martedì 30 luglio 2019

Minculpop 2.0. Il giornalismo secondo il Viminale

Torniamo sulla vicenda dell’uso politico di un omicidio – il carabiniere Mario Cerciello Rega – cercando di contenere lo schifo che la vicenda ci suscita.
Oggi tutti i media provano a “correggere il tiro”, a seconda dell’interesse immediato del capetto politico e imprenditoriale di riferimento. I giornalacci fascisti lo fanno a modo loro, più schifoso della media. Volete una breve lista di titoli? Eccovela:
– “Carabiniere ucciso, ecco cosa non torna. Il giallo della chat”, Il Giornale, che “sobriamente” fa un titolo a tutta pagina – “Tutti i trucchi delle Ong” – per NON parlare della nave militare italiana bloccata a largo del porto di Catania dal solito ukaze di Salvini;
– “Perché il carabiniere non ha sparato”; catenaccio: “I militari erano armati ma le leggi tutelano i delinquenti più di loro”, il che supera anche la fantasia più macabra, dopo ben due “decreti sicurezza” in pochi mesi che consentono alle guardie, in pratica, di ammazzare chi vogliono.
I giornali “seri”, invece, provano a giocare fuori tempo massimo il ruolo che avrebbero dovuto coprire fin dal primo minuto: cosa non quadra nella storia. “Un morto, troppe ombre” titola Repubblica, forse consapevole di aver fatto nell’immediato un altro immenso regalo a Salvini. Sulla stessa falsariga La Stampa, il Corriere, ecc.
Il presidente della Federazione della stampa, Beppe Giulietti, ex parlamentare democratico, si straccia le vesti a nome di tutta la categoria: «La caccia all’immigrato di venerdì sera non può essere archiviata senza una discussione autocritica anche al nostro interno».
Ma la situazione appare ormai irrecuperabile, anche ai suoi occhi, perché “venerdì da alcuni siti, attribuiti anche a persone delle forze dell’ordine, parte la notizia che l’omicidio è stato compiuta da «immigrati nordafricani». Da questo, a prescindere da qualsiasi verifica, in rete si scatena un meccanismo da ku klux klan. Si somma una serie di nodi. Il primo è lo spirito dei tempi: giornali, nelle testate online, giornalisti e singoli cittadini, partono. Il vicepremier Salvini parla di ‘bastardi’ da ‘buttare in galera’, ‘ai lavori forzati’”.
Un sistema informativo, insomma, fuori controllo, quanto a professionalità (zero). Anzi: sotto il pieno controllo di chi gestisce l’origine di ogni informazione di “cronaca nera”: le forze di polizia (carabinieri e finanzieri compresi). Quindi, di questi tempi, al servizio di Salvini, che li ha contraccambiate con “decreti” che garantiscono piena discrezionalità operativa e assoluta impunibilità.
Senza che nessun giornalista di grido sollevasse almeno un sopracciglio…
Di cose che non tornano, comunque, in questa vicenda ce ne sono molte. Si era parlato di una signora scippata (ne avevamo parlato inizialmente anche noi, non disponendo di fonti alternative) ed invece si tratta di un pusher che aveva tirato una “sòla” ai due ragazzini americani, dandogli aspirina tritata invece che cocaina.
Da qui la sequela di “stranezze”. Lo spacciatore è anche un informatore delle “forze dell’ordine”, come tutti i suoi “colleghi”, che altrimenti non riuscirebbero ad esercitare il loro infame mestiere (vi pare logico che gli spacciatori siano quotidianamente rintracciabili dai tossici e mai dalle guardie?).
I due carabinieri in borghese si presentano all’appuntamento fissato dagli “scippatori” col pusher altre macchine dell’Arma sarebbero state in zona (a pochi metri dal luogo del delitto – in via Pietro Cossa – c’è il Comando della stazione Prati e San Pietro). Il contesto descritto è quello classico di una trappola. Che però non scatta.
I due carabinieri sono armati, vengono presi di sorpresa e non sparano. I loro colleghi non si muovono in tempo per fermare i due ragazzi yankee, peraltro due “assassini per caso”, non certo dei professionisti del crimine. Che fuggono… rientrando nell’albergo, anch’esso a pochi metri dal teatro del delitto.
Il resto è ancora più stupefacente. I due carabinieri colpiti dalle coltellate vengono soccorsi, quello ferito solo lievemente descrive gli aggressori, ne comunica anche la probabile nazionalità (americani o inglesi, certamente bianchi)… ma esce fuori la “voce” che si tratterebbe invece di “nordafricani”.
Uno dei pochi giornalisti che si è mosso professionalmente già nelle prime ore, Simone Fontana di Wired, ricostruisce con precisione l’origine del depistaggio; “La falsa notizia della cattura di quattro nordafricani in relazione all’omicidio del carabiniere Mario Cerciello Rega è stata pubblicata da un collega della vittima e diffusa da un agente della Guardia di Finanza, che ha esposto le foto dei presunti colpevoli sulla sua pagina Facebook da oltre 6mila follower, incitando i suoi seguaci al linciaggio”.
Tutto alla luce del sole, senza alcuna maschera. Ma nessun “professionista” sembra accorgersene, presi come sono dal rincorrersi a vicenda nello sparare la stessa falsa notizia, senza neanche chiedersi se sia vera o provare a fare la classica “verifica”. “La pagina Facebook Puntato, L’App degli Operatori di Polizia annuncia la cattura di quattro nordafricani, ‘tre cittadini di origini marocchine e uno di origini algerine’, con tanto di foto segnaletiche e occhi coperti per tutelarne la privacy. Si tratta naturalmente di una bufala, che resta online per un lasso limitato di tempo, ma tanto basta a scatenare il web.”
Perché nessuno si fa domande? “La pagina di Puntato è ritenuta una fonte piuttosto affidabile, non solo perché è l’account ufficiale di una app privata ma agganciata al sito della Polizia e dunque utilizzata dalle forze dell’ordine per, citando il sito web ufficiale dell’azienda, ‘fare controlli speditivi del veicolo e redigere verbali, ma soprattutto perché è amministrata da due carabinieri attualmente in servizio.
E’ il punto centrale. I carabinieri sono quelli che certamente sanno chi debbono cercare, perché il loro collega leggermente ferito ha descritto gli aggressori (due bianchi, non quattro magrebini). Eppure è un loro megafono mediatico considerato “affidabile” a metter in giro la “pista nordafricana”. Sono loro, o agenti di polizia, incredibilmente, a dimostrare zero rispetto per il loro collega ucciso, usandolo come uno straccio da agitare per una caccia all’uomo razzista.
Non ci interessa la dietrologia e quindi non ci mettiamo a fantasticare sui “perché?”. Sappiamo per esperienza e conoscenza che numerosi “tutori dell’ordine” sono di formazione politica apertamente fascista – non si contano più le segnalazioni di uffici delle “forze dell’ordine” in cui campeggiano foto o busti del Duce o bandiere nazifasciste – e abbiamo visto anche noi, su molte pagine Fb, guardie esaltate dall’arrivo di Matteo Salvini (“uno di noi”) al Viminale. Senza che nessun superiore prendesse mai “provvedimenti amministrativi” (accade solo per qualche insegnante, pare),
Ma noi siamo comunisti pieni di pregiudizi… I “professionisti dell’informazione”, invece, avrebbero dovuto farsela, qualche domanda, almeno dopo che sono passate più di 48 ore da quando la bufala è stata sputtanata. E invece no.
Ecco. Quello che a noi pare davvero pericoloso è il “meccanismo di trasmissione delle informazioni” che questa vicenda rivela.
Nelle faccende di cronaca nera c’è una sola fonte di informazione: le varie polizie.
I cronisti della “nera” sono vincolati a questa unica fonte in molti modi, a partire dal fatto che se non riportano esattamente quel che riportano le veline di questura (o le “indiscrezioni di siti affidabili gestiti da guardie”) non avranno in futuro accesso ad altre informazioni in tempo utile (i media mainstream si fanno concorrenza sulla velocità, non sui contenuti).
Peggio ancora. La quotidiana frequentazione di questa unica “fonte” crea una sorta di “economia circolare” per cui alcuni giornalisti si prestano a loro volta a fare da “informatori” per le “forze dell’ordine”.
Altro che “verifica della notizia” come presupposto minimo della “professionalità” di cui parla Giulietti!
Viviamo in un regime di monopolio dell’informazione su quasi tutti i temi rilevanti (provate ad indicare qualcuno che dice una cosa dissonante in politica estera…). E, per quanto riguarda i casi di “nera”, l’imprinting politico è dato dal ministro dell’interno, col lavoro de “la Bestia”. Che ha così resuscitato un Minculpop 2.0. In cui non è necessario sottoporre a censura gli articoli dei giornalisti. Basta dettarglieli.

lunedì 29 luglio 2019

La menzogna della flat tax

Salvini e i fascioleghisti sono dei mentitori. Semplicemente gente che spara notizie e giudizi falsi, perfettamente consapevole di star diffondendo menzogne.
Se fossimo dei normali sentimentali, ci metteremmo ad elencare quanto hanno vomitato – solo per fare un esempio molto noto – contro Carola Rackete, la comandante della Sea Wath che (vi ricordate? quanto tempo è passato…) che ha portato comunque a terra 54 naufraghi nonostante i divieti disposti dal Secondo Matteo (imitazione padana e più sguaiata del primo, Renzi).
Ricordiamo:
– “ha cercato di affondare una motovedetta della Guardia di Finanza con degli agenti a bordo. Dicono salviamo vite e hanno rischiato di uccidere esseri umani che stavano facendo il loro lavoro. I video sono evidenti, questi sono delinquenti, una nave di centinaia di tonnellate di stazza ha speronato, schiacciato contro la banchina e danneggiato una motovedetta in vetroresina con dei militari della Guardia di Finanza a bordo che sono stati costretti in parte a scendere in parte a scappare per salvarsi la vita“;
– “un atto di violenza, un atto criminale, un atto di guerra come quello che è documentato dalle televisioni di tutto il mondo penso e spero che non possa rimanere impunito”;
– “se uno sperona e schiaccia contro una banchina di un porto una motovedetta della Guardia di Finanza è un criminale. E’ come se qualcuno stasera guidando o un tir o un pullman avesse l’alt di una pattuglia dei Carabinieri e invece di fermarsi andasse a schiacciare contro il muro dell’autostrada la pattuglia dei Carabinieri”.
La litania delle falsità potrebbe continuare a lungo, ma queste poche frasi bastano. La magistratura, infatti, dopo aver inizialmente arrestato Carola sotto la pressione del ministro dell’interno e dei media di regime, ha velocemente ricostruito la faccenda in termini giudiziariamente più veritieri, liberandola.
Nessuno dei fatti e dei “reati” ipotizzati da Salvini sono minimamente stati presi in considerazione da un qualsiasi magistrato italiano. Nessuna imputazione per “tentato omicidio aggravato” dal fatto di avere come obbiettivo militari dello Stato italiano; nessun atto di violenza, ecc.
In uno Stato di diritto, ciò significa che chi continua a straparlare in quei termini o mente, oppure non è sano di mente. Visto il successo del Secondo Matteo nei consensi, ci sentiamo di optare per la prima ipotesi.
Va là, dirà qualcuno. E’ solo una questione di interpretazione, o magari dei soliti “magistrati di sinistra” che vogliono andar contro “il capitano”…
E allora facciamo parlare qualcosa di meno opinabile: i numeri.
Sapete tutti che uno dei cavalli di battaglia degli ultimi giorni è la cosiddetta flat tax, uno “choc fiscale” che dovrebbe magicamente trasformare imprese fetecchiose in scattanti levrieri del business, oltre a “riempire le tasche degli italiani”.
Noi di Contropiano c’eravamo già fatti due conti, scoprendo che della flat tax con aliquota unica al 15% avrebbero tratto beneficio solo i redditi alti. Non perché siamo “troppo intelligenti”, ma perché è fin troppo banale capire che è così.
Ora però arriva anche il report del Centro Europa Ricerche, presentato ieri nel “parlamentino” del Cnel. Una delle istituzioni economiche che monitorano costantemente l’andamento economico del paese e l’impatto delle diverse misure di politica economica.
E che Salvini sia un mentitore seriale diventa così matematicamente certo.
Spiega infatti il Cer che beneficerebbero dalla flat tax “solo” i contribuenti fra 26 e 55 mila euro, una platea di “circa 8,2 milioni”, un quinto del totale. Sotto la soglia dei 26.000 euro (la stragrande maggioranza dei cittadini italiani) non si avrebbe alcun vantaggio. Anzi, a guardar bene, tra deduzioni e detrazioni (figli, università, mutui, spese sanitarie, ecc), ci rimetterebbero. In qualche caso anche parecchio.
E’ così vero che in diversi talk show, messo alle strette, il sottosegretario alle politiche sociali, Claudio Durigon (ex dirigente dell’Ugl, il sindacato fascista che si chiamava Cisnal e ora risulta in “quota Lega”), ha ammesso che si sta studiando la possibilità di lasciar decidere ai singoli contribuenti se accettare il nuovo regime o mantenere quello attuale. Sicuramente più vantaggioso.
Spietato come ogni insieme scientifico, il Cer spiega che “apparentemente, il 15% evoca un’imposizione molto più bassa dell’attuale e quindi un consistente recupero di reddito disponibile da parte dei contribuenti. Non è però così, dal momento che l’attuale struttura dell’Irpef, basata sul riconoscimento di deduzioni e detrazioni, fa sì che il livello delle aliquote effettivo sia molto inferiore a quello delle aliquote legali. Con specifico riferimento all’aliquota del 15%, tale livello di imposta è di fatto già vigente per i contribuenti con redditi fino a 26 mila euro“.
Evoca”, ossia fa credere ai non addetti ai lavori e ai calcoli aritmetici. “Di fatto è già così”, anzi pure meglio (a volte di poco, ma meglio).
E allora chi ci guadagna? Solo per la prima fascia di aliquote proposta dalla Lega ne avrebbero un vantaggio i redditi tra 26.00 e 55.000 euro. E, com’è matematicamente logico, più ci si avvicina a quella soglia, più si guadagnerebbe.
Per la precisione: “Risparmierebbe quasi 7mila euro di imposta chi dichiara 55mila euro, mentre per chi ha un reddito di 29mila euro lo sgravio si fermerebbe a 3,5mila euro“.
Ma non è neanche questo del tutto certo. Il diavolo si nasconde nei dettagli e dunque, notano i ricercatori del Cer, “per quanto riguarda infine l’ipotesi di adottare l’intervento sui redditi familiari e non individuali, non può non rivelarsi la confusione che ciò ingenererebbe, sostanzialmente consegnandoci un sistema duale di cui non paiono chiari i confini, tanto più che ogni contribuente resterebbe libero di optare per il regime fiscale a lui più conveniente“.
Il risultato finale appare quasi scontato. Il Cer sottolinea che “è da considerarsi elevato il rischio di un depotenziamento di fatto dell’intervento, come d’altronde già sta succedendo con Quota 100, che non viene ritenuta conveniente da un numero di persone superiore a quanto atteso“.
Traduciamo, perché i ricercatori sono sempre troppo educati: “come è avvenuto con quota 100, i beneficiari effettivi sarebbero molti di meno di quanto sparato nelle interviste del ministro mentitore”.
Eppure, dice sempre il Cer, “meglio forse sarebbe concentrare sforzi e risorse su un obiettivo di più semplice realizzazione: abbassare, nei limiti del possibile, l’aliquota legale sul terzo scaglione di imposta, appunto quello fra 28 e 55 mila euro“.
Perché “è quello che subisce la maggiore penalizzazione in termini di salto di aliquota effettiva“, una “delle modalità con cui si manifesta l’eccesso di carico fiscale sui redditi medi e che certo è meritevole di correzione“.
Ma perché fare una cosa semplice e logica – e persino giusta – quando invece si può fare assolutamente niente presentandosi come il salvatore della patria e l’uomo che taglia le tasse “agli italiani”? Il Secondo Matteo non ha mai avuto dubbi, preferendo la seconda (come Quelo…).
Dimenticavamo la perla finale: “La perdita di gettito sarebbe di 16 miliardi”. Ma a chi volete che interessi un dettaglio così insignificante? Basterà tagliare la spesa pubblica sociale (scuole, sanità, welfare, ecc) e costringere chi oggi paga già un ticket pesante a pagarne uno ancora più mostruoso. Ma illuso dalla “comunicazione governativa” che, per l’appunto, “vi abbiamo tagliato le tasse”…

venerdì 26 luglio 2019

La crisi dell’Occidente, in mano a pochi vampiri ciechi

Come sta il capitalismo, oggi? Se guardiamo il suo lato occidentale, la risposta è inevitabilmente: “mica tanto bene”.
La crisi della lunghissima egemonia anglosassone (prima con l’impero inglese, poi con gli Stati Uniti) è evidente da molti dati. Per esempio, la classifica Fortune sulle prime 500 imprese multinazionali dei pianeta segnala per la prima volta il sorpasso delle aziende cinesi rispetto a quelle statunitensi: 129 contro 121.
Le multinazionali Usa restano nel loro insieme leggermente in vantaggio quanto ad entrate complessive, ma la velocità di crescita di quelle cinesi è incomparabilmente più alta. Fermo restando il quadro generale, anche su questo piano il sorpasso è questione di mesi.
Situazione ancora peggiore nel sistema bancario, in cui – tenendo d’occhio gli attivi e non solo le dimensioni – il predominio cinese appare pressoché totale. L’analisi dell’Ufficio Studi di Mediobanca mette al primo posto la Industrial and Commercial Bank of China, con attivi per 3.517 miliardi di euro, davanti all’Agricultural Bank of China con 2.871 miliardi e la China Construction Bank  con 2.856 miliardi.  Il primo istituto non cinese è solo al quarto posto, con la ben nota (e famigerata) JpMorgan Chase. Poi c’è Bank of China, che vanta attivi per 2.701 miliardi.

Pubblico batte privato

Ma il dato più significativo riguarda la struttura proprietaria delle aziende dei due paesi, che descrive anche con molta precisione le differenze di sistema economico. Le multinazionali cinesi sono in genere di proprietà statale (la seconda assoluta, Sinopec Group, si occupa di petrolio ed energia), e persino la “terribile” Huawei, bandita da Donald Trump, non è neppure quotata in borsa perché “di proprietà dei dipendenti”. Una cooperativa, insomma, che si piazza al 61° posto nel mondo, subito dietro la Microsoft di Bill Gates.
Non che manchino società private anche in Cina, ma l’ossatura del sistema è fornita da quelle pubbliche, che si muovono perciò secondo una logica di pianificazione e programmazione sul medio periodo, secondo obbiettivi fissati per via politica.
Qualcosa di simile è esistito nell’Italia del boom economico, quando – Fiat a parte, politicamente però molto “assistita” – il sistema dipendeva da Eni, Enel, Iri (banche comprese), Fincantieri, Ansaldo, Finmeccanica, ecc. Si chiamava “economia mista” e ha portato questo paese dalla devastazione bellica al G7. Poi le privatizzazioni, la delocalizzazione, la preferenza (delle imprese private) per l’investimento dei profitti in attività finanziarie anziché produttive, e quindi il declino, la fuga dei giovani, l’invecchiamento della popolazione. La mancanza di futuro pur in presenza di una struttura manifatturiera ancora molto valida.

Multinazionali tedesche in crisi

Anche la pubblicazione delle “trimestrali di cassa” delle principali multinazionali ripropone una differenziazione analoga, che investe però anche la Germania e dunque l’Europa. Deutsche Bank, l’istituto più grande e scassato del Vecchio Continente ha presentato un passivo di oltre 3 miliardi di euro, nonostante un piano di ristrutturazione molto violento che porterà alla quasi scomparsa della divisione “banca di investimento”. Ossia quella che era la punta di lancia della banca tedesca, ora esposta in titoli “tossici” (prodotti finanziari derivati, cds, ecc) per oltre 20 volte il Pil della Germania.
Situazione simile per Volkswagen, per la prima volta in passivo da oltre 10 anni (ma allora c’era stata la “grande crisi” del dopo Lehman Brothers…), travolta dal dieselgate, dalla necessità di indennizzare clienti e pagare multe; ma soprattutto colpita dalla fine della “globalizzazione”, che ha tolto la base su cui si muoveva il “modello tedesco” (e dunque europeo): bassi salari interni e crescita trainata dalle esportazioni.
Ma è complessivamente la manifattura tedesca, diventata grazie all’austerità e alle leggi Hartz la capofiliera in una lunga serie di comparti, a mostrare ampiamente la corda. Ieri mattina l’indice Ifo – che segnala la “fiducia” degli investitori – è sceso a 95.7 punti; il dato precedente era 97.5, quello previsto previsto 97.1. E comunque sotto i 100 indica recessione alle porte. Stesso discorso per l’indice manifatturiero, diffuso ieri, e sceso a 43,1 punti, ai minimi da molti anni a questa parte (qui la soglia critica è sotto i 50 punti).

Il termometro della competizione globale

Abbiamo dunque questa situazione globale, relativamente alle prime tre aree macroenomiche del pianeta: a) gli Usa non riescono a riprendere un trend di crescita significativo e Trump chiede alla Federal Reserve (la banca centrale) di abbassare i tassi di interesse; b) la Cina prosegue una corsa ultra-trentennale, con un tasso di crescita “soltanto” del 6,5% (aveva più volte superato il 10, nei primi 20 anni), e sviluppa il mercato interno grazie a una politica di drastico aumento dei salari e stimoli fiscali; c) l’Unione Europea resta ferma da diversi anni, inchiodata a un “modello export oriented” che fatto il suo tempo con la fine della “globalizzazione” e la riapertura della guerra economica inter-imperialista.
Le interconnessioni, anche politiche, tra i due lati dell’Atlantico sono molto più forti che non quelle tra i due lati del Pacifico; ma sono anche legami tra due debolezze che provano a conservare un primato ormai messo in discussione dai fatti (a partire dallo sviluppo tecnologico).
Draghi, la Bce, la Fed
In questo quadro le due economie “occidentali” sembrano in grado di muovere ormai soltanto la leva monetaria, ricorrendo a riduzione dei tassi di interesse (in Usa, dove sono tra il 2 e il 2,5%) oppure a una ripresa del quantitative easing (in Europa, dove i tassi sono a zero da anni e addirittura quelli sui depositi (i fondi che le banche lasciano nelle casse della Bce, senza ritirarli e prestarli) sono negativi, allo 0,4%.
Ieri Mario Draghi ha lasciato intendere che, oltre a una nuova stagione di “denaro sparso dagli elicotteri”, potrebbero essere ulteriormente abbassati i tassi di interesse. Il che può risultare sorprendente o quanto meno illogico, perché portarli sottozero significa regalare soldi (in misura frazionale, ma reale) a chi chiede soldi in prestito. Un prova empirica dell’impazzimento della situazione economica in Occidente.
Vero è che i tassi zero valgono solo per le banche che chiedono prestiti alla stessa Bce, mentre alla clientela queste applicano uno spread (comunque ridotto al minimo, come ben sanno quanti chiedono o ricontrattano un mutuo). Ma esiste da anni, ormai, una classe di titoli di Stato che hanno questa singolare caratteristica: i Bund tedeschi.
Grazie al costante surplus finanziario annuale (il contrario del deficit), la Germania per anni ha rifinanziato il proprio debito pubblico guadagnandoci. Ossia restituendo ai prestatori meno di quanto aveva ricevuto. Questa idiozia aveva un senso solo perché gli “investitori professionali” erano terrorizzati dal rischio default di altri paesi (tra cui l’Italia), che pure garantivano rendimenti positivi e anche discretamente alti.
Una pacchia, per la Germania, che così è arrivata a emettere anno dopo anno sempre meno Bund, perché non aveva bisogno di liquidità in prestito.
Secondo gli ordoliberisti questa sarebbe una condizione ottimale, ma presenta controindicazioni piuttosto pesanti. La prima, apparentemente più innocua, è che i Bund tedeschi sono diventati merce rara. Il che è un problema, per esempio, anche per la Bce che – per accordi intervenuti al tempo del primo mega-acquisto di titoli di Stato per “immettere liquidità” nel sistema finanziario – dovrebbe acquistare soprattutto titoli “sicuri”. Il che costringe ad adottare altre “misure non convenzionali”, ossia non previste dallo statuto Bce e in larga misura “scommesse”.
Soprattutto, però, questa strategia è già fallita. L’obbiettivo di riportare il tasso di inflazione vicino al 2% – che le teorie neoliberiste considerano “ottimale” per garantire un crescita “equilibrata” – non è stato mai raggiunto in otto anni di presidenza Draghi.
Le iniezioni di liquidità sono state certamente utili ad impedire l’esplosione del sistema finanziario e la tenuta della moneta unica, ma non si sono mai trasmesse – se non in misura infinitesimale – all’economia reale. L’equilibrio raggiunto è quello di una crescita anemica, più vicina allo zero che all’uno in tutta Europa; una situazione di non-vita e non-morte che difficilmente può essere presentata come un segno di efficienza del capitalismo europeo.
L’altra via – quella seguita per esempio dalla Cina (aumento dei salari, sviluppo del sistema di welfare e investimenti pubblici) – è una bestemmia alle orecchie dei tecnocrati di Bruxelles.
Un suicidio per tutta l’area continentale, inchiodata ai ristretti interessi di bottega di un piccolo gruppo imprese e banche sull’orlo di una crisi di nervi. Quattro vampiri ciechi che credevano di aver trovato la via facile per rifornirsi sempre di sangue fresco…

martedì 23 luglio 2019

Il partito della secessione” urla, ma è sotto scacco

La crisi del governo italiano è parte integrante della partita europea. Chi guarda alle vicende di questi giorni con gli occhi incollati ai sondaggi interni, farà sempre più fatica ad interpretare i messaggi trasversali, gli sgambetti, gli scontri violenti che devastano la maggioranza.
E’ appena il caso di ricordare che in questi ultimi cinque anni abbiamo avuto ben due partiti sopra o vicini al 40% nel voto popolare (non nei sondaggi), e in pochissimi mesi hanno perso tutto. Il Pd democristiano di Renzi e il M5S del neodemocristiano Di Maio sono già storia del passato. Il democristiano di ultradestra, l’”altro Matteo”, può fare la stessa fine alla stessa velocità.
Se fosse una partita solo italiana, questo andamento schizofrenico dell’elettorato richiederebbe l’intervento di uno squadrone di psichiatri di alto livello. Se la si vede intrecciata con la partita europea, invece, emerge una razionalità piuttosto severa.
Il punto essenziale da capire – e che la sedicente sinistra” ha sempre rimosso perché troppo chiaro – è che i governi nazionali dell’Unione a 27 hanno da quasi tre decenni perso la propria “sovranità di politica economica”. Quanto più è debole un paese (per peso economico o per livello del debito pubblico), tanto meno è libero di decidere cosa fare delle proprie risorse e delle entrate fiscali.
Questa limitazione è stata il problema che ha consumato il consenso di tutte le formazioni politiche succedutesi dal 1992 ad oggi, consumando leader (Berlusconi, Prodi, Bersani, Letta, Renzi, Di Maio, ecc) e “partiti”.
Se non puoi decidere la politica economica, le tue promesse elettorali diventano impossibili da rispettare. Quanto meno, quel che riesci a combinare – prendiamo ad esempio “reddito di cittadinanza” e “quota 100” – è solo una pallida imitazione di quel che avevi promesso.
In linea teorica, un governo nazionale – di qualsiasi connotazione ideal-politica – ha la possibilità di “retroagire” a livello europeo, avanzando istanze, chiedendo cambiamenti dei trattati, condivisione delle decisioni.
In linea pratica, invece, l’unico momento in cui può provare a condizionare le decisioni comunitarie è all’inizio della nuova legislatura, quando bisogna assegnare le “poltrone” secondo criteri retoricamente alti e pratiche concretamente da manuale cencelli.
L’editoriale di Guido Salerno Aletta, per Milano Finanza, spiega con grande chiarezza il ruolo svolto da Giuseppe Conte nel portare il governo gialloverde – non proprio benvisto, diciamo così, a Bruxelles – a diventare determinante per la formazione di una “maggioranza europeista”, pur se con i voti di ultranazionalisti polacchi e ungheresi (sotto ferreo controllo economico della Germania, peraltro).
Più precisamente: mezzo governo italiano, ossia la componente Cinque Stelle, uscita dimezzata dal voto europeo.
Dei “tre governi in uno” dell’attuale esecutivo, insomma, si è imposto quello di “garanzia europea” – rappresentato dallo stesso Conte, Tria, Moavero Milanesi, Trenta – che ha trascinato i grillini in evidente stato di panico.
Non la Lega, che si è vista così assolutamente priva di sponde nell’Unione, neofascisti della Le Pen a parte. Il legame sempre più esplicito con Trump e gli Usa, nella versione para-nazista di Steve Bannon (confermata dall’origine neofascista di molti membri dello staff salviniano – dal “russo” Savoini in giù), ha svuotato di senso anche la retorica “euro-asiatica” con cui aveva fin qui condito le sue finte critiche all’Unione Europea.
Come tutti gli “unti del signore”, Salvini e la Lega si trovano dunque nella situazione di dover capitalizzare al più presto il picco di consensi certificato dal voto di fine maggio. Ma non hanno alcuna garanzia di riuscirci.
Non sarebbe certo la prima volta che un crisi di governo non porta alle elezioni anticipate, e la necessità di varare entro fine anno la legge di stabilità (che anche secondo Mario Monti dovrà contenere “un bel po’ di lacrime e parecchio sangue”), sotto strettissimo controllo della Commissione, è di per sé un buon motivo per non andare alle urne neppure se il governo decidesse di sciogliersi questo giovedì (come minacciato da Conte).
Non paradossalmente, il tema su cui lo scontro si è acutizzato – l’autonomia regionale differenziata – rischia di riportare la Lega alle sue orgini: il partito della secessione. Se non fosse per la complicità del Pd emiliano (il governatore Bonaccini ha sottoscritto una richiesta del tutto analoga a a quella dei leghisti Zaia e Fontana, assunzioni nella scuola a parte), sarebbe stato abbastanza semplice concentrare su Salvini & co. una critica radicale in tal senso.
Una secessione di classe, perché tende platealmente a favorire una concentrazione della ricchezza e una redistribuzione della povertà, accentuando le disuguaglianze sociali – anche all’interno delle regioni del Nord – che accompagna una più esplicita secessione territoriale.
Un programma – paradossalmente – che ripropone la logica economica del “progetto europeo” sulla più ristretta base nazionale. Non ci vuol molto, per esempio, a capire che la proposta di salario minimo europeo, enunciata nel discorso di candidatura della Von der Leyen, è una proposta di ufficializzazione delle gabbie salariali giù esistenti a livello continentale. E anche il leghista Giorgetti, candidamente, ha spiegato che andrebbero legalizzate (di nuovo, dopo 50 anni) anche in Italia, regione per regione, provincia per provincia.
Un programma che demolisce in pochi passaggi un paio di pilastri della retorica salviniana: il “prima gli italiani”, che diventa un “prima i ricchi, o comunque il Nord”, e il “rimettere un po’ di soldi nelle tasche dei lavoratori”, che si rivela il classico togliergliene un altro po’.
Obietterete che tutto questo non risulta così evidente agli occhi dell’elettorato.
E’ verissimo. Proprio per questo la Lega avrebbe bisogno di capitalizzare subito la massa di consensi (sempre molto volatili, come abbiamo visto in questi anni) andando al voto. Proprio per questo, tutti gli altri – dalla Unione Europea a Mattarella, alla maggioranza degli attuali parlamentari – glielo permetteranno.
Salvini lo sa, e dunque esita a formalizzare la crisi. Ma il governo può cadere lo stesso. Se la “componente di garanzia europea” decide di staccare la spina…

lunedì 22 luglio 2019

Il partito della secessione” urla, ma è sotto scacco

La crisi del governo italiano è parte integrante della partita europea. Chi guarda alle vicende di questi giorni con gli occhi incollati ai sondaggi interni, farà sempre più fatica ad interpretare i messaggi trasversali, gli sgambetti, gli scontri violenti che devastano la maggioranza.
E’ appena il caso di ricordare che in questi ultimi cinque anni abbiamo avuto ben due partiti sopra o vicini al 40% nel voto popolare (non nei sondaggi), e in pochissimi mesi hanno perso tutto. Il Pd democristiano di Renzi e il M5S del neodemocristiano Di Maio sono già storia del passato. Il democristiano di ultradestra, l’”altro Matteo”, può fare la stessa fine alla stessa velocità.
Se fosse una partita solo italiana, questo andamento schizofrenico dell’elettorato richiederebbe l’intervento di uno squadrone di psichiatri di alto livello. Se la si vede intrecciata con la partita europea, invece, emerge una razionalità piuttosto severa.
Il punto essenziale da capire – e che la sedicente sinistra” ha sempre rimosso perché troppo chiaro – è che i governi nazionali dell’Unione a 27 hanno da quasi tre decenni perso la propria “sovranità di politica economica”. Quanto più è debole un paese (per peso economico o per livello del debito pubblico), tanto meno è libero di decidere cosa fare delle proprie risorse e delle entrate fiscali.
Questa limitazione è stata il problema che ha consumato il consenso di tutte le formazioni politiche succedutesi dal 1992 ad oggi, consumando leader (Berlusconi, Prodi, Bersani, Letta, Renzi, Di Maio, ecc) e “partiti”.
Se non puoi decidere la politica economica, le tue promesse elettorali diventano impossibili da rispettare. Quanto meno, quel che riesci a combinare – prendiamo ad esempio “reddito di cittadinanza” e “quota 100” – è solo una pallida imitazione di quel che avevi promesso.
In linea teorica, un governo nazionale – di qualsiasi connotazione ideal-politica – ha la possibilità di “retroagire” a livello europeo, avanzando istanze, chiedendo cambiamenti dei trattati, condivisione delle decisioni.
In linea pratica, invece, l’unico momento in cui può provare a condizionare le decisioni comunitarie è all’inizio della nuova legislatura, quando bisogna assegnare le “poltrone” secondo criteri retoricamente alti e pratiche concretamente da manuale cencelli.
L’editoriale di Guido Salerno Aletta, per Milano Finanza, spiega con grande chiarezza il ruolo svolto da Giuseppe Conte nel portare il governo gialloverde – non proprio benvisto, diciamo così, a Bruxelles – a diventare determinante per la formazione di una “maggioranza europeista”, pur se con i voti di ultranazionalisti polacchi e ungheresi (sotto ferreo controllo economico della Germania, peraltro).
Più precisamente: mezzo governo italiano, ossia la componente Cinque Stelle, uscita dimezzata dal voto europeo.
Dei “tre governi in uno” dell’attuale esecutivo, insomma, si è imposto quello di “garanzia europea” – rappresentato dallo stesso Conte, Tria, Moavero Milanesi, Trenta – che ha trascinato i grillini in evidente stato di panico.
Non la Lega, che si è vista così assolutamente priva di sponde nell’Unione, neofascisti della Le Pen a parte. Il legame sempre più esplicito con Trump e gli Usa, nella versione para-nazista di Steve Bannon (confermata dall’origine neofascista di molti membri dello staff salviniano – dal “russo” Savoini in giù), ha svuotato di senso anche la retorica “euro-asiatica” con cui aveva fin qui condito le sue finte critiche all’Unione Europea.
Come tutti gli “unti del signore”, Salvini e la Lega si trovano dunque nella situazione di dover capitalizzare al più presto il picco di consensi certificato dal voto di fine maggio. Ma non hanno alcuna garanzia di riuscirci.
Non sarebbe certo la prima volta che un crisi di governo non porta alle elezioni anticipate, e la necessità di varare entro fine anno la legge di stabilità (che anche secondo Mario Monti dovrà contenere “un bel po’ di lacrime e parecchio sangue”), sotto strettissimo controllo della Commissione, è di per sé un buon motivo per non andare alle urne neppure se il governo decidesse di sciogliersi questo giovedì (come minacciato da Conte).
Non paradossalmente, il tema su cui lo scontro si è acutizzato – l’autonomia regionale differenziata – rischia di riportare la Lega alle sue orgini: il partito della secessione. Se non fosse per la complicità del Pd emiliano (il governatore Bonaccini ha sottoscritto una richiesta del tutto analoga a a quella dei leghisti Zaia e Fontana, assunzioni nella scuola a parte), sarebbe stato abbastanza semplice concentrare su Salvini & co. una critica radicale in tal senso.
Una secessione di classe, perché tende platealmente a favorire una concentrazione della ricchezza e una redistribuzione della povertà, accentuando le disuguaglianze sociali – anche all’interno delle regioni del Nord – che accompagna una più esplicita secessione territoriale.
Un programma – paradossalmente – che ripropone la logica economica del “progetto europeo” sulla più ristretta base nazionale. Non ci vuol molto, per esempio, a capire che la proposta di salario minimo europeo, enunciata nel discorso di candidatura della Von der Leyen, è una proposta di ufficializzazione delle gabbie salariali giù esistenti a livello continentale. E anche il leghista Giorgetti, candidamente, ha spiegato che andrebbero legalizzate (di nuovo, dopo 50 anni) anche in Italia, regione per regione, provincia per provincia.
Un programma che demolisce in pochi passaggi un paio di pilastri della retorica salviniana: il “prima gli italiani”, che diventa un “prima i ricchi, o comunque il Nord”, e il “rimettere un po’ di soldi nelle tasche dei lavoratori”, che si rivela il classico togliergliene un altro po’.
Obietterete che tutto questo non risulta così evidente agli occhi dell’elettorato.
E’ verissimo. Proprio per questo la Lega avrebbe bisogno di capitalizzare subito la massa di consensi (sempre molto volatili, come abbiamo visto in questi anni) andando al voto. Proprio per questo, tutti gli altri – dalla Unione Europea a Mattarella, alla maggioranza degli attuali parlamentari – glielo permetteranno.
Salvini lo sa, e dunque esita a formalizzare la crisi. Ma il governo può cadere lo stesso. Se la “componente di garanzia europea” decide di staccare la spina…

*****

I fatti e la loro narrazione. Conte azzarda

Guido Salerno Aletta – MilanoFinanza
I fatti e la loro narrazione: niente è mai come sembra a prima vista, non a Roma e neppure a Bruxelles. I capovolgimenti di fronte, nella lunga battaglia politica che sta portando alla formazione dei nuovi organismi di vertice dell’Unione sono continui e lasciano spazio alle manovre politiche più imprevedibili. A volte, veri e propri azzardi.
Al momento, a fare da ago della bilancia per riuscire a formare la maggioranza necessaria per far approvare a Strasburgo la nomina di Ursula Von der Leyen a Presidente della Commissione è stato Giuseppe Conte, il Presidente del Consiglio di un’Italia che tutti danno per emarginata, sempre fuori dai giochi.
Per insinuarsi, spiazzando per un giorno almeno il ruolo di king-maker assunto dal Presidente francese Emmanuel Macron, Conte ha approfittato del vistoso ammutinamento in casa S&D, con il forte dissenso dei rappresentanti di Germania, Grecia, Austria, Slovenia e Benelux che avrebbero preferito il loro candidato-guida, l’olandese Frans Timmermans, ed all’interno della stessa Cdu.
C’è un dato di fatto, di cui tener conto. A Strasburgo, la triplice alleanza formata da Popolari, S&D e Renew può contare su 369 seggi: un numero inferiore, seppur di poco, rispetto ai 374 che rappresentano la maggioranza assoluta dell’Assemblea di Strasburgo, richiesta per approvare la candidatura del Presidente della Commissione. Se a questi si aggiungono i 14 voti apportati dagli eurodeputati “non iscritti” ad alcun Gruppo si arriva ad un totale di 383 voti. Curiosamente, gli eletti italiani nella lista del M5S, gli unici ad essere “non iscritti”, sono già considerati nel sito di Wikipedia dedicato al Parlamento europeo come facenti parte della maggioranza basata sulla triplice alleanza. Di questo, si tace.
Di fronte alle defezioni preannunciate, e piuttosto che puntare sul fallimento dell’accordo raggiunto sulla candidatura della Von der Leyen, il Premier Conte ha sollecitato l’appoggio necessario agli eurodeputati dei Gruppi che si riferiscono alla maggioranza che sostiene il governo: solo il M5S ha raccolto l’invito; e così, ad essere determinanti, sono stati i loro 14 voti favorevoli. La candidata ha ottenuto 383 voti favorevoli, superando con uno scarto di appena 9 voti il quorum richiesto.
Non è bastato alla Van der Leyen un discorso di ampia apertura ai Verdi, con la promessa di fare dell’Europa il primo continente ad emissioni zero entro il 2050 rispettando anche la tappa intermedia del 2030; e neppure la ipotesi di trasformare la Bei in una Banca per gli investimenti nel campo ambientale: le politiche di sviluppo industriale della triplice alleanza sono assai distanti rispetto a quelle della galassia verde che popola Bruxelles. E poi, i Verdi, che sono arrivati ad essere il secondo partito in Germania, non hanno nessuna voglia di fare da stampella ad una grande coalizione che vede l’SPD in forte difficoltà: puntano, invece alla crisi della Grande coalizione, per sbarcare la Cdu-Csu.
L’appoggio italiano alla candidatura della Von der Leyen è stato apertamente rivendicato dal Premier Conte, giovedì scorso, con una lettera alla stampa. Ha affermato di averne condiviso la designazione “per la sua storia personale e politica, e perché questa soluzione avrebbe consentito all’Italia di ottenere un portafoglio economico di rilievo, in particolare la ‘concorrenza’, come da me richiesto, e avrebbe aperto a buone prospettive per l’Italia anche con riguardo alle restanti nomine”.
Ricordando di aver invitato i parlamentari europei delle forze politiche che sostengono la maggioranza interna ad appoggiare questa candidatura, e che gli Europarlamentari eletti con la Lega hanno espresso voto contrario, ha affermato di non essere “in condizione di prefigurare se questa contrarietà avrà ripercussioni sulle trattative che si svolgeranno per definire la composizione della squadra di neo-Commissari. Non si tratta infatti di rivendicare una ‘poltrona’, quella di Commissario alla concorrenza, a beneficio di una singola forza politica, ma di difendere gli interessi nazionali e di rivendicare per l’Italia il posto di prestigio che merita”. D’altra parte, ha concluso sul punto, il discorso programmatico della neo-Presidente aveva confermato molte delle priorità che stanno a cuore all’Italia, in tema di politiche sociali, di misure per l’occupazione, per la tutela dell’ambiente, e di contrasto al traffico illegale di migranti.
L’appoggio del M5S alla candidatura lascia immutato l’accordo politico fondato sulla sola triplice alleanza. Su questo, la capodelegazione Tiziana Beghin, dopo aver espresso apprezzamento per gli impegni assunti dalla neo-presidente della Commissione europea, è stata chiara: “il Movimento Cinque Stelle monitorerà costantemente il suo mandato e sarà, se necessario, molto duro con lei”.
La Lega ha votato contro, disattendendo l’invito di Conte: senza garanzie per un suo uomo alla Concorrenza, sarebbe stato un voto a perdere. Il sospetto, però, è che a Bruxelles non si siano mai impegnati a designare un italiano leghista: prima ancora della pubblicazione della lettera in cui il Premier Conte esprimeva rammarico e preoccupazione per la decisione della Lega, è stato annunciato che Margrethe Vestager, attuale Commissario con questo incarico, aveva deciso di aprire un’indagine su Amazon, per verificare se l’utilizzo dei dati dei dettaglianti indipendenti che vendono i loro prodotti attraverso la piattaforma del gigante dell’e-commerce violi le regole sulla concorrenza.
Una iniziativa assunta in articulo mortis, per condizionare il prossimo Commissario e mantenere alto il livello di scontro con gli Usa, proseguendo l’escalation in corso da cinque anni contro i giganti americani, come Qualcomm, Apple e Google. Una procedura aperta poi, guarda caso, proprio quando gli Antitrust di Germania ed Austria avevano dichiarato concluse le proprie investigazioni su Amazon avendo ottenuto impegni assai soddisfacenti circa i comportamenti a livello globale.
Le simpatie americane della Lega, confermate dall’ultimo viaggio di Matteo Salvini oltre Atlantico, a dispetto delle recenti notizie su presunti finanziamenti russi al suo partito, rendono quanto mai improbabile che un politico italiano filo-statunitense, possa assumere il ruolo di Commissario alla concorrenza.
Tra l’altro, Francia e Germania hanno già in animo di rivedere tutti i parametri relativi alla individuazione del mercato rilevante ai fini di fusioni ed acquisizioni: l’obiettivo è di creare colossi continentali, favorendo le aggregazioni industriali e societarie tra i due Paesi. Affermare, come pure ha fatto il Premier Conte, che in Europa occorre difendere a tutti i costi gli interessi nazionali italiani, cozza dunque con il progetto strategico franco-tedesco in materia di concorrenza.
L’accordo di maggioranza che fa da supporto alle nuove istituzioni europee si è confermato numericamente insufficiente e politicamente fragile: ciò le rende meno autonome rispetto alle politiche nazionali. Ora, tutta l’attenzione si sposta verso il completamento della struttura con la nomina dei ventisei Commissari, dando per scontato che le due Vicepresidenze della Commissione saranno assegnate a Frans Timmermans in rappresentanza del Gruppo S&D ed a Margrethe Vestager per Renew.
Per quanto riguarda il vertice della struttura burocratica, si sa già che lascerà il suo incarico il tedesco Martin Selmayr, che ha fatto da guardiano al Presidente Jean-Claude Junker. Il nome del suo successore non è noto, ma non sarà comunque un tedesco, vista la nazionalità della Von der Leyen.
Per la neo-Presidente della Commissione, la strada è tutta in salita: le prossime nomine cercheranno di sanare le incomprensioni e di rimediare agli incidenti di percorso che finora hanno costellato la nuova tornata europea. Alternando le fasi di allargamento dell’Unione a quelle di consolidamento, la neo-Presidente ed ex-ministro della difesa in Germania, batte su quest’ultimo tasto: l’Europa sta nella Nato, ma deve andare avanti a passi marcati verso una vera Unione Europea di Difesa. Pronta al confronto geopolitico e commerciale con gli Usa, ruvida ma non troppo verso la Russia, comunque sospettosa verso la Cina: se non fosse per la prospettiva di questa “Fortress Europe”, nel suo programma (A Union that strives for more – My agenda for Europe) si ripetono con immutata enfasi gli stessi obiettivi strabilianti già contenuti del Trattato di Lisbona, entrato in vigore dieci fa, il 1° dicembre 2009. L’impegno ora è per un’Europa leader non solo nella realizzazione del nuovo mondo digitale, ma anche nell’azzeramento delle emissioni di CO2. Le solite promesse?

venerdì 19 luglio 2019

Crisi di governo? Quale governo?

E finalmente arrivò la crisi… Il governo gialloverde è al capolinea, si tratta solo di attendere la manovra per parcheggiare, che potrebbe anche prendersi tutto il mese di agosto.
Come facciamo sempre, prescindiamo volentieri da dichiarazioni e sondaggi. Perché prendere sul serio le parole di un qualsiasi politicante della Terza Repubblica sarebbe da scemi (tutto il sistema mediatico mainstream fa solo questo), e anche i sondaggi mantengono in genere meno di quanto promettono.
Vediamo dunque i fatti.
I tre governi in uno non riescono più a marciare insieme. Uniti non sono mai stati, ma adesso le strade da percorrere sono decisamente diverse. Tanto che non sono più tre, ma due virgola qualcosa, con i Cinque Stelle ricondotti all’ovile e non più “antisistema”.
Il passaggio determinante, non per caso, è avvenuto nel rapporto con l’Unione Europea. La formazione del nuovo “governo” continentale sta avvenendo con frenetiche manovre diplomatiche tra stati nazionali e “famiglie politiche”, ma senza più il baricentro fisso formato dall’asse franco-tedesco e dalla grosse koalition popolari-socialdemocratici.
Il primo, nonostante il Trattato di Aquisgrana, si è parzialmente sfasciato con la bocciatura di Timmermans e la candidatura della tedesca Ursula Von der Leyen, voluta paradossalmente da Macron e non dalla Merkel. Il che ha consentito la scelta della francese Lagarde per la presidenza della Bce, dove invece la Germania avrebbe preferito il superfalco dell’austerità, Jens Weidmann.
Il Parlamento di Strasburgo ha approvato la nomina per il rotto della cuffia (9 voti) e solo grazie al concorso di 24 ultrazionalisti polacchi e 16 grillini italici. Nonostante il Parlamento europeo sia un guscio vuoto di potere (può solo approvare o rigettare le proposte della Commissione), il passaggio delle nomine ai vertici della UE è l’unico momento in cui conta qualcosa.
Per raggiungere questo misero risultato – la nomina di una presidente di Commissione “di riserva”, debole in patria e ancor più nella UE – sono andate in crisi tutte le “famiglie politiche” continentali. I Verdi non sono stati accettati nella “maggioranza” (le frasette “ambientaliste” della Von der Leyen non potevano certo sostituire un chiaro accordo programmatico su quei temi), i socialdemocratici si sono divisi (dopo la bocciatura di Timmermans), i popolari anche. E quindi sono serviti i voti degli ultrazionalisti polacchi e ungheresi (Orbàn è ufficialmente nel Partito Popolare Europeo), teoricamente alleati della Lega sulla questione dell’immigrazione, oltre a quelli dei Cinque Stelle.
I quali, con questa scelta, hanno completato la “democristianizzazione” voluta dal duo Di Maio-Casaleggio junior. I “tre governi” sono perciò diventati due e un pezzetto, peraltro in via di rapido rientro nell’alveo delle formazioni “europeiste” (stanno confluendo nel gruppo dei “liberali” capeggiato dal movimento di Macron, dopo aver goffamente cercato un’interlocuzione con dei sedicenti Gilet Gialli…).
Come giustamente lamenta il povero premier Giuseppe Conte, se vuoi avere un “commissario economico di peso”, dopo aver perso tutte le poltrone più importanti (Davide Sassoli, nuovo presidente del Parlamento al posto di Tajani, è comunque del Pd), dovevi per forza votare la Von der Leyen.
Non sappiamo se la Lega abbia davvero prima detto “ok” e poi abbia fatto il contrario (è credibile, diciamo, visto quel che fa da anni…), ma il risultato è comunque un disastro per il governo italiano. Sconfessato davanti ai partner continentali e fratturato all’interno.
Non siamo complottisti o dietrologi, ma la coincidenza temporale con l’esplosione del RussiaGate ha comunque di fatto smontato qualsiasi possibilità per Salvini di far coincidere conquista di un Commissario europeo (Giancarlo Giorgetti), crisi di governo e nuove elezioni con il vento in poppa.
I passaggi concreti stanno lì a dimostrarlo. Giorgetti è già salito al Quirinale, ieri sera, per comunicare a Mattarella il suo ritiro come candidato (prassi inconsueta, ma nello scasso istituzionale ormai dilagante nessuno sembra farci più caso, a partire dallo stesso Mattarella). I Cinque Stelle e il “governo europeista” (Conte, Tria, Moavero Milanesi, Trenta) sono ormai indistinguibili. E Salvini deve rinviare l’apertura ufficiale della crisi di governo, dopo aver annunciato anche la sua “salita al Quirinale”, perché non ha alcuna certezza di poter andare subito ad elezioni e capitalizzare il patrimonio assegnatogli dai sondaggi.
Quel che resta della prassi costituzionale di gestione delle crisi di governo, infatti, assegna al Presidente della Repubblica il compito di condurre consultazioni tra i partiti, verificare la possibilità di maggioranza alternative e tener d’occhio il calendario degli impegni europei (c’è da presentare una “legge di stabilità” entro il 31 dicembre, concordata punto per punto con la nuova Commissione).
Lasciate perdere le dichiarazioni baldanzose di tutti i gruppi parlamentari, secondo cui “dopo questo governo ci sono solo le elezioni”. Sappiamo tutti benissimo, dopo almeno tre decenni di esperienza, che l’ombra del “governo tecnico” si allunga sul paese proprio in situazioni del genere. E ricordiamo bene come – appena tredici mesi fa – Mattarella avesse già conferito l’incarico a Carlo “mani di forbice” Cottarelli, visto che Lega e M5S facevano fatica a concordare un programma comune.
Niente, dunque, impedisce di riproporre quello schema, ovviamente temporaneo (da qui alla primavera).
Rispetto a tredici mesi fa, però, c’è addirittura qualche ragione in più, che torna conveniente per tutte le formazioni politiche tranne la Lega.
La straordinaria crescita di consensi intorno alle cazzate fasciorazziste dei leghisti è esplosa soprattutto nell’ultimo anno. Il passaggio dal 17% del 4 marzo al 34% delle elezioni europee è dipeso moltissimo dall’uso fatto del ministero dell’interno, trasformato in macchina operativa e di propaganda al servizio esclusivo di Matteo Salvini. Con la consueta complicità ebete del sistema mediatico mainstream (soprattutto da quello che dice d’essere “d’opposizione democratica”). Mesi passati da un allarme all’altro (“attentato, mi vogliono ammazzare!“), da un “nemico” inventato all’altro, da uno sgombero criminale all’altro…
Una decina di mesi di “governo tecnico”, con un ministro dell’interno diverso, spunterebbero drasticamente le ali al “fenomeno”. Anche se il RussiaGate dovesse svilupparsi lungo sentieri meno pericolosi per il “capitano”.
Ma c’è da dubitarne, vedendo i “mi appello alla facoltà di non rispondere” dei primi indagati sull’incontro del Metropol. Per chi ha una qualche esperienza di inchieste giudiziarie reali (per come avvengono, non per quello che c’è scritto sul codice di procedura penale), una cosa è abbastanza chiara: quella “linea difensiva” regge finché un qualsiasi spillo non buca il palloncino dell’omertà. Poi, a seconda di come esplode, ognun per sé…
A ben pensarci è lo stesso problema presentato dalla “linea propagandistica” di Salvini su questo punto (“tutte balle”, “non rispondo a fantasie”, ecc). Non può rispondere a nulla perché, se accetta di affrontare anche solo una contestazione precisa, entra nel gorgo e non ne esce più…
Un semplice cane avvertirebbe l’odore dell’adrenalina provenire dall'”altro Matteo”. Ma l’adrenalina in eccesso viene prodotta in due casi: quando stai per attaccare o quando sei preso dalla paura. Un cane, insomma, rimane in dubbio. A noi, umani medi, sembra più paura che altro, adesso…

giovedì 18 luglio 2019

Salario minimo e cuneo fiscale: la fregatura è servita

Tra le più conosciute scene del cult ‘L’allenatore nel pallone’ vi è una bizzarra conversazione tra Oronzo Canà, coach della Longobarda, una matricola della Serie A, e il patron della squadra, il pittoresco presidente Borlotti. I due si trovano impelagati nelle trattative del calciomercato, alle prese con squali e magnati del settore, e stanno cercando di imbastire una rosa sufficientemente competitiva per raggiungere una miracolosa salvezza.
Borlotti, che di certo non ha né la stoffa né le disponibilità delle big del calcio italiano, si trova dunque a dover ingegnare astruse operazioni per poter portare qualche giocatore alla corte di Canà. Appena uscito da un colloquio con l’Avvocato Agnelli, Borlotti confida entusiasta al suo allenatore: “Ma lo sa che noi attraverso le cessioni di Falchetti e Mengoni riusciamo ad avere la metà di Giordano? Da girare all’Udinese per un quarto di Zico e tre quarti di Edinho”.
Di fatto, la Longobarda stava cedendo i suoi due unici giocatori di livello in cambio di eventuali comproprietà future. Insomma, una fregatura bella e buona per il povero Canà.
Una scena simile si sta consumando in questi giorni nei corridoi del Palazzo, dove si discute delle condizioni materiali di vita di milioni di lavoratori italiani, il cui destino sembra somigliare a quello della Longobarda di Canà.
Sappiamo che c’è attualmente sul tavolo una proposta di legge sull’introduzione di un salario minimo che, seppur soggetta ad un futuro iter parlamentare che potrebbe comunque portarla a svuotarsi del suo contenuto più meritevole, rappresenterebbe per molti lavoratori un miglioramento delle condizioni retributive. Tale disegno di legge, a firma della senatrice Nunzia Catalfo (M5S), oltre ad essere stato criticato dai soliti portaborse degli interessi dominanti, è stato, in maniera tutt’altro che sorprendente, oggetto degli strali di Confindustria.
L’Istat ha infatti stimato che l’adeguamento verso l’alto delle retribuzioni sotto ai 9 euro lordi – la soglia prevista dal disegno di legge – comporterebbe per le imprese un aggravio di costi per 4,3 miliardi. Tale aggravio salirebbe a 6,7 miliardi secondo INAPP, secondo le cui stime la misura coinvolgerebbe il 21,2% dei lavoratori dipendenti.
Vale la pena precisare che, se davvero l’obiettivo fosse quello di migliorare le condizioni materiali di vita dei lavoratori, questa misura la dovrebbero pagare solo e soltanto i profitti, in particolar modo di quelle imprese che fino ad oggi pagano salari inferiori a livelli dignitosi.
Non si tratterebbe dunque in alcun modo di una misura da finanziare con coperture a carico dello Stato, come invece sembra emergere da un dibattito pubblico talvolta surreale: una fetta del prodotto sociale andrebbe ‘semplicemente’ strappata dalle mani dei padroni e redistribuita ai lavoratori.
A fronte dei costi stimati a carico delle imprese, subito sono arrivate le levate di scudi da parte dei soliti sospetti: la Lega, attraverso la voce di Claudio Durigon, ha tenuto a precisare che una legge sul salario minimo si farà solo se sarà “a costo zero per le imprese”.
E come hanno tradotto questa suggestione di marca leghista i rappresentanti delle associazioni padronali? Proprio il presidente di Confindustria, Vincenzo Boccia, ha dichiarato che il salario minimo dovrebbe essere accompagnato dal taglio del cuneo fiscale per le aziende.
Proviamo a capire cosa potrebbe comportare questa sorta di do ut des se, malauguratamente, fosse davvero inserito nella prossima legge di bilancio.
Il cuneo fiscale (propriamente detto ‘cuneo fiscale e contributivo’) è la differenza tra la spesa complessiva che un rapporto di lavoro implica e quanto il lavoratore ogni mese si mette effettivamente in saccoccia. In cosa consiste questa differenza in Italia?
Come ci aiuta a capire la tabella, quando un’impresa assume un lavoratore, oltre al suo stipendio lordo deve pagare: una quota contributiva a favore del lavoratore che va all’INPS e all’INAIL (circa il 24% della retribuzione lorda), che diventerà, un domani, pensione e prestazione per gli infortuni sul lavoro o l’invalidità; un’imposta chiamata IRAP che colpisce anche il costo del lavoro (pari al 3,9% circa della retribuzione lorda). La somma di queste componenti (retribuzione lorda, oneri contributivi e IRAP) costituisce il costo del lavoro complessivo.
D’altro canto, per calcolare lo stipendio netto del lavoratore, dalla sua retribuzione lorda vanno sottratti un 9% di contributi previdenziali a suo carico e, sulla base dei relativi scaglioni, le ritenute IRPEF. Qui, per semplicità, faremo riferimento ad un’aliquota del 23% attribuita al primo scaglione di reddito.
Quindi, le componenti del cuneo fiscale sono: IRPEF (a carico del lavoratore), IRAP (a carico del datore), contributi previdenziali e assicurativi (sia a carico del datore che del lavoratore), e IRPEF. Un taglio del cuneo fiscale a favore delle imprese, quindi, si concretizzerebbe in una riduzione o della componente contributiva a carico del datore e/o dell’IRAP.
Esempio di cuneo fiscale e contributivo
Voce Importo Descrizione
Costo del lavoro 2.300 Cuneo fiscale e
contributivo
IRAP a carico del datore di lavoro 70
Contributi previdenziali e assicurativi (INPS-INAIL) a carico del datore di lavoro 430
= Retribuzione lorda 1.800
Ritenute fiscali (IRPEF) a carico del lavoratore 415
Contributi previdenziali (INPS) a carico del lavoratore 165
= Retribuzione netta 1.220 Netto in busta paga
Nell’ipotesi che lo stipendio lordo pagato da un’impresa sia 1.800 euro, possiamo calcolare gli oneri fiscali e contributivi a carico del datore. Per quanto riguarda i contributi previdenziali e assicurativi, essi ammonteranno a circa 430 euro (24% di 1.800 euro); l’IRAP dovuta sarà invece pari a circa 70 euro (3,9% di 1.800 euro). La somma tra questi oneri e la retribuzione lorda rappresenterà il costo del lavoro sostenuto dall’impresa (2.200 euro).
Stando alle ipotesi sopra indicate le ritenute a carico del lavoratore dipendente ammonteranno a 680 euro (di cui 415 euro imputabili all’IRPEF e 165 come oneri contributivi). Il cuneo fiscale e contributivo è dunque rappresentato da quei 500 euro che l’impresa verserà, a titolo di tasse e contributi, più i 580 euro a carico del lavoratore, per un totale di 1.080 euro. Tagliare il cuneo fiscale a carico delle imprese vuol dire, in buona sostanza, ridurre l’ammontare di imposte o contributi che queste versano all’Erario (IRAP) o agli istituti sociali (INPS o INAIL).
Nell’ipotesi avanzata da Boccia, l’eventuale entrata in vigore del salario minimo sarebbe accettabile solo se il costo del lavoro complessivo non eccedesse i 2.300 euro che abbiamo ipotizzato nel nostro esempio: se tale misura portasse la retribuzione lorda del lavoratore da 1.800 a 2.000 euro (assumiamo anche per semplicità che questi extra 200 euro siano al netto di contributi previdenziali e oneri fiscali), per non far salire il costo complessivo del lavoro sopra ai 2.300 euro, il taglio del cuneo per le imprese dovrebbe essere esattamente di 200 euro, cioè quell’ammontare che, per legge, l’impresa dovrebbe dare in più al lavoratore. I datori di lavoro, quindi, verserebbero meno contributi INPS-INAIL, o alternativamente pagherebbero meno IRAP.
Ad una prima analisi, tale proposta non sembrerebbe così penalizzante per i lavoratori. Da un lato, per via dell’introduzione del salario minimo, la loro retribuzione netta, ceteris paribus, crescerebbe a 1.420 euro; dall’altro, non vi sarebbe alcun pericolo per la competitività dei beni prodotti, né millantate riduzioni di personale, in quanto le imprese non vedrebbero aumentare i loro esborsi complessivi (2.300) per via di una minore contribuzione contributiva o fiscale.
È proprio qui, tuttavia, che sta l’inghippo. Conti alla mano, introdurre il salario minimo a costo zero per le imprese significherebbe ridurre il gettito contributivo o fiscale di diversi miliardi di euro (secondo le stime riportate, dai 4,3 ai 6,7 miliardi di euro).
Se il taglio riguardasse il gettito contributivo, le casse dell’INPS e dell’INAIL si troverebbero con diversi miliardi in meno tra le voci di entrata. Se invece il taglio si concretizzasse in un’ulteriore sforbiciata all’IRAP, sarebbero le casse erariali a soffrire dell’ennesimo regalo fatto ai padroni.
Per via del vincolo del pareggio di bilancio dettato dai Trattati europei, che questo Governo ha dimostrato di rispettare pedissequamente, questi ‘ammanchi’ si tradurrebbero, necessariamente, o in un taglio delle prestazioni previdenziali o, come tristemente noto, queste risorse sarebbero sottratte da altre voci della spesa pubblica. In sostanza, si tratterebbe di ulteriori tagli alla spesa sociale e in genere alla spesa pubblica.
Non ci vuole molto a rendersi conto che questi tagli ricadrebbero proprio sui lavoratori; o direttamente per il taglio delle pensioni e delle indennità da infortunio e invalidità, o indirettamente per il taglio dei servizi pubblici di cui beneficiano in primo luogo le classi svantaggiate, che non possono permettersi scuole private, taxi o visite specialistiche a pagamento.
L’idea che la riduzione del cuneo fiscale possa rappresentare un toccasana per l’economia, ripetuta da molti anni nel dibattito pubblico, fa riferimento alla consueta visione dominante del sistema economico, secondo cui esisterebbe una domanda di lavoro che diminuisce all’aumentare del salario lordo (il cosiddetto ‘costo del lavoro’). In sostanza, sborsando meno denaro per assumere un lavoratore, le imprese sarebbe indotte ad assumere più lavoratori.
Mettendo da parte le conseguenze distributive di un taglio del costo del lavoro, si tratta, a priori, di una concezione errata che non considera che il livello dell’occupazione non dipende dal costo del lavoro ma dalla domanda generale di beni e servizi, che consente alle imprese di vendere i loro prodotti. Una riduzione del cuneo fiscale, a parità di domanda di beni e servizi, altro non implicherebbe che un aumento dei profitti a scapito della spesa sociale e a parità di occupazione, nella migliore delle ipotesi. Sarebbe, infatti, plausibile immaginare anche una diminuzione della domanda aggregata per via della caduta della sua componente statale, e quindi una diminuzione dell’occupazione. Proprio l’opposto di ciò che viene postulato come dogma dalla teoria economica dominante.
Il pericoloso do ut des imposto ai lavoratori, oltre a non sortire alcun tipo di effetto occupazionale positivo ed a produrre conseguenze distributive negative, sarebbe ancor più penalizzante per i lavoratori se si considerano tutte le insidie della proposta di salario minimo e, soprattutto, ciò che effettivamente potrebbe accadere al testo prima che venga definitivamente tradotto in legge.
Se, ad esempio, venisse limitato il perimetro di applicazione del salario minimo, escludendo specifiche categorie di lavoratori (ad esempio, come si è vociferato, gli agricoli, gli under 30, e i collaboratori domestici), o se, in maniera ancor più deleteria, il testo della legge non facesse riferimento ai minimi tabellari bensì alla retribuzione complessiva, gli effetti dell’introduzione del salario minimo sarebbero pressoché nulli.
Per queste ragioni, ridurre il cuneo fiscale nell’attesa dell’entrata in vigore di un salario minimo vorrebbe dire accettare uno scambio simile a quello che Bortolotti spacciava per vantaggioso a Canà: si tratterebbe di cedere o ridimensionare, oggi, le poche certezze che restano ai lavoratori (una pensione già compromessa da anni di controriforme, una scuola ed una sanità pubblica devastate ma ancora esistenti, o dei trasporti che, sebbene fatiscenti per via dell’austerità, ancora costano 1 euro e mezzo), per ottenere, forse, un domani, un aumento della retribuzione.
D’altronde, siamo già abituati ad assistere a fregature di questa portata: nel 1993 ad esempio, con la promessa di maggiori investimenti, gli imprenditori ottennero la riforma della contrattazione collettiva. Il risultato è tristemente noto: i salari reali sono caduti e degli investimenti nemmeno l’ombra.
Sulla proposta di salario minimo ci siamo già espressi, senza mezzi termini: se vogliamo avere una qualche utilità, abbiamo il dovere di insinuarci anche nelle più piccole contraddizioni di questo Governo, per strappare anche il più piccolo miglioramento nelle condizioni materiali della classe lavoratrice.
Tuttavia, nonostante queste piccole increspature, l’attuale compagine governativa si rivela ogni giorno sempre più assoggettata ai diktat europei, agli interessi dei poteri dominanti e alla visione prevalente del sistema economico: la dialettica di questi giorni sul salario minimo e sul cuneo fiscale, con il vicepremier Di Maio che ha dichiarato di essere pronto ad accettare uno scambio del genere, ci porta, ancora una volta, a considerare quello gialloverde come l’ennesimo esecutivo al servizio del padrun.