“Vi potrei dire che le tasse le tagliamo dal primo maggio, perché dire il primo aprile sembrava un pesce d’aprile. “Però vi dico la verità: ’Non ja famo”. Un Matteo Renzi, istrionico, energico e di sfondamento risponde così a chi in conferenza stampa gli chiede perché non taglia l’Irpef dal
primo aprile, come aveva annunciato. “Volevo farlo, ma sono stato
respinto con perdite. Non ci sono i tempi tecnici, bisogna modificare le
buste paga”. E però: “Sono 20 anni che si annuncia di abbassare le tasse,
uno le abbassa e fateci pure le pulci…”. Al di là delle pulci, il
problema è (elettoralmente) serio e il presidente del Consiglio lo sa
benissimo. Mille euro in più all’anno in busta paga per
10 milioni di lavoratori sono un annuncio a effetto, una promessa
mirabolante. E anche una misura evidentemente portatrice di voti e di
consensi. E cosa cambia dal primo aprile al primo maggio? Che il 25
maggio ci sono le europee, il primo vero test
elettorale del premier-segretario. Che si gioca tutto: se va bene, è
ossigeno per il governo e per il suo futuro. Se no, è l’inizio della
fine. Per essere una vittoria il Pd deve prendere dal 30 per cento in su
(Bersani alle politiche arrivò al 25,4%, guai ad andare sotto). Gli
stipendi arrivano al 27 del mese: dunque, primo maggio significa in
realtà 27, come ammette lo stesso Matteo. “A chi ha dubbi suggerisco di
aspettare il 27 maggio per vedere santommasianamente se i denari ci
sono”. Non a caso mentre ieri Renzi lavorava sui dossier economici, Lorenzo Guerini, il portavoce della segreteria (in questo momento il segretario in pectore)
stava al Nazareno a lavorare sul Pd: prima di tutto, proprio le liste
per le europee. E poi, questioni locali, in generale gestione del potere
renziano.
Renzi in conferenza stampa recupera la sua forza persuasiva. Però
viene da 24 ore difficili. La cabina di regia a Palazzo Chigi è stata sveglia tutta la notte tra martedì e mercoledì. Motivo, proprio
la ricerca delle coperture per il taglio dell’Irpef. Renzi ha
insistito, si è arrabbiato, ha spinto per riuscire a portare a casa la
misura nella data desiderata. Ma la struttura del ministero
dell’Economia, la ragioneria di Stato, gli ha detto di no. Non si fa in
tempo, punto e basta. In preda al nervosismo, martedì sera lo stesso
premier rilasciava interviste a tutto spiano per dire che lui i soldi ce
li ha. Pure la mattinata di ieri non è stata delle più rilassate: sul
voto finale alla legge elettorale temeva di andare sotto e mandava
messaggi per tutto il dibattito ai fedelissimi. L’Aula stavolta non l’ha
tradito. Subito un tweet: “Grazie alle deputate e ai deputati. Hanno
dimostrato che possiamo davvero cambiare l’Italia. Politica
1~Disfattismo 0. Questa è #laSvoltabuona”. In serata la rivendicazione:
“A dispetto dei gufi l’Italicum è passato con 200 voti di scarto”. Ed è “una rivoluzione per l’Italia”.
Il Pd gli ha messo i bastoni tra le ruote, l’ha fatto penare,
annuncia battaglia a Palazzo Madama? Renzi alza il tiro. E butta lì la
promessa/minaccia: “Se non passa la fine del bicameralismo perfetto non
finisce solo il governo, ma considero chiusa la mia esperienza
politica”. Insomma, o me o il Senato. Come i perfetti giocatori di
poker, ancora una volta il presidente del Consiglio la mette giù
durissima: si fa come dico lui. “Io ascolto tutti, ma siamo noi che
decidiamo”. Per adesso la riforma del Senato è una bozza. Nei prossimi
15 giorni verrà sottoposta a tutti, poi diventerà un disegno di legge.
Anche qui, guai in arrivo: Renzi si dovrà sedere al tavolo con tutti,
con i gruppi di maggioranza, ma anche con Fi. Forse di nuovo con lo
stesso Berlusconi: nel patto del Nazareno fu siglato nel dettaglio
l’accordo sulla legge elettorale. Adesso bisognerà fare lo stesso con il
Senato. Sempre più difficile. Ma la specialità di Renzi è proprio
spingere le situazioni fino al punto di rottura, arrivare fino al ciglio
del burrone.
Raccontano che ieri in Cdm c’è stata qualche alzata di ciglia. E che Padoan ha
fatto qualche puntualizzazione sulle coperture. Ma alla fine Renzi ha
strappato l’approvazione politica al suo piano (si è fatto votare la sua
relazione, un inedito). E ha persino incassato qualche apertura
inaspettata. Come la nemica Camusso che plaude al
taglio delle tasse sul lavoro. E si scambia di ruolo con Landini, che
avverte: “I sindacati vanno ascoltati”. Per dirla con Del Rio: “Una
rivoluzione”. E gli altri ministri? “Uniti nella lotta”. Nel suo
mercoledì, Il leone non ha dato la zampata, ma il ruggito s’è sentito
forte e chiaro.
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