martedì 5 agosto 2014

IL NUOVO POPULISMO DI RENZI

Ai tempi del suo indi­scusso pro­ta­go­ni­smo, sull’altalena dello spread ci si acca­lo­rava in ogni bar d’Italia tanto quanto sul cam­pio­nato di cal­cio. Eppure si trat­tava di un argo­mento non privo di risvolti meta­fi­sici e di com­pli­ca­zioni tecniche.
Le riforme isti­tu­zio­nali non sem­brano godere di altret­tanto suc­cesso di pub­blico. Non capita spesso in un auto­bus affol­lato o tra gli avven­tori di un caffè di cogliere appas­sio­nate discus­sioni sulle com­pe­tenze del senato della repub­blica o i premi di mag­gio­ranza. La spie­ga­zione più ovvia e dif­fusa è che la vita quo­ti­diana dei più impone pre­oc­cu­pa­zioni e urgenze assai diverse dal ridi­se­gno delle archi­tet­ture istituzionali.
Para­dos­sal­mente, tut­ta­via, il gene­rale fasti­dio dei cit­ta­dini per que­sti temi fini­sce con l’entrare in con­so­nanza pro­prio con quel deci­sio­ni­smo ren­ziano che ne san­ci­sce l’assoluta prio­rità. Come si spiega que­sta sin­go­lare combinazione?
In primo luogo l’insofferenza riguarda soprat­tutto il pro­trarsi di una discus­sione rite­nuta del tutto irri­le­vante per le con­di­zioni di vita impo­ste dalla crisi. Da cui con­se­gue una natu­rale pro­pen­sione per chi, pur avendo capar­bia­mente posto la que­stione, intenda tagliar corto e pas­sare oltre. Anche se di que­sto “oltre” non si per­ce­pi­sce alcun indi­zio con­so­lante. Su simili stati d’animo Renzi può senz’altro con­tare nono­stante il fatto che buona parte degli “insof­fe­renti” si ten­gono sem­pre più spesso e volen­tieri alla larga dalle urne.
All’attuale pre­mier si deve rico­no­scere il fatto di avere preso sul serio più di chiun­que altro la “crisi della rap­pre­sen­tanza” e il suo radi­ca­mento strut­tu­rale nell’economia libe­ri­sta e nelle forme sociali che ne sono per­vase. E di avere avviato una sta­gione poli­tica che si pro­pone il nean­che tanto pro­gres­sivo sman­tel­la­mento della rap­pre­sen­tanza e del suo uni­verso pro­ce­du­rale. Anche se, a onor del vero, molti si sono pro­di­gati negli ultimi trent’anni ad aprir­gli la strada e oggi trovi al suo fianco quella vec­chia destra comu­ni­sta che la demo­cra­zia l’ha sem­pre intesa come ordine e disci­plina. Si per­dono ormai nella notte dei tempi le prime allar­mate denunce dell’eccessivo ricorso ai decreti legge in nome della cra­xiana “governabilità”.
La sini­stra più tra­di­zio­nale ha sem­pre for­te­mente sot­to­va­lu­tato il pro­blema, rite­nendo che quella crisi fosse dovuta a stor­ture ed errori poli­tici che pote­vano essere cor­retti. Non si con­tano gli appelli a «ritor­nare tra i cit­ta­dini e i loro pro­blemi quo­ti­diani», non­ché le auto­cri­ti­che di maniera della cosìd­detta “casta”. Fatto sta che la sini­stra si è illusa (e ha illuso) che la rap­pre­sen­tanza potesse essere rista­bi­lita dalla “buona poli­tica” senza tener conto del fatto che la com­po­si­zione sociale su cui pog­giava la demo­cra­zia rap­pre­sen­ta­tiva del dopo­guerra era ormai com­ple­ta­mente sba­ra­gliata. Pre­ten­dendo che la demo­cra­zia potesse essere sal­va­guar­data, e addi­rit­tura estesa, senza toc­care gli inte­ressi domi­nanti (di cui oggi si nega per­fino l’esistenza) e la sem­pre più evi­dente strut­tura oli­gar­chica della società, la quale non avrebbe sop­por­tato nean­che il più pal­lido riflesso della tra­di­zione social­de­mo­cra­tica. Per non par­lare del sistema fiscale più ini­quo del mondo che stran­gola i ceti medi e medio-bassi, allar­gando a dismi­sura la for­bice sociale. In que­ste con­di­zioni era ine­vi­ta­bile che la reto­rica della rap­pre­sen­tanza venisse vis­suta come lo stru­mento di auto­con­ser­va­zione di una classe poli­tica meri­te­vole di “rot­ta­ma­zione”. Mat­teo Renzi, forse più per istinto che per ragio­na­mento poli­tico, non solo ha preso sul serio la crisi della rap­pre­sen­tanza, ma la pra­tica e cerca di darle una forma che la porti a com­pi­mento, avendo buon gioco nell’indicare l’illusorietà di qua­lun­que ipo­tesi di ritorno al pas­sato. In que­sto è all’altezza dei tempi e in que­sto trova la sua forza.
Vi è tut­ta­via, nella sua poli­tica, un ele­mento di debo­lezza altret­tanto deci­sivo. Si imputa spesso al capo del Pd di essere un popu­li­sta. Il ter­mine viene usato fre­quen­te­mente a spro­po­sito. Ma gene­ral­mente con lo scopo di sot­to­li­neare l’enfasi posta sul rap­porto diretto tra il lea­der e gli elet­tori (il cosìd­detto “popolo sovrano”) smi­nuendo il ruolo delle isti­tu­zioni e della col­le­gia­lità par­ti­tica; per indi­care il ruolo deci­sivo del talento e delle stra­te­gie media­ti­che, non­ché la capa­cità dema­go­gica di indi­vi­duare quelle misure che con poca spesa, e ancor meno sostanza, pos­sano garan­tire il mas­simo del consenso.
Anche il popu­li­smo sto­rico e il fasci­smo (che pure non è inte­ra­mente sovrap­po­ni­bile al primo) si nutri­vano di que­sti ele­menti. Tut­ta­via si trat­tava di espres­sioni poli­ti­che stret­ta­mente legate a un con­te­sto di eco­no­mia indu­striale e di moder­niz­za­zione dell’agricoltura e delle infra­strut­ture. Alla reto­rica nazio­nal­po­po­lare e alla tra­sfor­ma­zione auto­ri­ta­ria del sistema poli­tico si accom­pa­gna­vano impo­nenti rea­liz­za­zioni di carat­tere mate­riale o sociale (boni­fi­che, colo­nie, indu­strie sta­tali, edi­li­zia, pre­vi­denza, per non dire del riarmo). Que­sta base mate­riale man­che­rebbe quasi inte­ra­mente al cosìd­detto popu­li­smo con­tem­po­ra­neo. Le pro­ie­zioni eco­no­mi­che e l’andamento di tutti gli indi­ca­tori lo esclu­dono in maniera piut­to­sto netta. Gli scarni dati su una lieve fles­sione della disoc­cu­pa­zione e le discu­ti­bili misure “svi­lup­pi­ste” pro­messe non sem­brano capaci di inci­dere in nes­sun modo sulla ten­denza alla sta­gna­zione e all’impoverimento. Cosic­ché di “popu­li­smo” non sarebbe pro­ba­bil­mente il caso di parlare.
Tut­ta­via, abban­do­nando ogni rife­ri­mento impro­prio ai pre­ce­denti sto­rici e rife­ren­dosi esclu­si­va­mente a quelle carat­te­ri­sti­che che molti riten­gono acco­mu­nare Renzi a Ber­lu­sconi ci si potrebbe doman­dare se possa darsi una forma di “popu­li­smo” nel tempo del capi­ta­li­smo finan­zia­rio e in cosa si distin­gua da quello cre­sciuto nel e col capi­ta­li­smo indu­striale. Azzar­diamo una rispo­sta prov­vi­so­ria: il “popu­li­smo”, nel senso restrit­tivo che abbiamo indi­cato, può darsi oggi nei ter­mini di una “bolla spe­cu­la­tiva”. Inten­dendo con que­sto un pac­chetto “tos­sico” di pro­messe e di pro­spet­tive, di sug­ge­stioni e di esi­bi­zioni capace di ren­dersi cre­di­bile, appe­ti­bile e facil­mente spen­di­bile sul mer­cato poli­tico, indi­pen­den­te­mente dai suoi con­te­nuti mate­riali, qua­lora ve ne siano. Il che non signi­fica affatto che si tratti di un feno­meno effi­mero che si sgon­fierà lasciando le cose come le ha tro­vate. Non è così in eco­no­mia e non è così in poli­tica, come l’esperienza del ven­ten­nio ber­lu­sco­niano ci ha dimo­strato. Ed esat­ta­mente come accade nel capi­ta­li­smo finan­zia­rio, l’esplosione di una bolla ne genera un’altra. Con carat­te­ri­sti­che diverse, ma con il mede­simo scopo: l’accumulazione di denaro o l’accumulazione di potere.
Lasciando ogni volta sul ter­reno non poche vit­time. Così quando la “bolla” ren­ziana, del tutto priva di risorse, scop­pierà sbat­tendo con­tro que­sto o quello spun­zone, non vuol dire che lascerà spa­zio alla restau­ra­zione di una rap­pre­sen­tanza che ha perso la sua base sociale. La difesa degli equi­li­bri isti­tu­zio­nali del dopo­guerra senza un pro­gramma poli­tico che incida sulle con­di­zioni di vita e i rap­porti sociali, senza atten­zione all’affermarsi di nuove sog­get­ti­vità che poco ne erano garan­tite, sconta un livello di astra­zione eguale e con­tra­rio al deci­sio­ni­smo che si accinge a rot­ta­marli sulla base di una misti­fi­ca­zione gene­ra­zio­nale, senza sfio­rare i rap­porti di forze che si sono con­so­li­dati nel corso della crisi.

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