Via dei Georgofili, via Palestro, S. Giovanni, S. Giorgio al
Velabro. Sono questi i luoghi in cui, nella calda estate del 1993, le
città di Firenze, Milano e Roma furono colpite dalla furia di Cosa
nostra. In pochi mesi l'Italia ripiombò nel terrore dopo che, appena un
anno prima, erano stati già uccisi i giudici Falcone e Borsellino. Non
bastò l'arresto della belva Totò Riina, in gennaio, per fermare la
follia stragista. Le bombe continuarono a scoppiare con tutta la propria
potenza. Cambiò il fronte. Dalla Sicilia il sangue fu versato in
“Continente”. A ventitré anni di distanza, nonostante lo svolgimento di
svariati processi, sono ancora molti gli interrogativi che restano
aperti e che meriterebbero una risposta. Quel che è certo è che in quel
momento lo Stato subì un colpo durissimo tanto che gli stessi vertici
delle Istituzioni arrivarono a pensare ad un Colpo di Stato in atto.
27 luglio 1993, tutto in una notte
In una Milano spopolata, in quella sera di luglio l'agente di Polizia Locale Alessandro Ferrari notò la presenza di una Fiat Uno (che risulterà poi rubata qualche ora prima) parcheggiata in via Palestro, di fronte al Padiglione di arte contemporanea, da cui fuoriusciva un fumo biancastro e quindi richiese l'intervento dei Vigili del fuoco, che accertarono la presenza di un ordigno all'interno dell'auto. Fu un attimo e l'autobomba esplose uccidendo l'agente Alessandro Ferrari e i vigili del fuoco Carlo La Catena, Sergio Pasotto e Stefano Picerno ma anche l'immigrato marocchino Moussafir Driss, che venne raggiunto da un pezzo di lamiera mentre dormiva su una panchina.
Erano le 23,15. Il Padiglione di Arte Contemporanea venne completamente distrutto ed altre dodici persone rimasero ferite. Pochi minuti dopo la stessa scena si verificò a Roma quando due ordigni esplosero, uno sul retro della Basilica di San Giovanni in Laterano dove ha sede la Curia. L’altro davanti alla chiesa di San Giorgio al Velabro. Nelle stesse ore venne registrato un black out a palazzo Chigi, la sede del Governo e le linee telefoniche rimasero isolate per alcune ore. Quegli attentati vennero messi subito in relazione a quelli in via Fauro a Roma (14 maggio 1993) e in via dei Georgofili a Firenze (27 maggio 1993, 5 morti).
�Le indagini ed i processi
Parte della verità sulla strage di via Palestro venne ricostruita grazie alle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia Pietro Carra, Antonio Scarano, Emanuele Di Natale e Umberto Maniscalco. Così, nel 1998, Cosimo Lo Nigro, Giuseppe Barranca, Francesco Giuliano, Gaspare Spatuzza, Luigi Giacalone, Salvatore Benigno, Antonio Scarano, Antonino Mangano e Salvatore Grigoli vennero riconosciuti come esecutori materiali della strage di via Palestro nella sentenza per le stragi del 1993. Tuttavia nella sentenza veniva anche messo nero su bianco che: “Purtroppo, la mancata individuazione della base delle operazioni a Milano e dei soggetti che in questa città ebbero, sicuramente, a dare sostegno logistico e contributo manuale alla strage non ha consentito di penetrare in quelle realtà che, come dimostrato dall’investigazione condotta nelle altre vicende all’esame di questa Corte, si sono rivelate più promettenti sotto il profilo della verifica 'esterna'”.�Un nuovo capitolo si è poi aperto nel 2002 quando, sempre in base alle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia Carra e Scarano, la Procura di Firenze dispose l'arresto dei fratelli Tommaso e Giovanni Formoso ("uomini d'onore" di Misilmeri), identificati dalle indagini come coloro che aiutarono Lo Nigro nello scarico dell'esplosivo ad Arluno e che compirono materialmente l'attentato. I fratelli Formoso vennero condannati nel 2003 all'ergastolo dalla Corte d'Assise di Milano ed il giudizio venne confermato anche nei successivi gradi di giudizio.
via dei georgofili 610
La strage di via dei Georgofili
Spatuzza ed i frammenti di verità
Nuovi frammenti di verità sulle stragi del 1993 sono stati portati nel 2008 grazie al pentimento di Gaspare Spatuzza. L'ex boss di Brancaccio in particolare riferì che lui, Cosimo Lo Nigro, Francesco Giuliano, Giovanni Formoso e i fratelli Filippo Marcello e Vittorio Tutino (quest'ultimo, pur essendo condannato per le stragi di Firenze e Roma, assolto in via definitiva per quella di Milano, così che non potrà più essere chiamato alla sbarra, ndr) parteciparono ad una riunione in cui vennero decisi i gruppi che dovevano operare su Roma o Milano per compiere gli attentati; secondo Spatuzza, Formoso e i fratelli Tutino operarono su Milano e in un primo momento lui, Lo Nigro e Giuliano li raggiunsero per aiutarli nello scarico dell'esplosivo e nel furto della Fiat Uno utilizzata nell'attentato, per poi tornare a Roma al fine di compiere gli attentati alle chiese. Con le sue dichiarazioni di fatto Spatuzza scagionò anche Tommaso Formoso, dichiarando che all'attentato partecipò soltanto il fratello Giovanni, che da Tommaso si era fatto prestare con una scusa la villetta di Arluno dove venne scaricato l'esplosivo. Ciò non bastò a portare alla revisione del processo tanto che nell'aprile 2012 la Corte d'Assise di Brescia rigettò la richiesta adducendo che le sole dichiarazioni di Spatuzza non bastavano.
Con le stesse motivazioni, di fatto, nel giugno 2015 è stato assolto anche Filippo Marcello Tutino (già in cella ad Opera per la condanna inflitta dal gup di Palermo a 10 anni e 8 mesi di reclusione per essere un affiliato alla famiglia mafiosa dei Brancaccio, ndr), accusato di essere stato il basista della strage. Nelle motivazioni della sentenza emessa dalla Corte d'Assise di Milano, infatti, si spiega che non basta la testimonianza di un collaboratore di giustizia, seppure attendibile, per arrivare alla condanna. “Le dichiarazioni rese da Gaspare Spatuzza in ordine alla strage di via Palestro, aventi anche carattere autoaccusatorio - scrivono i giudici - appaiono connotate da attendibilità intrinseca in base ai criteri di precisione, coerenza, costanza e spontaneità”. Mentre “appaiono infondate le contrarie deduzioni della difesa dell’imputato”. Secondo la Corte l'attendibilità di Spatuzza (accertata anche nell'ambito di altri procedimenti, ndr) “non si deve confondere con la verifica della sussistenza dei necessari riscontri alle dichiarazioni del collaboratore”. Nessuno tra gli elementi forniti da Spatuzza sul coinvolgimento di Tutino secondo giudici “assume un valore decisivo di riscontro individualizzante” a carico dell’imputato. Così come “nessun concreto elemento è ricavabile dalle dichiarazioni” di altri collaboratori di giustizia. Nonostante la “provata appartenenza” a Cosa Nostra, quindi, i giudici hanno assolto Tutino dall’accusa di strage con la formula “per non aver commesso il fatto”.
Il pm della Dda di Milano Paolo Storari, che aveva chiesto la condanna all’ergastolo, ha presentato lo scorso dicembre ricorso in appello contro l'assoluzione.
Secondo il pm la strage di via Palestro si inseriva “nella più ampia strategia stragista che andava da Capaci, passando per via D’Amelio, via dei Georgofili, l’attentato a Maurizio Costanzo e il fallito attentato allo stadio Olimpico”.
Il caos e la firma di Cosa nostra
Il sospetto che dietro a quelle stragi vi fosse la mano di Cosa nostra emerse sin da subito e le indagini passarono in fretta dalla procura di Milano a quella di Firenze in quanto l'esplosivo utilizzato nell'attentato era lo stesso di quello utilizzato in via dei Georgofili.
Oggi quale fosse il clima che si respirava all'epoca lo sappiamo con più certezza anche grazie alle deposizioni di tanti smemorati di Stato al processo trattativa Stato-mafia. A cominciare dall'ex Capo dello Stato, Giorgio Napolitano. Davanti alla Corte d'assise di Palermo ha confermato che dopo le bombe del '93 ai livelli più alti delle istituzioni di allora si ebbe immediatamente la consapevolezza di un attacco diretto da parte della mafia. L'ex presidente parlò esplicitamente “di un aut-aut nei confronti dello Stato da parte della mafia corleonese per alleggerire la pressione detentiva o, in caso contrario, proseguire nella strategia destabilizzante dello Stato”. Parole che ben fanno comprendere il clima teso dell’epoca, nel quale si sono consumate le stragi del ’92 e ‘93.
Anche l'ex Presidente del Consiglio Carlo Azeglio Ciampi fornì importanti tasselli per fornire una chiave di lettura. Ciampi, all'epoca, era particolarmente preoccupato per lo strano black-out di Palazzo Chigi. Dopo la notte delle bombe, annunciò di voler riformare i servizi segreti e il 2 agosto 1993, partecipando a sorpresa alla commemorazione della strage di Bologna del 1980, intervenne dal palco: “È contro questa concreta prospettiva di uno Stato rinnovato che si è scatenata una torbida alleanza di forze che perseguono obiettivi congiunti di destabilizzazione politica e di criminalità comune”. Anni dopo, ai pm di Palermo, ha aggiunto: “Ebbi paura che fossimo a un passo da un colpo di Stato. Lo pensai allora, e mi creda, lo penso ancora oggi”.
Ed ecco dunque le domande che scorrono. A cosa si riferiva Ciampi quando parlava di “torbida alleanza di forze”?
Nel corso del tempo sono state raccolte alcune certezze come la relazione della Dia dell’agosto '93 in cui si forniva una lettura chiara sulla natura delle stragi addirittura utilizzando il termine “trattativa”. “La perdurante volontà del Governo di mantenere per i boss un regime penitenziario di assoluta durezza ha concorso alla ripresa della stagione degli attentati - scrive la Dia - Da ciò è derivata per i capi l’esigenza di riaffermare il proprio ruolo e la propria capacità di direzione anche attraverso la progettazione e l’esecuzione di attentati in grado d’indurre le Istituzioni a una tacita trattativa”. “Verosimilmente – continua la nota – la situazione di sofferenza in cui versa Cosa Nostra e la sua disperata ricerca di una sorta di soluzione politica potrebbe essersi andata a rinsaldare con interessi di altri centri di potere, oggetto di analoga aggressione da parte delle istituzioni, ed aver dato vita ad un pactum sceleris attraverso l’elaborazione di un progetto che tende a intimidire e distogliere l’attenzione dello Stato per assicurare forme d’impunità ovvero innestarsi nel processo di rinnovamento politico e istituzionale in atto nel nostro paese per condizionarlo”.
Gli investigatori della Direzione antimafia avvertono anche i rischi che si sarebbero corsi qualora vi fosse una revoca “anche solo parziale dei decreti che dispongono l’applicazione dell’Art. 41 bis”. Questa infatti “potrebbe rappresentare il primo concreto cedimento dello Stato, intimidito dalla stagione delle bombe”. Il risultato? Nel novembre successivo, appena due mesi dopo l’arrivo della al Ministero degli Interni, il Ministro della Giustizia Giovanni Conso lascerà scadere il regime di 41 bis per 373 detenuti mafiosi.
Se su questi fatti si sta indagando e si sta svolgendo un processo a Palermo vi sono anche elementi sulla strage che andrebbero approfonditi.
san giovanni in laterano 610
La Basilica di San Giovanni in Laterano
Punto di domanda
Un primo interrogativo riguarda proprio la scelta dei luoghi da colpire. Attentare al patrimonio artistico e culturale di un Paese, non manifesta solo la volontà di metterlo all'angolo, ma quasi annientarlo. “Ti immagini se l'Italia si sveglia e non trova più la Torre di Pisa?”, avevano suggerito a Nino Gioè, nel tentare di convincere la mafia a procedere con gli attentati per tutta la Nazione. A dargli l'idea, forse, la Primula Nera, l'ex terrorista nero e legato ai servizi segreti, Paolo Bellini. Il sospetto che dietro a quegli attentati non vi fosse solo Cosa nostra è più che legittimo. Chi ha indicato alla mafia i luighi da colpire? Sicuramente appare difficile pensare che i boss palermitani siano stati grandi esperti d'arte da sapere che in via Palestro vi fosse il PAC (Padiglione d’Arte Contemporanea) ed è un dato di fatto che, sul piano artistico, di luoghi da colpire ve ne fossero di più importanti. Del resto vi è persino il dubbio che sia stato veramente questo l'obiettivo. Proprio Spatuzza ha dichiarato che “a Milano sorsero problemi e l’obiettivo venne mancato di 150 metri”.
A circa cento metri dal museo si sarebbe trovata una sede massonica: il Centro Europeo di comunicazione, guidato dal Gran Maestro Giuliano Di Bernardo. Poco distante, poi, vi era presumibilmente un ufficio dei Servizi Segreti ed anche gli uffici di Marcello Dell'Utri, oggi imputato al processo trattativa Stato-mafia e condannato per concorso esterno in associazione mafiosa. Quella bomba esplosa in anticipo, che secondo i pentiti non avrebbe dovuto fare vittime, doveva essere un messaggio per queste organizzazioni o per lo stesso ex senatore?
Resta avvolto nel mistero chi ha acceso la miccia o chi ha guidato l'auto fino al PAC. Assolti entrambi i fratelli Tutino, vi sono dei testimoni che parlano di una donna, bella, bionda e magra, probabilmente sotto i trent'anni (identikit simile a quello fornito da altri testimoni sull’attentato di via Fauro a Roma). Potrebbe essere stata lei a parcheggiare la Fiat Uno per poi dileguarsi su un'altra autovettura con due uomini a bordo. Quell'identikit però sparisce completamente dalle indagini e, di cosneguenza, anche dalle sentenze. �Un altro nome che non finì mai nelle inchieste è quello di Roberto Enea, capo di Cosa nostra a Milano. Vi sarebbero delle riprese che lo ritraevano mentre si allontanava frettolosamente da via Palestro proprio poco dopo l'esplosione. Se si considerano le regole di Cosa nostra appare inverosimile che non fosse stato informato sull'attentato che si doveva compiere. Ad oltre vent'anni dalle stragi, dunque, restano gli interrogativi ed un'attesa di verità e giustizia da parte dei familiari delle vittime. Un'attesa che, si spera, non sia eterna.
27 luglio 1993, tutto in una notte
In una Milano spopolata, in quella sera di luglio l'agente di Polizia Locale Alessandro Ferrari notò la presenza di una Fiat Uno (che risulterà poi rubata qualche ora prima) parcheggiata in via Palestro, di fronte al Padiglione di arte contemporanea, da cui fuoriusciva un fumo biancastro e quindi richiese l'intervento dei Vigili del fuoco, che accertarono la presenza di un ordigno all'interno dell'auto. Fu un attimo e l'autobomba esplose uccidendo l'agente Alessandro Ferrari e i vigili del fuoco Carlo La Catena, Sergio Pasotto e Stefano Picerno ma anche l'immigrato marocchino Moussafir Driss, che venne raggiunto da un pezzo di lamiera mentre dormiva su una panchina.
Erano le 23,15. Il Padiglione di Arte Contemporanea venne completamente distrutto ed altre dodici persone rimasero ferite. Pochi minuti dopo la stessa scena si verificò a Roma quando due ordigni esplosero, uno sul retro della Basilica di San Giovanni in Laterano dove ha sede la Curia. L’altro davanti alla chiesa di San Giorgio al Velabro. Nelle stesse ore venne registrato un black out a palazzo Chigi, la sede del Governo e le linee telefoniche rimasero isolate per alcune ore. Quegli attentati vennero messi subito in relazione a quelli in via Fauro a Roma (14 maggio 1993) e in via dei Georgofili a Firenze (27 maggio 1993, 5 morti).
�Le indagini ed i processi
Parte della verità sulla strage di via Palestro venne ricostruita grazie alle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia Pietro Carra, Antonio Scarano, Emanuele Di Natale e Umberto Maniscalco. Così, nel 1998, Cosimo Lo Nigro, Giuseppe Barranca, Francesco Giuliano, Gaspare Spatuzza, Luigi Giacalone, Salvatore Benigno, Antonio Scarano, Antonino Mangano e Salvatore Grigoli vennero riconosciuti come esecutori materiali della strage di via Palestro nella sentenza per le stragi del 1993. Tuttavia nella sentenza veniva anche messo nero su bianco che: “Purtroppo, la mancata individuazione della base delle operazioni a Milano e dei soggetti che in questa città ebbero, sicuramente, a dare sostegno logistico e contributo manuale alla strage non ha consentito di penetrare in quelle realtà che, come dimostrato dall’investigazione condotta nelle altre vicende all’esame di questa Corte, si sono rivelate più promettenti sotto il profilo della verifica 'esterna'”.�Un nuovo capitolo si è poi aperto nel 2002 quando, sempre in base alle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia Carra e Scarano, la Procura di Firenze dispose l'arresto dei fratelli Tommaso e Giovanni Formoso ("uomini d'onore" di Misilmeri), identificati dalle indagini come coloro che aiutarono Lo Nigro nello scarico dell'esplosivo ad Arluno e che compirono materialmente l'attentato. I fratelli Formoso vennero condannati nel 2003 all'ergastolo dalla Corte d'Assise di Milano ed il giudizio venne confermato anche nei successivi gradi di giudizio.
via dei georgofili 610
La strage di via dei Georgofili
Spatuzza ed i frammenti di verità
Nuovi frammenti di verità sulle stragi del 1993 sono stati portati nel 2008 grazie al pentimento di Gaspare Spatuzza. L'ex boss di Brancaccio in particolare riferì che lui, Cosimo Lo Nigro, Francesco Giuliano, Giovanni Formoso e i fratelli Filippo Marcello e Vittorio Tutino (quest'ultimo, pur essendo condannato per le stragi di Firenze e Roma, assolto in via definitiva per quella di Milano, così che non potrà più essere chiamato alla sbarra, ndr) parteciparono ad una riunione in cui vennero decisi i gruppi che dovevano operare su Roma o Milano per compiere gli attentati; secondo Spatuzza, Formoso e i fratelli Tutino operarono su Milano e in un primo momento lui, Lo Nigro e Giuliano li raggiunsero per aiutarli nello scarico dell'esplosivo e nel furto della Fiat Uno utilizzata nell'attentato, per poi tornare a Roma al fine di compiere gli attentati alle chiese. Con le sue dichiarazioni di fatto Spatuzza scagionò anche Tommaso Formoso, dichiarando che all'attentato partecipò soltanto il fratello Giovanni, che da Tommaso si era fatto prestare con una scusa la villetta di Arluno dove venne scaricato l'esplosivo. Ciò non bastò a portare alla revisione del processo tanto che nell'aprile 2012 la Corte d'Assise di Brescia rigettò la richiesta adducendo che le sole dichiarazioni di Spatuzza non bastavano.
Con le stesse motivazioni, di fatto, nel giugno 2015 è stato assolto anche Filippo Marcello Tutino (già in cella ad Opera per la condanna inflitta dal gup di Palermo a 10 anni e 8 mesi di reclusione per essere un affiliato alla famiglia mafiosa dei Brancaccio, ndr), accusato di essere stato il basista della strage. Nelle motivazioni della sentenza emessa dalla Corte d'Assise di Milano, infatti, si spiega che non basta la testimonianza di un collaboratore di giustizia, seppure attendibile, per arrivare alla condanna. “Le dichiarazioni rese da Gaspare Spatuzza in ordine alla strage di via Palestro, aventi anche carattere autoaccusatorio - scrivono i giudici - appaiono connotate da attendibilità intrinseca in base ai criteri di precisione, coerenza, costanza e spontaneità”. Mentre “appaiono infondate le contrarie deduzioni della difesa dell’imputato”. Secondo la Corte l'attendibilità di Spatuzza (accertata anche nell'ambito di altri procedimenti, ndr) “non si deve confondere con la verifica della sussistenza dei necessari riscontri alle dichiarazioni del collaboratore”. Nessuno tra gli elementi forniti da Spatuzza sul coinvolgimento di Tutino secondo giudici “assume un valore decisivo di riscontro individualizzante” a carico dell’imputato. Così come “nessun concreto elemento è ricavabile dalle dichiarazioni” di altri collaboratori di giustizia. Nonostante la “provata appartenenza” a Cosa Nostra, quindi, i giudici hanno assolto Tutino dall’accusa di strage con la formula “per non aver commesso il fatto”.
Il pm della Dda di Milano Paolo Storari, che aveva chiesto la condanna all’ergastolo, ha presentato lo scorso dicembre ricorso in appello contro l'assoluzione.
Secondo il pm la strage di via Palestro si inseriva “nella più ampia strategia stragista che andava da Capaci, passando per via D’Amelio, via dei Georgofili, l’attentato a Maurizio Costanzo e il fallito attentato allo stadio Olimpico”.
Il caos e la firma di Cosa nostra
Il sospetto che dietro a quelle stragi vi fosse la mano di Cosa nostra emerse sin da subito e le indagini passarono in fretta dalla procura di Milano a quella di Firenze in quanto l'esplosivo utilizzato nell'attentato era lo stesso di quello utilizzato in via dei Georgofili.
Oggi quale fosse il clima che si respirava all'epoca lo sappiamo con più certezza anche grazie alle deposizioni di tanti smemorati di Stato al processo trattativa Stato-mafia. A cominciare dall'ex Capo dello Stato, Giorgio Napolitano. Davanti alla Corte d'assise di Palermo ha confermato che dopo le bombe del '93 ai livelli più alti delle istituzioni di allora si ebbe immediatamente la consapevolezza di un attacco diretto da parte della mafia. L'ex presidente parlò esplicitamente “di un aut-aut nei confronti dello Stato da parte della mafia corleonese per alleggerire la pressione detentiva o, in caso contrario, proseguire nella strategia destabilizzante dello Stato”. Parole che ben fanno comprendere il clima teso dell’epoca, nel quale si sono consumate le stragi del ’92 e ‘93.
Anche l'ex Presidente del Consiglio Carlo Azeglio Ciampi fornì importanti tasselli per fornire una chiave di lettura. Ciampi, all'epoca, era particolarmente preoccupato per lo strano black-out di Palazzo Chigi. Dopo la notte delle bombe, annunciò di voler riformare i servizi segreti e il 2 agosto 1993, partecipando a sorpresa alla commemorazione della strage di Bologna del 1980, intervenne dal palco: “È contro questa concreta prospettiva di uno Stato rinnovato che si è scatenata una torbida alleanza di forze che perseguono obiettivi congiunti di destabilizzazione politica e di criminalità comune”. Anni dopo, ai pm di Palermo, ha aggiunto: “Ebbi paura che fossimo a un passo da un colpo di Stato. Lo pensai allora, e mi creda, lo penso ancora oggi”.
Ed ecco dunque le domande che scorrono. A cosa si riferiva Ciampi quando parlava di “torbida alleanza di forze”?
Nel corso del tempo sono state raccolte alcune certezze come la relazione della Dia dell’agosto '93 in cui si forniva una lettura chiara sulla natura delle stragi addirittura utilizzando il termine “trattativa”. “La perdurante volontà del Governo di mantenere per i boss un regime penitenziario di assoluta durezza ha concorso alla ripresa della stagione degli attentati - scrive la Dia - Da ciò è derivata per i capi l’esigenza di riaffermare il proprio ruolo e la propria capacità di direzione anche attraverso la progettazione e l’esecuzione di attentati in grado d’indurre le Istituzioni a una tacita trattativa”. “Verosimilmente – continua la nota – la situazione di sofferenza in cui versa Cosa Nostra e la sua disperata ricerca di una sorta di soluzione politica potrebbe essersi andata a rinsaldare con interessi di altri centri di potere, oggetto di analoga aggressione da parte delle istituzioni, ed aver dato vita ad un pactum sceleris attraverso l’elaborazione di un progetto che tende a intimidire e distogliere l’attenzione dello Stato per assicurare forme d’impunità ovvero innestarsi nel processo di rinnovamento politico e istituzionale in atto nel nostro paese per condizionarlo”.
Gli investigatori della Direzione antimafia avvertono anche i rischi che si sarebbero corsi qualora vi fosse una revoca “anche solo parziale dei decreti che dispongono l’applicazione dell’Art. 41 bis”. Questa infatti “potrebbe rappresentare il primo concreto cedimento dello Stato, intimidito dalla stagione delle bombe”. Il risultato? Nel novembre successivo, appena due mesi dopo l’arrivo della al Ministero degli Interni, il Ministro della Giustizia Giovanni Conso lascerà scadere il regime di 41 bis per 373 detenuti mafiosi.
Se su questi fatti si sta indagando e si sta svolgendo un processo a Palermo vi sono anche elementi sulla strage che andrebbero approfonditi.
san giovanni in laterano 610
La Basilica di San Giovanni in Laterano
Punto di domanda
Un primo interrogativo riguarda proprio la scelta dei luoghi da colpire. Attentare al patrimonio artistico e culturale di un Paese, non manifesta solo la volontà di metterlo all'angolo, ma quasi annientarlo. “Ti immagini se l'Italia si sveglia e non trova più la Torre di Pisa?”, avevano suggerito a Nino Gioè, nel tentare di convincere la mafia a procedere con gli attentati per tutta la Nazione. A dargli l'idea, forse, la Primula Nera, l'ex terrorista nero e legato ai servizi segreti, Paolo Bellini. Il sospetto che dietro a quegli attentati non vi fosse solo Cosa nostra è più che legittimo. Chi ha indicato alla mafia i luighi da colpire? Sicuramente appare difficile pensare che i boss palermitani siano stati grandi esperti d'arte da sapere che in via Palestro vi fosse il PAC (Padiglione d’Arte Contemporanea) ed è un dato di fatto che, sul piano artistico, di luoghi da colpire ve ne fossero di più importanti. Del resto vi è persino il dubbio che sia stato veramente questo l'obiettivo. Proprio Spatuzza ha dichiarato che “a Milano sorsero problemi e l’obiettivo venne mancato di 150 metri”.
A circa cento metri dal museo si sarebbe trovata una sede massonica: il Centro Europeo di comunicazione, guidato dal Gran Maestro Giuliano Di Bernardo. Poco distante, poi, vi era presumibilmente un ufficio dei Servizi Segreti ed anche gli uffici di Marcello Dell'Utri, oggi imputato al processo trattativa Stato-mafia e condannato per concorso esterno in associazione mafiosa. Quella bomba esplosa in anticipo, che secondo i pentiti non avrebbe dovuto fare vittime, doveva essere un messaggio per queste organizzazioni o per lo stesso ex senatore?
Resta avvolto nel mistero chi ha acceso la miccia o chi ha guidato l'auto fino al PAC. Assolti entrambi i fratelli Tutino, vi sono dei testimoni che parlano di una donna, bella, bionda e magra, probabilmente sotto i trent'anni (identikit simile a quello fornito da altri testimoni sull’attentato di via Fauro a Roma). Potrebbe essere stata lei a parcheggiare la Fiat Uno per poi dileguarsi su un'altra autovettura con due uomini a bordo. Quell'identikit però sparisce completamente dalle indagini e, di cosneguenza, anche dalle sentenze. �Un altro nome che non finì mai nelle inchieste è quello di Roberto Enea, capo di Cosa nostra a Milano. Vi sarebbero delle riprese che lo ritraevano mentre si allontanava frettolosamente da via Palestro proprio poco dopo l'esplosione. Se si considerano le regole di Cosa nostra appare inverosimile che non fosse stato informato sull'attentato che si doveva compiere. Ad oltre vent'anni dalle stragi, dunque, restano gli interrogativi ed un'attesa di verità e giustizia da parte dei familiari delle vittime. Un'attesa che, si spera, non sia eterna.
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