Venerdì
5 luglio, grazie alla mediazione dell’Unione Africana e dell’Etiopia, è
stato raggiunto un accordo tra i membri del Consiglio Militare
Transitorio (TMC) e le forze della Dichiarazione della Libertà e del
Cambiamento (DFC).
Le
trattative, iniziate l’11 aprile dopo il defenestramento di Omar
Al-Bashir – deposto da un colpo di stato militare sulla spinta delle
mobilitazioni popolari che duravano da Dicembre – si erano arenate più
volte, fino alla rottura dovuta allo sgombero, il 3 giugno, del sit-in
che durava ininterrottamente dal 6 aprile, di fronte al Quartier
Generale dell’Esercito.
Prima
di allora era stato raggiunto un accordo complessivo sulla
configurazione di quelli che sarebbero stati gli organismi di governo
della “transizione”, dopo la trentennale dittatura instaurata con un
colpo di stato nell’ ’89, tranne che per il tassello più importante: la
composizione del “Consiglio Sovrano”.
L’accordo
attuale prevede che il periodo di transizione duri tre anni e tre mesi,
in cui in primi sei mesi verranno impiegati per un processo di pace che
ponga fine ai vari conflitti armati di carattere regionale che
interessano il martoriato paese africano.
I primi ventun mesi della transizione (tra cui i primi sei) saranno diretti dai militari, mentre i diciotto restanti dai civili.
La
cabina delle “competenze nazionali” sarà formata dalla DFC, mentre il
“Consiglio Sovrano”, precedente pomo della discordia – i militari
volevano una maggioranza militare, al contrario della DFC – sarà
composto da cinque civili e cinque militari, più un membro scelto da
entrambe le parti.
Il
Consiglio legislativo – in cui almeno il 40% dovrà essere composto da
donne, come prevedeva l’accordo precedente – sarà posticipato alla
creazione del “Consiglio Sovrano” e dal “Consiglio dei Ministri”.
Un “Comitato Tecnico” misto composto da giuristi è stato formato con la partecipazione africana. “I suoi lavori”, dichiarano la DFC e la SPA (l’organizzazione che raggruppa i settori sociali dell’opposizione e perno delle mobilitazioni), “saranno finalizzati entro due giorni a partire da sabato” per il raggiungimento di un accordo politico.
Ultimo
punto è la creazione di una commissione investigativa indipendente che
dovrà fare luce su quanto accaduto dopo l’11 aprile.
I
protagonisti delle mobilitazioni che hanno portato prima al
defenestramento di Al-Bashir, poi al proseguimento del movimento fino
alla piena realizzazione dei suoi obiettivi, e poi in una terza fase a
rendere “inoperante” il golpe della TMC, chiamano a continuare la
mobilitazioni sotto altre forme per accrescere la coscienza
dell’importanza dei passaggi effettivi verso una realizzazioni degli
accordi; facendo appello a quelli che sono gli organismi di base (come i
comitati di quartiere) che hanno condotto la protesta in condizioni
difficilissime, come la repressione della TMC che di fatto assediava le
città con le RSF dopo lo sgombero del QG a Khartoum (gli ex “janjaweed” integrati durante la dittatura negli apparati di sicurezza) ed il blackout della rete teso ad isolare le comunicazioni.
Numerose
sono le immagini, i filmati e le testimonianze che sembrano affermare
la “tenuta” della mobilitazione che, come hanno dimostrato anche le
settimane successive al 3 giugno, è pronta a trasformarsi, in caso di
necessità, in “disobbedienza civile totale”, “sciopero generale
politico” e “manifestazioni notturne”.
Se
la situazione sudanese è ancora piena di incognite, occorre comunque
comprendere come per la terza volta nella storia del paese africano,
dall’indipendenza raggiunta a metà anni ’50, la mobilitazione popolare
abbia “sventato un colpo di stato”; ed anche questa volta ha per ora
annichilito, con un notevole debito di sangue, i tentatici dello “Stato
Profondo” erede del vecchio regime di far naufragare il processo di
cambiamento.
Primo:
la determinazione a proseguire la mobilitazione (quindi la tenuta
organizzativa), che ha raggiunto il suo picco – in un crescendo di
mobilitazioni – il 30 giugno (data storica, in quanto sarebbe stata il
trentennale del golpe di Al-Bashir) con manifestazioni oceaniche.
Secondo:
la situazione di “isolamento” della TMC nonostante il pieno appoggio
ricevuto dall’“asse del Male” composto da Egitto, Arabia Saudita e EAU –
gli USA, che stanno cercando di rideterminare un proprio ruolo
nell’area, e l’Unione Europea si sono opposte alla escalation imposta
dalla TMC per esempio, mentre l’UA e l’Etiopia, condannando l’escalation
di violenza, si sono poste come mediatrici.
Terzo:
il non-allineamento di tutto l’esercito e degli altri apparati di
sicurezza alla “forzatura” imposta dalla TMC, che si è infatti affidata
alle RSF (in parte reclutate all’estero) ed ha estromesso numerosi
ufficiali.
Quarto: la
non trascurabile capacità della mobilitazione della diaspora
all’estero, che ha contribuito a non fare cadere nel silenzio ciò che
avveniva in Sudan e – questione non irrilevante – le pesanti
responsabilità della UE, durante la dittatura di Al-Bashir, nella
repressione dei flussi migratori “delegata” agli ex-janjaweed,
poi RSF, con l’avvio del cosiddetto “Processo di Khartoum”, e la
corresponsabilità del regime del terrore imposto dai quei corpi di
sicurezza con cui ha avuto un fitto scambio ed ha fornito un decisivo “upgrade” attraverso il “Rock”. In pratica, i “cani da guardia” del regime, autori della tortura sistematica dell’opposizione, erano addestrati dalle forze dell’ordine europee.
È
chiaro che l’attuale fase del conflitto “inter-imperialista” tende a
trovare un equilibrio, ancorché precario, in cui le forzature prodotte
per rompere un ordine e far avanzare un piano – in questo caso un colpo
di stato che avrebbe seppellito un processo democratico scaturito da una
mobilitazione popolare diretta da un ampio arco di forze
politico-sociali – non raggiungono gli obiettivi sperati e gli attori di
tali “fughe in avanti” sono costretti a fare notevoli passi indietro.
Molte
sono le incognite che soggiacciono alla piena realizzazione del
processo di transizione e non attengono solo alla formazione effettiva
degli organi preposti alla sua gestione.
In
prima istanza: quale sarà il posizionamento internazionale del “nuovo
Sudan”, considerato che era diventato un “paese satellite” dell’Arabia
Saudita e degli Emirati Arabi Uniti, rompendo i rapporti diplomatici con
L’Iran e con il Qatar, ed integrandosi la macchina da guerra della
coalizione a guida saudita che combatte in Yemen, fornendo circa 14.000
mercenari, tra i quali ex-Janjaweed, ora RSA e tanti
soldati-bambino, oltre che ad essere uno dei poli d’attrazione per
investimenti importanti di questi due Paesi, perno della strategia
africana delle petromonarchie?
Che
rapporti stabilirà con la Russia, con cui ha recentemente implementato
la cooperazione militare, e con la Cina, che è un grande investitore
anche in questo paese africano, rivestendo un ruolo-chiave nella
strategia della “Nuova Via della Seta”, vista la sua collocazione
geografica nel Mar Rosso e l’importante scalo di Port Sudan?
Che
rapporti avrà con l’UE, che nonostante l’ipocrisia nell’augurarsi un
“fruttuoso ripristino delle trattative” nei giorni successivi allo
sgombero, ha integrato il Sudan (da sempre luogo di scambio e di
transito) nelle proprie strategie di esternalizzazione della gestione
dei flussi migratori verso l’Unione e di cooperazione con gli apparati
di sicurezza dei regimi dittatoriali?
Su
questo aspetto bisogna ricordare che il 20/21 giugno, “in gran
segreto”, la Germania ha invitato USA, Norvegia, Gran Bretagna,
Francia, Etiopia, ONU, Unione Africana, in una grottesco “remake” della
Conferenza di Berlino del 1884, senza che fosse autorizzato ad
intervenire alcun esponente sudanese, a titolo collettivo o individuale,
nonostante le reiterate richieste della diaspora, che ha organizzato
una protesta di 24 ore fuori dal Ministero degli Esteri a Berlino.
Addirittura sono stati invitati anche esponenti di Arabia Saudita,
Emirati Arabi Uniti ed Egitto.
Per
ciò che riguarda invece le vicende interne, è chiaro che le incognite
su una reale trasformazione sono molte: come smantellare il “razzismo”
istituzionale con cui Bashir è riuscito a governare, penalizzando alcune
regioni ed alcune componenti della popolazione? Che fine farà la sharia,
che è stata implementata da Al-Bashir (sebbene preesistente) e a cui le
forze più reazionarie dell’islam politico hanno dato pieno appoggio per
il colpo di stato dell’89, fornendo l’architettura ideologica del
regime?
Questi stessi attori islamici, mutatis mutandis,
stanno cercando di avere un ruolo in questo senso anche dopo la caduta
del dittatore, legandosi alla TMC. Quale sarà il ruolo delle donne, che
sono state assolute protagoniste della mobilitazione ed hanno sempre
avuto un ruolo preponderante nei passaggi cruciali del Sudan
Contemporaneo?
In
ultimo: come riuscirà a strutturarsi l’opposizione dopo anni di
clandestinità ed una esperienza organizzativa – in particolare il
partito comunista ed il movimento sindacale – che affonda le sue radici
nella lotta anticoloniale e che tre colpi di stato e relativi regimi non
sono riusciti ad annichilire?
Tutto
il continente africano guarda in questo momento al Sudan come ad un
faro e con notevole preoccupazione, se paragonato a ciò che è successo
in Egitto con il dopo-Mubarak, che ha conosciuto un breve interregno
democratico nel 2011, annullato dal colpo di stato militare nel 2013…
È
chiaro che il risveglio dei Dannati della Terra ha nella “seconda
indipendenza” sudanese un campo di prova fondamentale, mentre per i
rivoluzionari del vecchio continente deve tornare attuale l’indicazione
data da Sartre ai tempi della lotta anticoloniale: “la minima distrazione del pensiero è una complicità delittuosa con il colonialismo”.
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