L’Europa non sopporta più l’UnioneEuropea. Il voto amministrativo francese ha solo anticipato la valanga di maggio, quando si voterà per il
rinnovo del cosiddetto “Parlamento europeo”. Ovvero per un organismo
senza poteri effettivi, men che meno quello che qualifica un qualsiasi
Parlamento in regime liberale: il potere legislativo. Se non fa le leggi, d’altro canto, a cosa altro serve un “parlamento”?
Non si tratta di un dettaglio, perché rivela in un solo ossimoro la
natura reale del processo di costruzione del “sovra-Stato” chiamato
Unione Europea, già a suo tempo sintetizzata da Tommaso Padoa Schioppa
come frutto di un “dispotismo illuminato” in azione da 30 anni.
Naturalmente, l’annunciata valanga “euroscettica” ha ben poco a che
vedere con il furto di democrazia incarnato dalla Ue e molto con le
politiche di austerità imposte al Continente da sei anni a questa parte.
La protesta, vogliamo dire, nasce dal profondo del malessere sociale
ingigantito dalla crisi economica e si rivolge in forme purtroppo molto
deformate, sconclusionate, razziste contro un
nemico che è comunque vero.
Quello che individua la gabbia da infrangere nell’”euro”, prima che
nell’Unione, è per molti versi un processo oggettivo, ma acefalo. Si
vede il coltello che taglia, non la mano che l’impugna, tantomeno il
cervello che ha deciso l’azione. Una moneta funziona se rappresenta un
potere, altrimenti non ha funzione di scambio. È la vecchia storia del
dito e la luna, ma la madre dei cretini è sempre incinta…
Se non si capisce la contraddizione in cui siamo schiacciati, verremo
schiacciati certamente. E la contraddizione non è quella – idologica e
rassicurante – tra “europeisti” e “anti-europeisti”, né quella tra
“sovranisti” e “comunitari” o peggio ancora tra “nazionalisti” e
“internazionalisti”. Non stiamo parlando infatti di una battaglia che
avviene nel cielo delle idee.
La contraddizione principale passa attraverso gli uomini e le classi, colpisce braccia e gambe e teste. Passa tra un processo di ristrutturazione fermamente governato dal capitale finanziario-manifatturiero multinazionale e la svalutazione generalizzata del lavoro;
e si manifesta in abbassamento dei salari, precarietà, tagli al welfare
(sanità, pensioni, istruzione, servizi pubblici), disoccupazione,
sfratti.
Una contraddizione che si traduce insomma in compressione violenta
dei consumi complessivi e quindi anche nell’impoverimento delle ex
“classi medie”; quelle che sognano, come sempre, di tornare alla (loro)
“età dell’oro”. E che quindi alimentano farfugliamenti – questi sì –
nazionalisti, sovranisti, razzisti e xenofobi; e provano su questa base a
prendere la guida della protesta.
Il primo tentativo – “brancaleonico” – è stato fatto con i “forconi”.
I prossimi saranno più professionali, probabilmente…La pentola rischia di esplodere. Mario Draghi lo ha persino ammesso, due giorni fa: È stato devastante intervenire sul problema del debito greco
imponendo perdite ingenti al settore privato (G20 di Deauville, maggio
2011) senza aver prima risanato i bilanci delle banche e senza aver
ancora organizzato un credibile fondo di sostegno al debito sovrano dei
paesi in difficoltà. La sequenza corretta avrebbe dovuto essere
esattamente opposta a quella intrapresa.
Le figure apicali della borghesia multinazionale sanno benissimo il
rischio che corrono: a forza di predicare il verbo dell’austerità e la
legge dello spread stanno creando un deserto sociale, in cui
gli unici soggetti che possono crescere solo quelli che “devono”
affossarle. Per sopravvivere dentro questo sistema o per rovesciare “il
sistema”.
Destra e sinistra, reazione conservatrice e rivoluzione popolare
hanno questo campo davanti. Ma è un campo di battaglia, dove si compete
per l’egemonia sociale, non “un discorso trasversale” dove ognuno trova
il suo orticello. Tanto i fascisti, come in Ucraina e Ungheria, sono
soltanto giannizzeri prezzolati, utilizzabili brevi manu, riassorbibili senza sforzo.
Lo hanno capito perfettamente i manipolatori dell’informazione
mainstream, i creativi del “linguaggio” da imporre, gli innovatori degli
immaginari collettivi: fascisti e nazisti – evidenti fino
all’ostentazione in Ucraina e Ungheria, compassati e “perbene” nella
vandea lepenista o leghista – sono “riqualificati”, rinominati,
riassorbiti nella parola-totem populisti. E così anche quegli audaci che, sul fronte diametralmente opposto, indicano nell’Unione Europea (nella forma statuale, non nello “spazio geografico”) l’esoscheletro violento – e non riformabile – della classe dominante. Che va individuato come nemico assoluto, oggi, perseguendone la rottura.
Il conflitto sociale si muove dentro questa cornice totalizzante. E
non caveranno un ragno dal buco quei soggetti convinti di poter avanzare
semplicemente “condividendo un metodo” anziché un punto di vista all’altezza della sfida, dell’avversario, della posta in gioco.
Anche per questo, in Italia, ancora non si è riusciti ad unificare in
un solo movimento di massa – come appena avvenuto in Spagna – la spinta
conflittuale dei mille momenti di lotta (sindacale, territoriale,
sociale, politica) che pure agitano lo smorto panorama di questo paese.
Per questo, di conseguenza, lo “smorto panorama” resta tale.