse non sembrano capaci di incidere in nessun modo sulla tendenza alla stagnazione e all’impoverimento. Cosicché di “populismo” non sarebbe probabilmente il caso di parlare.
Tuttavia, abbandonando ogni riferimento improprio ai precedenti storici e riferendosi esclusivamente a quelle caratteristiche che molti ritengono accomunare Renzi a Berlusconi ci si potrebbe domandare se possa darsi una forma di “populismo” nel tempo del capitalismo finanziario e in cosa si distingua da quello cresciuto nel e col capitalismo industriale. Azzardiamo una risposta provvisoria: il “populismo”, nel senso restrittivo che abbiamo indicato, può darsi oggi nei termini di una “bolla speculativa”. Intendendo con questo un pacchetto “tossico” di promesse e di prospettive, di suggestioni e di esibizioni capace di rendersi credibile, appetibile e facilmente spendibile sul mercato politico, indipendentemente dai suoi contenuti materiali, qualora ve ne siano. Il che non significa affatto che si tratti di un fenomeno effimero che si sgonfierà lasciando le cose come le ha trovate. Non è così in economia e non è così in politica, come l’esperienza del ventennio berlusconiano ci ha dimostrato. Ed esattamente come accade nel capitalismo finanziario, l’esplosione di una bolla ne genera un’altra. Con caratteristiche diverse, ma con il medesimo scopo: l’accumulazione di denaro o l’accumulazione di potere.
Lasciando ogni volta sul terreno non poche vittime. Così quando la “bolla” renziana, del tutto priva di risorse, scoppierà sbattendo contro questo o quello spunzone, non vuol dire che lascerà spazio alla restaurazione di una rappresentanza che ha perso la sua base sociale. La difesa degli equilibri istituzionali del dopoguerra senza un programma politico che incida sulle condizioni di vita e i rapporti sociali, senza attenzione all’affermarsi di nuove soggettività che poco ne erano garantite, sconta un livello di astrazione eguale e contrario al decisionismo che si accinge a rottamarli sulla base di una mistificazione generazionale, senza sfiorare i rapporti di forze che si sono consolidati nel corso della crisi.
Le riforme istituzionali non sembrano godere di altrettanto successo di pubblico. Non capita spesso in un autobus affollato o tra gli avventori di un caffè di cogliere appassionate discussioni sulle competenze del senato della repubblica o i premi di maggioranza. La spiegazione più ovvia e diffusa è che la vita quotidiana dei più impone preoccupazioni e urgenze assai diverse dal ridisegno delle architetture istituzionali.
Paradossalmente, tuttavia, il generale fastidio dei cittadini per questi temi finisce con l’entrare in consonanza proprio con quel decisionismo renziano che ne sancisce l’assoluta priorità. Come si spiega questa singolare combinazione?
In primo luogo l’insofferenza riguarda soprattutto il protrarsi di una discussione ritenuta del tutto irrilevante per le condizioni di vita imposte dalla crisi. Da cui consegue una naturale propensione per chi, pur avendo caparbiamente posto la questione, intenda tagliar corto e passare oltre. Anche se di questo “oltre” non si percepisce alcun indizio consolante. Su simili stati d’animo Renzi può senz’altro contare nonostante il fatto che buona parte degli “insofferenti” si tengono sempre più spesso e volentieri alla larga dalle urne.
All’attuale premier si deve riconoscere il fatto di avere preso sul serio più di chiunque altro la “crisi della rappresentanza” e il suo radicamento strutturale nell’economia liberista e nelle forme sociali che ne sono pervase. E di avere avviato una stagione politica che si propone il neanche tanto progressivo smantellamento della rappresentanza e del suo universo procedurale. Anche se, a onor del vero, molti si sono prodigati negli ultimi trent’anni ad aprirgli la strada e oggi trovi al suo fianco quella vecchia destra comunista che la democrazia l’ha sempre intesa come ordine e disciplina. Si perdono ormai nella notte dei tempi le prime allarmate denunce dell’eccessivo ricorso ai decreti legge in nome della craxiana “governabilità”.
La sinistra più tradizionale ha sempre fortemente sottovalutato il problema, ritenendo che quella crisi fosse dovuta a storture ed errori politici che potevano essere corretti. Non si contano gli appelli a «ritornare tra i cittadini e i loro problemi quotidiani», nonché le autocritiche di maniera della cosìddetta “casta”. Fatto sta che la sinistra si è illusa (e ha illuso) che la rappresentanza potesse essere ristabilita dalla “buona politica” senza tener conto del fatto che la composizione sociale su cui poggiava la democrazia rappresentativa del dopoguerra era ormai completamente sbaragliata. Pretendendo che la democrazia potesse essere salvaguardata, e addirittura estesa, senza toccare gli interessi dominanti (di cui oggi si nega perfino l’esistenza) e la sempre più evidente struttura oligarchica della società, la quale non avrebbe sopportato neanche il più pallido riflesso della tradizione socialdemocratica. Per non parlare del sistema fiscale più iniquo del mondo che strangola i ceti medi e medio-bassi, allargando a dismisura la forbice sociale. In queste condizioni era inevitabile che la retorica della rappresentanza venisse vissuta come lo strumento di autoconservazione di una classe politica meritevole di “rottamazione”. Matteo Renzi, forse più per istinto che per ragionamento politico, non solo ha preso sul serio la crisi della rappresentanza, ma la pratica e cerca di darle una forma che la porti a compimento, avendo buon gioco nell’indicare l’illusorietà di qualunque ipotesi di ritorno al passato. In questo è all’altezza dei tempi e in questo trova la sua forza.
Vi è tuttavia, nella sua politica, un elemento di debolezza altrettanto decisivo. Si imputa spesso al capo del Pd di essere un populista. Il termine viene usato frequentemente a sproposito. Ma generalmente con lo scopo di sottolineare l’enfasi posta sul rapporto diretto tra il leader e gli elettori (il cosìddetto “popolo sovrano”) sminuendo il ruolo delle istituzioni e della collegialità partitica; per indicare il ruolo decisivo del talento e delle strategie mediatiche, nonché la capacità demagogica di individuare quelle misure che con poca spesa, e ancor meno sostanza, possano garantire il massimo del consenso.
Anche il populismo storico e il fascismo (che pure non è interamente sovrapponibile al primo) si nutrivano di questi elementi. Tuttavia si trattava di espressioni politiche strettamente legate a un contesto di economia industriale e di modernizzazione dell’agricoltura e delle infrastrutture. Alla retorica nazionalpopolare e alla trasformazione autoritaria del sistema politico si accompagnavano imponenti realizzazioni di carattere materiale o sociale (bonifiche, colonie, industrie statali, edilizia, previdenza, per non dire del riarmo). Questa base materiale mancherebbe quasi interamente al cosìddetto populismo contemporaneo. Le proiezioni economiche e l’andamento di tutti gli indicatori lo escludono in maniera piuttosto netta. Gli scarni dati su una lieve flessione della disoccupazione e le discutibili misure “sviluppiste” promesse non sembrano capaci di incidere in nessun modo sulla tendenza alla stagnazione e all’impoverimento. Cosicché di “populismo” non sarebbe probabilmente il caso di parlare.
Tuttavia, abbandonando ogni riferimento improprio ai precedenti storici e riferendosi esclusivamente a quelle caratteristiche che molti ritengono accomunare Renzi a Berlusconi ci si potrebbe domandare se possa darsi una forma di “populismo” nel tempo del capitalismo finanziario e in cosa si distingua da quello cresciuto nel e col capitalismo industriale. Azzardiamo una risposta provvisoria: il “populismo”, nel senso restrittivo che abbiamo indicato, può darsi oggi nei termini di una “bolla speculativa”. Intendendo con questo un pacchetto “tossico” di promesse e di prospettive, di suggestioni e di esibizioni capace di rendersi credibile, appetibile e facilmente spendibile sul mercato politico, indipendentemente dai suoi contenuti materiali, qualora ve ne siano. Il che non significa affatto che si tratti di un fenomeno effimero che si sgonfierà lasciando le cose come le ha trovate. Non è così in economia e non è così in politica, come l’esperienza del ventennio berlusconiano ci ha dimostrato. Ed esattamente come accade nel capitalismo finanziario, l’esplosione di una bolla ne genera un’altra. Con caratteristiche diverse, ma con il medesimo scopo: l’accumulazione di denaro o l’accumulazione di potere.
Lasciando ogni volta sul terreno non poche vittime. Così quando la “bolla” renziana, del tutto priva di risorse, scoppierà sbattendo contro questo o quello spunzone, non vuol dire che lascerà spazio alla restaurazione di una rappresentanza che ha perso la sua base sociale. La difesa degli equilibri istituzionali del dopoguerra senza un programma politico che incida sulle condizioni di vita e i rapporti sociali, senza attenzione all’affermarsi di nuove soggettività che poco ne erano garantite, sconta un livello di astrazione eguale e contrario al decisionismo che si accinge a rottamarli sulla base di una mistificazione generazionale, senza sfiorare i rapporti di forze che si sono consolidati nel corso della crisi.
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