Ci sono due linee di riforme “indispensabili
per la crescita”. Linee convergenti. Pericolosamente. La prima linea è
istituzionale-strutturale e sta producendo: svuotamento dei poteri e
dell’autonomia degli Stati nazionali parlamentari; concentrazione dei
poteri politici in organismi sovrannazionali; isolamento tecnocratico
degli organismi decidenti; soprattutto, indipendenza e gestione
autoreferenziale delle banche centrali e della politica monetaria;
riduzione della partecipazione e dell’influenza democratiche sugli
organismi decidenti; riduzione della trasparenza, della responsabilità,
della controllabilità degli organismi decidenti; riduzione della
conoscibilità dei loro obiettivi di medio e lungo termine e degli
effetti di medio e lungo termine delle loro decisioni. Queste
caratteristiche (votate da quasi tutto il Parlamento, perché comportano
la blindatura della partitocrazia contro la società civile) sono
marcatamente proprie soprattutto dell’Ue: quasi tutto il potere, e tutto
il potere legislativo, sono in mano ad organismi non elettivi, non
responsabili, non trasparenti, burocratici, intergovernativi.
L’unico organo elettivo, cioè il Parlamento, ha poteri limitati, che
preferisce non esercitare (non ha mai costretto la Commissione a un
rendiconto), e la Matteo Renzisua natura di cagnolino da passeggio è
stata evidenziata da come è stato fatto votare il nuovo presidente
dell’Ue: era ammesso un solo candidato – Juncker – e il voto era
segreto. Per giunta, nessun elettore europeo, prima di votare, aveva
saputo che sarebbe stato Juncker il candidato unico alla presidenza.
Nessuna meraviglia se le medesime caratteristiche le ritroviamo anche
nella urgente e irresistibile marcia delle riforme istituzionali di
Renzi: queste riforme, appunto, diminuiscono la partecipazione e
l’influenza degli elettori, ostacolano i referendum, danno al premier i
poteri sia politico-legislativi, che di controllo (su se stesso) anche
solo con un 22% dei consensi. Nessuna meraviglia: è chiaro che l’Italia e
la sua Costituzione devono essere riformate in questo senso per
integrarsi nella struttura autocratica dell’Ue.
La seconda
linea di riforme, iniziata alla fine degli anni ’70, è quella
economico-finanziaria, e punta essenzialmente a difendere e tutelare gli
interessi dei creditori finanziari con sacrificio degli altri interessi
sociali: il modello di sviluppo keynesiano, caratterizzato dallo Stato
che corregge il mercato e fa investimenti anticiclici per evitare la
recessione e assicurare l’occupazione, al prezzo di una costante,
fisiologica inflazione, viene sostituito con un modello da alcuni
ritenuto hayekiano, ma che tale non è perché Friedrich Von Hayek voleva
non solo il libero mercato come unico regolatore dell’economia, ma anche
uno Stato che tenga il mercato libero dai monopoli e che si astenga
dall’assistenzialismo sociale e imprenditoriale. Il modello
economico-finanziario imposto all’Ue fa per contro tutto questo, Von
Hayekanzi in esso i grandi monopoli bancario-finanziari dettano la
politica degli Stati e dell’Unione.
Il detto modello raggiunge
lo scopo della tutela degli interessi dei creditori-finanziari mediante
alcuni principali strumenti: indipendenza-irresponsabilità delle banche
centrali dai parlamenti, vincoli di bilancio pubblico (proibizione della
spesa pubblica antirecessiva), stretta monetaria, compressione
salariale (e della domanda interna) per assicurare un pareggio o un
surplus della bilancia estera, socializzazione delle perdite delle
banche. Quando la politica economica è affidata ai banchieri centrali,
che, per statuto, deliberano e operano non solo in autonomia ma nella
segretezza e nella irresponsabilità, la democrazia rappresentativa è
finita, il consenso popolare è superato. Il risultato – prevedibile e
inevitabile perché facente parte degli obiettivi – è la deflazione, la
disoccupazione, l’avvitamento fiscale, la recessione o stagnazione – che
ora si prospetta pure per la Germania.
La Costituzione
italiana del 1948 è, per contro, esplicitamente keynesiana: l’articolo 1
fonda la Repubblica sul lavoro, non sul capitale, e numerose altre
norme riconoscono al lavoro (all’occupazione, alla produzione, agli
investimenti) il primato assoluto e la funzione di perequazione
sostanziale tra i cittadini; quindi essa è in opposizione radicale e
inconciliabile col modello politico-economico costitutivo dell’Ue e
della Bce, che si basa sulla priorità alla prevenzione dell’inflazione
(primaria minaccia per le rendite finanziarie), e per prevenirla impone
l’austerità, cioè innanzitutto l’astensione dagli investimenti pubblici
anticiclici per uscire dalla recessione – sicché la recessione perdura,
diviene strutturale e non accidentale. La storia della cosiddetta
integrazione europea è in realtà la storia della sostituzione di un
modello socio-economico-istituzionale con un modello opposto, ossia dei
valori sociali e produttivi, fondanti per la democrazia elettiva e la
legittimità costituzionale, col loro contrario: parassitismo finanziario
e autocrazia.
E’ la storia di un’inversione non dichiarata,
che è avanzata di soppiatto, sotto il camuffamento di ideali sbandierati
e mai attuati di solidarietà integrazione dei popoli, identità comune,
di promesso sviluppo che non arriva mai. Un’inversione di cui oramai
sentiamo fortemente gli effetti pratici, anche se molti di noi non sanno
da che cosa provengano, e pensano che le cause siano la corruzione o
l’evasione o l’articolo 18. In Italia, oltre a queste piaghe, le due
linee di riforme di cui Napolitano, Monti, Letta e Renzi sono paladini e
artefici (soprattutto Napolitano, che, per imporla e accelerarla,
deborda continuamente dalla sua funzione di garante e arbitro per
intervenire nella politica dei partiti) sul piano economico sta
producendo un continuo e rapido aumento del debito pubblico – cioè
l’opposto di ciò che promette – e l’emigrazione di capitali, imprese e
cervelli, con la deindustrializzazione del Letta e Montipaese e la moria
delle sue aziende (dirò poi perché queste loro azioni non vanno
condannate, nemmeno moralmente).
La direzione, la finalità
autocratica, essenzialmente dittatoriale, a cui mira la prima linea di
riforme, cioè quelle istituzionali, spiega chiaramente la ragione per la
quale, paradossalmente, ci si ostina a portare avanti la seconda linea
di riforme, cioè quella economico-finanziaria, sebbene stia producendo
effetti rovinosi e contrari a quelli che dovrebbe produrre, tra la
sofferenza di milioni di persone: le due linee di riforme convergono in
un’operazione di ingegneria sociale, di costruzione di una società
radicalmente e apertamente oligarchica che comandi incontrastata le
popolazioni fiaccate e rassegnate da molti anni di frustrazioni e
insicurezze, e impoverite di redditi, risparmi, diritti civili, sociali,
politici. Il modello economico in via di imposizione, con le sue
riforme, non importa se produce recessione o stagnazione; il suo scopo
reale e non detto non è la crescita, ma una riforma dell’ordinamento
sociale e giuridico che assicuri il dominio sulla popolazione generale,
la possibilità di sfruttarla senza limiti, l’estrazione da essa di
rendite certe per il capitale finanziario anche in periodi di
contrazione del Pil, e il tutto in modo formalmente legittimo. A questo
servono le riforme. E le privatizzazioni, che ieri Padoan ha ripromesso,
parlando in Cina, che verranno eseguite. Quindi è assurdo ciò che
promette Renzi, ossia che queste riforme strutturali rilancerebbero
l’economia. Possono solo rilanciare l’affarismo spartitorio e screditare
ulteriormente il settore pubblico – e questo credo sia il vero
obiettivo.
Attualmente in Italia abbiamo un programma di tagli
alla spesa pubblica, una pressione fiscale che non può calare anche a
causa dei 40 miliardi all’anno di riduzione del debito pubblico che il
governo dovrà fare in esecuzione del Fiscal Compact, un reddito e una
capacità di spesa in picchiata anche a causa dell’alta disoccupazione e
maloccupazione, soprattutto giovanili; inoltre le banche stanno
riducendo il credito alle imprese e alle famiglie e tengono altissimi i
tassi: sanno che gli aspiranti mutuatari, data la mancanza di continuità
del loro reddito, non avranno i mezzi per ripagare i prestiti, quindi
logicamente non erogano prestiti, se non raramente e con spread
altissimi, al decuplo dell’Euribor, per compensare il rischio – dicono.
Quindi oggettivamente non ci sono le condizioni per un’uscita dalla
depressione economica. Anzi, è in corso un avvitamento recessivo, che
determinerebbe rendimenti altissimi sul debito pubblico, senonché
qualcuno – la Bce e/o la Fed – comprando sul mercato secondario, e
distorcendo il mercato, li tiene artificialmente bassi – come fa ancora
più vistosamente con le nuove emissioni del debito pubblico greco.
Alla luce di quanto sopra detto, possiamo tranquillamente concludere
che, quando un leader comunitario, soprattutto un leader italiano,
promette crescita o impegno per la crescita, promette la sospirata
flessibilità, promette che l’Ue porta allo sviluppo – quando promette
queste cose, e insieme dice che “le regole europee”, “il risanamento”,
“il rigore di bilancio” saranno rispettati, mente sapendo di mentire,
mente per imbonire la gente: il modello che viene implementato
attraverso l’Ue e l’Italia in particolare non vuole crescita, lavoro,
sicurezza, rilancio produttivo, ma stagnazione. Come non vuole
partecipazione popolare né diritti sociali. Al massimo sono ammessi
interventi di riduzione del disagio sociale per prevenire che evolva in
sommossa, o sussidii a categorie sociali realizzati a spese di altre
categorie sociali (come gli 80 euro di Renzi), in una logica di divide
et impera. Logica peraltro applicata anche tra gli Stati membri:
consentire ad alcuni (Germania e soci) un relativo (e provvisorio)
sviluppo a spese degli altri, onde avere il loro appoggio per completare
l’opera di inversione costituzionale. Che si appalesa, oramai, come
un’opera eversiva. E quando ci dicono “fare le riforme istituzionali è
condizione per ottenere flessibilità di bilancio dall’Europa”, il
significato è: “se non ci lasciate riformare la Costituzione per
Napolitanorealizzare l’autocrazia che vuole la grande finanza, la grande
finanza vi lascia senza soldi”.
Diversamente da altri, io non
biasimo moralmente i progettisti e gli autori di quanto sopra. Non dico
che sono criminali perché sacrificano il 99% della popolazione agli
interessi dell’1%. Infatti, il loro modello socioeconomico
deflativo-parassitario-autocratico è più adeguato a ciò che i popoli
sono, al loro effettivo livello mentale e di consapevolezza, che non è
molto diverso da quello del bestiame, come dimostra la bovina docilità
con cui si lasciano “riformare”. Il modello democratico, e anche il
modello (post)keynesiano, presuppongono che l’uomo mediano e il popolo
siano qualcosa che in realtà non sono affatto, quindi semplicemente non
possono funzionare. Il modello socioeconomico deflativo ha, inoltre, il
vantaggio di riuscire a imporre coercitivamente e dall’alto, di fronte
al raggiungimento dei limiti fisici dello sviluppo e alla necessità di
ripiegare, la necessaria decrescita ecologica dei consumi e della stessa
popolazione, che in regime di democrazie nazionali non si potrebbe
ottenere.