In Italia nonostante gli ottomila chilometri di costa tra la Penisola, le due isole maggiori e le oltre 800 isole minori,
ogni estate trovare una spiaggia libera è davvero un’impresa.
E le poche che ci sono, sono ubicate in porzioni di costa di "Serie B”,
vicino alle foci di fiumi, fossi o fognature e quindi dove la
balneazione è vietata. Non che ci volesse chissà cosa a dimostrarlo,
visto che ciascuno di noi se ne rende perfettamente conto cercando di
raggiungere il mare, ma ora c'è qualche dato ulteriore a dimostrazione
di questa situazione.
Legambiente ha pubblicato
il dossier "Le spiagge sono di tutti!”
(un auspicio ovviamente, non certo la realtà di oggi) per denunciare il
fenomeno della privatizzazione delle coste italiane, delle concessioni
senza controlli e dei canoni bassissimi a fronte di guadagni enormi per
gli stabilimenti e di un misero introito per lo Stato (nel 2016 ha
incassato poco più di 103 milioni di euro).
Nella Penisola sono ben
52.619 le concessioni demaniali marittime,
di cui 27.335, sono per uso "turistico ricreativo” e le altre
distribuite su vari utilizzi, da pesca e acquacoltura a diporto,
produttivo (dati del MIT). Si tratta di
19,2 milioni di metri quadri di spiagge sottratti alla libera fruizione.
Se si considera un dato medio (sottostimato) di 100 metri lineari per
ognuna delle 27mila concessioni esistenti, si può stimare che oltre il
60% delle coste sabbiose in Italia è occupato da stabilimenti balneari.
In alcuni Comuni si arriva al 90% di spiagge occupate da concessioni balneari.
Ad esempio in Emilia-Romagna solo il 23% della costa presenta spiagge
libere, ed in Liguria il 14%, ma i dati sono molto differenti tra le
Regioni e nessun Ministero si occupa di monitorare quanto sta avvenendo.
Tra i casi più incredibili quello di Mondello, poco più di un
chilometro e mezzo di sabbia finissima al 90% in concessione, e
pochissimi lidi che consentono il passaggio alla battigia. A Santa
Margherita Ligure gli spazi liberi sono solo l’11% del totale. E poi in
Romagna, a Rimini, dove non si raggiunge nemmeno il 10% di spiagge
libere. A Forte dei Marmi sono 100 gli stabilimenti su circa 5 km di
costa. A Bacoli, in Campania, il Comune ha previsto che il 20% della
costa debba essere adibito a spiaggia pubblica, ma ad oggi, non siamo
nemmeno al 2%!
E poi c’è il problema dei controlli sulle spiagge date in
concessione, dove spesso si impedisce alle persone di accedere al mare,
con veri e propri muri lunghi chilometri, come sul litorale di Ostia, a
Roma. Per questo Legambiente chiede una legge quadro nazionale per
tutelare gli arenili italiani e i diritti di tutti i cittadini ad avere
lidi liberi, gratuiti e accessibili. Per l’associazione ambientalista
tale provvedimento dovrebbe prevedere quattro punti chiave: almeno il
60% delle spiagge deve essere lasciato alla libera fruizione; occorre
premiare la qualità nelle assegnazioni in concessione; definire canoni
adeguati e risorse da utilizzare per la riqualificazione ambientale;
garantire controlli e legalità lungo la costa.
"Ormai è sotto gli occhi di tutti – spiega
Edoardo Zanchini,
Vicepresidente nazionale di Legambiente – la distesa interminabile di
stabilimenti balneari che, dal Tirreno all’Adriatico passando per lo
Jonio, costellano le coste della nostra Penisola. In modo progressivo
cabine e strutture, ristoranti, centri benessere e discoteche stanno
occupando larghe fette della battigia. Inoltre
il numero delle
concessioni cresce, i canoni che si pagano sono molto bassi, e nessuno
controlla come questo processo sta andando avanti. Il rischio è
che si continui in una corsa a occupare ogni metro delle spiagge
italiane con stabilimenti che, in assenza di controlli come avvenuto
fino ad oggi, di fatto rendono le coste italiane delle coste
privatizzate quando invece le spiagge sono di tutti. Per questo
chiediamo l’istituzione di una legge nazionale che preveda, tra i vari
punti, che almeno il 60% delle spiagge venga lasciato alla libera
fruizione e che vengano definiti canoni adeguati e risorse da utilizzare
per la riqualificazione ambientale”.
Ad oggi, ricorda l’associazione ambientalista,
manca un provvedimento ad hoc che fissi quale quota di spiaggia debba essere mantenuta libera per l'accesso di tutti
e proprio questa "assenza normativa” ha portato alcune Regioni, in
alcuni casi, ad intervenire con risultati a volte buoni a volte
insufficienti. Tra i casi virtuosi, la Puglia, la Sardegna e il Lazio.
In Puglia con la Legge regionale 17/2006 ha fissato una percentuale
di spiagge libere maggiore (60%) rispetto a quelle da poter dare in
concessione (40%). La Sardegna ha approvato delle "Linee guida per la
predisposizione del Piano di utilizzo dei litorali” che definisce
criteri in relazione alla natura e alla morfologia della spiaggia e
stabiliscono un minimo del 60% di spiaggia libera, che nei litorali
integri deve raggiungere l’80%. Il Lazio ha fissato al 50% la
percentuale di costa da lasciare libera ed i Comuni non in regola non
potranno più rilasciare nuove concessioni.
Tra le situazioni negative, indicate nel dossier, c’è
l’Emilia-Romagna che con la Legge Regionale n. 9/2002 ha imposto un
limite minimo (ed irrisorio) del 20% della linea di costa dedicato a
spiagge libere, ma solo nei pochi tratti dominati dune e zone umide
viene rispettata la Legge. Le percentuali rimangono comunque molto basse
anche in Molise (dove la Legge Regionale del 2006 prevede il 30% di
spiagge libere ma non è applicata dai PSC dei 4 Comuni costieri), in
Calabria (la quota è del 30%), nelle Marche del 25%, mentre in Campania
ed Abruzzo solo del 20%. In 5 Regioni (Toscana, Basilicata, Sicilia,
Friuli Venezia Giulia e Veneto) non esiste invece nessuna norma che
specifichi una percentuale minima di costa destinata alle spiagge libere
o libere attrezzate.
Canoni e concessioni
L’alternativa alla spiaggia libera è quella in concessione. Per i
lidi sottratti alla libera fruizione si pagano però canoni demaniali
bassissimi, a fronte di guadagni enormi. Nel 2016 lo Stato ha incassato
poco più di 103 milioni di euro dalle concessioni a fronte di un giro di
affari stimato da Nomisma di 15 miliardi di euro annui. Si tratta di
6.106 euro a chilometro quadrato contro una media di entrate per le
casse pubbliche di circa 4 mila euro all’anno a stabilimento. Nel
dettaglio i dati sulle entrate derivate dai canoni, presentati dal
Governo nel 2016, sono ancor più clamorosi se analizzati per Regione. Ai
primi due posti ci sono Toscana e Liguria con poco più di 11 milioni
l’anno. Poi vengono Lazio (10,4 milioni), Veneto (9,527 milioni),
Emilia-Romagna (8,9 milioni), Sardegna, Puglia e Campania (tutte sopra i
7 milioni) e Calabria con poco più di 5 milioni. E poi ancora in
Basilicata 452mila euro ed in Sicilia dove gli incassi sono appena
81.491 euro.
Nel report Legambiente ricorda che nel 2009 l’UE ha
avviato una procedura di infrazione nei confronti dell’Italia, chiedendo
la messa a gara delle concessioni visto che la Direttiva Bolkestein del
2006 prevede la possibilità, anche per operatori di altri Paesi
dell’Ue, di partecipare ai bandi pubblici per l’assegnazione. L’Italia,
ignorando i moniti UE, ha disposto la proroga automatica delle
concessioni fino al 31 dicembre 2020. Ma la Corte di Giustizia UE l’ha
bocciata con una sentenza del luglio del 2016.
Negli altri Paesi cosa succede?
Negli altri Paesi europei i principali temi - spiagge da garantire
alla libera fruizione, canoni di concessione e criteri di assegnazione,
controlli - sono affrontati in modo coerente e su obiettivi trasparenti
di tutela delle aree costiere, di garanzia di una libera fruizione, di
regole trasparenti per le assegnazioni in concessione. Ad esempio in
Francia la durata delle concessioni per le spiagge non supera i 12 anni e
soprattutto l'80% della lunghezza e l'80% della superficie dei lidi
devono essere liberi da costruzioni per sei mesi l'anno: gli
stabilimenti vanno quindi rigorosamente montati e poi smontati. La
Croazia, tra i vari interventi che ha messo in atto, ha previsto anche
il divieto di costruire qualsiasi opera (dai chioschi ai ristoranti) per
una distanza minima di 1 km stabilendo una continua ed unica "Area
protetta costiera” di alto valore naturale, culturale e storico. Tra i
principi espressi dalla normativa croata si sottolinea l’importanza
della libera accessibilità alla costa e della conservazione delle isole
disabitate senza possibilità di costruire. Le costruzioni esistenti che
si trovano nella fascia a 100 metri dalla costa non possono in nessun
modo essere ampliate, mentre per le nuove costruzioni vige il divieto di
realizzarne entro una zona distante 1.000 metri dalla costa.