L’annuncio della settimana scorsa da parte degli Stati Uniti circa
il più grande pacchetto di aiuti militari dati a Israele nella sua
storia,– è stata una vittoria per entrambe le parti.
Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha potuto vantarsi che le sue pressioni avevano incrementato gli aiuti da 3,1 miliardi di dollari all’anno, a 3,8 miliardi di dollari all’anno – un aumento del 22% – per un decennio, a partire dal 2019.
Netanyahu ha presentato questo come uno scacco per coloro che lo accusano di mettere a rischio gli interessi della sicurezza di Israele con i suoi ripetuti affronti alla Casa Bianca.
Soltanto nelle scorse settimane, Avigdor Lieberman ha paragonato il patto nucleare dell’anno scorso tra Washington e l’Iran con il patto di Monaco del 1938 che aveva rinforzato Hitler; Netanyahu ha insinuato che l’opposizione degli Stati Uniti all’espansione degli insediamenti è uguale all’appoggio per la “pulizia etnica” degli ebrei.
Nel frattempo, il presidente americano Barack Obama, spera di trattenere i suoi critici che insinuano che sia anti-israeliano. L’accordo dovrebbe servire come stimolo anche a Hillary Clinton, la candidata del Partito Democratico a succedere a Obama nell’elezione di novembre.
In realtà, tuttavia, l’amministrazione Obama ha tranquillamente punito Netanyahu per il suo cattivo comportamento. Le aspettative di Israele di un accordo per 4,5 miliardi di dollari all’anno erano stati ridotti dopo che l’anno scorso Netanyahu aveva bloccato i negoziati quando cercava di portare il Congresso dalla sua parte nella battaglia contro il patto con l’Iran.
Di fatto, Israele riceve già circa 3,8 miliardi di dollari se viene incluso l’aiuto del Congresso per lo sviluppo dei programmi di difesa missilistica. In particolare, Israele è stato costretto a promettere di non rivolgersi al Congresso per avere finanziamenti extra.
L’accordo di Netanyahu su questi termini ha fatto inferocire i lealisti del Congresso come il senatore Repubblicano Lindsay Graham si era schierato dalla parte di Netanyahu per ottenere un sussidio anche maggiore dai contribuenti americani. Venerdì ha accusato il primo ministro israeliano di “averci tirato via il tappeto da sotto i piedi”.
Come ha anche fatto notare Ehud Barack, l’ex ministro della difesa di Netanyahu,
in una serie di interviste alla televisione israeliana che il patto non tiene conto o dell’inflazione o dell’svalutazione del dollaro rispetto allo shekel.
Un colpo anche più forte è la richiesta della Casa Bianca di eliminare una speciale esenzione che permetteva a Israele di spendere localmente quasi il 40% degli aiuti per acquisti di armi e combustibile. Israele presto dovrà comprare tutti i suoi armamenti dagli Stati Uniti, mettendo fine a quello che equivaleva a un sussidio per la sua industria delle armi.
Netanyahu ha preferito firmare il patto ora piuttosto che aspettare fino a quando si insedierà il nuovo presidente, anche se la Clinton e il suo sfidante Repubblicano, Donald Trump, si suppone che saranno anche più codardi verso Israele. Questo sembra riflettere il timore di Netanyahu che l’ambiente politico degli Stati Uniti sarà più incerto dopo l’elezione e potrebbe provocare lunghi ritardi per l’accordo e apprensione circa le implicazioni per Israele della generale opposizione di Trump all’aiuto straniero.
Cionondimeno, la prolungata generosità di Washington – nonostante gli insulti quasi ininterrotti – alimenta inevitabilmente le dichiarazioni che la coda di Israele si sta muovendo davanti al cane statunitense. Anche il New York Times ha definito i pacchetto di aiuti “troppo grosso”.
Fin dalla guerra del 1973, Israele ha ricevuto almeno 100 miliardi di dollari in aiuti militari e altri aiuti nascosti alla vista.
Già negli anni ’70, Washington pagava metà del bilancio militare israeliano. Oggi
Paga ancora un quinto del conto, malgrado il successo economico di Israele.
Gli Stati Uniti, però, si aspettano una ricaduta positiva per il loro massiccio investimento. Come osservò una volta il defunto politico e generale israeliano Ariel Sharon, Israele è stata un “portaerei” degli Stati Uniti in Medio Oriente, agendo come un despota regionale e compiendo operazioni che beneficiano Washington.
Quasi nessuno implica gli Stati Uniti negli attacchi israeliani che hanno eliminato i programmi nucleari dell’Iraq e della Siria. Tuttavia, un Iraq o una Siria provviste di armi nucleari, avrebbero scoraggiato mosse successive appoggiate dagli Stati Uniti per rovesciare il regime e avrebbero anche contrastato il vantaggio strategico che Israele trae dal suo ampio arsenale nucleare.
Inoltre, l’abilità militare di Israele finanziata dagli Stati Uniti è una tripla pacchia per l’industria delle armi degli Stati Uniti, la lobby più potente del paese. I fondi pubblici vengono “travasati” per permettere a Israele di comprare regali dai fabbricanti di armi americani. Questo, a sua volta, serve come vetrina per altri clienti e spinge a un gioco infinito e redditizio di mettersi alla pari nel resto del Medio Oriente.
I primi caccia F-35 che arriveranno a Israele in dicembre, i cui vari componenti sono prodotti negli Stati Uniti, aumenteranno il clamore per l’aereo da guerra all’avanguardia.
Israele è anche un “laboratorio in prima linea”, come ha ammesso durante il fine settimana l’ex negoziatore militare israeliano Eival Gilady, dove di sviluppano sviluppa e si testano sul campo delle nuove tecnologie che poi Washington stessa può in seguito usare.
Gli Stati Uniti stanno progettando di ricomprare il sistema di intercettazione dei missili, l’Iron Dome (Cupola di ferro) – che neutralizza le minacce militari di ritorsione – che in gran parte loro avevano pagato. Israele opera strettamente anche con gli Stati Uniti per sviluppare la guerra cibernetica * come lo il virus Stuxnet che ha danneggiato il programma nucleare dell’Iran per usi civili.
Ma il messaggio più chiaro che arriva dal pacchetto di aiuti per Israele è quello trasmesso ai palestinesi: Washington non vede alcun interesse strategico pressante di porre fine all’occupazione. E’ stato contrario a Netanyahu per l’accordo con l’Iran, ma non rischierà uno scontro dannoso con Israele e i suoi lealisti al Congresso riguardo al problema della Palestina come stato.
Alcuni credono che Obama abbia firmato l’accordo per gli aiuti per ottenere la credibilità necessaria a prevalere sulla sua lobby israeliana interna e tirar fuori il coniglio dal cappello: un’iniziativa rivelata poco prima che lasci la carica e che mette Netanyahu con le spalle al muro per fargli fare la pace.
Si sono sollevate speranze da un atteso incontro alle Nazioni Unite a New York, svoltosi mercoledì. Ma i loro primi colloqui in 10 mesi sono programmati soltanto per dimostrare l’unità necessaria a confondere i critici dell’accordo per gli aiuti.
Se Obama avesse realmente voluto fare pressioni su Netanyahu, avrebbe usato l’accordo per gli aiuti come una leva. Ora Netanyahu non deve temere ritorsioni finanziarie dagli Stati Uniti, anche se intensifica l’effettiva annessione della Cisgiordania.
Netanyahu ha tratto la giusta lezione dall’accordo per gli aiuti: può agire contro i palestinesi con impunità continua e un sacco attrezzature militari degli Stati Uniti.
Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha potuto vantarsi che le sue pressioni avevano incrementato gli aiuti da 3,1 miliardi di dollari all’anno, a 3,8 miliardi di dollari all’anno – un aumento del 22% – per un decennio, a partire dal 2019.
Netanyahu ha presentato questo come uno scacco per coloro che lo accusano di mettere a rischio gli interessi della sicurezza di Israele con i suoi ripetuti affronti alla Casa Bianca.
Soltanto nelle scorse settimane, Avigdor Lieberman ha paragonato il patto nucleare dell’anno scorso tra Washington e l’Iran con il patto di Monaco del 1938 che aveva rinforzato Hitler; Netanyahu ha insinuato che l’opposizione degli Stati Uniti all’espansione degli insediamenti è uguale all’appoggio per la “pulizia etnica” degli ebrei.
Nel frattempo, il presidente americano Barack Obama, spera di trattenere i suoi critici che insinuano che sia anti-israeliano. L’accordo dovrebbe servire come stimolo anche a Hillary Clinton, la candidata del Partito Democratico a succedere a Obama nell’elezione di novembre.
In realtà, tuttavia, l’amministrazione Obama ha tranquillamente punito Netanyahu per il suo cattivo comportamento. Le aspettative di Israele di un accordo per 4,5 miliardi di dollari all’anno erano stati ridotti dopo che l’anno scorso Netanyahu aveva bloccato i negoziati quando cercava di portare il Congresso dalla sua parte nella battaglia contro il patto con l’Iran.
Di fatto, Israele riceve già circa 3,8 miliardi di dollari se viene incluso l’aiuto del Congresso per lo sviluppo dei programmi di difesa missilistica. In particolare, Israele è stato costretto a promettere di non rivolgersi al Congresso per avere finanziamenti extra.
L’accordo di Netanyahu su questi termini ha fatto inferocire i lealisti del Congresso come il senatore Repubblicano Lindsay Graham si era schierato dalla parte di Netanyahu per ottenere un sussidio anche maggiore dai contribuenti americani. Venerdì ha accusato il primo ministro israeliano di “averci tirato via il tappeto da sotto i piedi”.
Come ha anche fatto notare Ehud Barack, l’ex ministro della difesa di Netanyahu,
in una serie di interviste alla televisione israeliana che il patto non tiene conto o dell’inflazione o dell’svalutazione del dollaro rispetto allo shekel.
Un colpo anche più forte è la richiesta della Casa Bianca di eliminare una speciale esenzione che permetteva a Israele di spendere localmente quasi il 40% degli aiuti per acquisti di armi e combustibile. Israele presto dovrà comprare tutti i suoi armamenti dagli Stati Uniti, mettendo fine a quello che equivaleva a un sussidio per la sua industria delle armi.
Netanyahu ha preferito firmare il patto ora piuttosto che aspettare fino a quando si insedierà il nuovo presidente, anche se la Clinton e il suo sfidante Repubblicano, Donald Trump, si suppone che saranno anche più codardi verso Israele. Questo sembra riflettere il timore di Netanyahu che l’ambiente politico degli Stati Uniti sarà più incerto dopo l’elezione e potrebbe provocare lunghi ritardi per l’accordo e apprensione circa le implicazioni per Israele della generale opposizione di Trump all’aiuto straniero.
Cionondimeno, la prolungata generosità di Washington – nonostante gli insulti quasi ininterrotti – alimenta inevitabilmente le dichiarazioni che la coda di Israele si sta muovendo davanti al cane statunitense. Anche il New York Times ha definito i pacchetto di aiuti “troppo grosso”.
Fin dalla guerra del 1973, Israele ha ricevuto almeno 100 miliardi di dollari in aiuti militari e altri aiuti nascosti alla vista.
Già negli anni ’70, Washington pagava metà del bilancio militare israeliano. Oggi
Paga ancora un quinto del conto, malgrado il successo economico di Israele.
Gli Stati Uniti, però, si aspettano una ricaduta positiva per il loro massiccio investimento. Come osservò una volta il defunto politico e generale israeliano Ariel Sharon, Israele è stata un “portaerei” degli Stati Uniti in Medio Oriente, agendo come un despota regionale e compiendo operazioni che beneficiano Washington.
Quasi nessuno implica gli Stati Uniti negli attacchi israeliani che hanno eliminato i programmi nucleari dell’Iraq e della Siria. Tuttavia, un Iraq o una Siria provviste di armi nucleari, avrebbero scoraggiato mosse successive appoggiate dagli Stati Uniti per rovesciare il regime e avrebbero anche contrastato il vantaggio strategico che Israele trae dal suo ampio arsenale nucleare.
Inoltre, l’abilità militare di Israele finanziata dagli Stati Uniti è una tripla pacchia per l’industria delle armi degli Stati Uniti, la lobby più potente del paese. I fondi pubblici vengono “travasati” per permettere a Israele di comprare regali dai fabbricanti di armi americani. Questo, a sua volta, serve come vetrina per altri clienti e spinge a un gioco infinito e redditizio di mettersi alla pari nel resto del Medio Oriente.
I primi caccia F-35 che arriveranno a Israele in dicembre, i cui vari componenti sono prodotti negli Stati Uniti, aumenteranno il clamore per l’aereo da guerra all’avanguardia.
Israele è anche un “laboratorio in prima linea”, come ha ammesso durante il fine settimana l’ex negoziatore militare israeliano Eival Gilady, dove di sviluppano sviluppa e si testano sul campo delle nuove tecnologie che poi Washington stessa può in seguito usare.
Gli Stati Uniti stanno progettando di ricomprare il sistema di intercettazione dei missili, l’Iron Dome (Cupola di ferro) – che neutralizza le minacce militari di ritorsione – che in gran parte loro avevano pagato. Israele opera strettamente anche con gli Stati Uniti per sviluppare la guerra cibernetica * come lo il virus Stuxnet che ha danneggiato il programma nucleare dell’Iran per usi civili.
Ma il messaggio più chiaro che arriva dal pacchetto di aiuti per Israele è quello trasmesso ai palestinesi: Washington non vede alcun interesse strategico pressante di porre fine all’occupazione. E’ stato contrario a Netanyahu per l’accordo con l’Iran, ma non rischierà uno scontro dannoso con Israele e i suoi lealisti al Congresso riguardo al problema della Palestina come stato.
Alcuni credono che Obama abbia firmato l’accordo per gli aiuti per ottenere la credibilità necessaria a prevalere sulla sua lobby israeliana interna e tirar fuori il coniglio dal cappello: un’iniziativa rivelata poco prima che lasci la carica e che mette Netanyahu con le spalle al muro per fargli fare la pace.
Si sono sollevate speranze da un atteso incontro alle Nazioni Unite a New York, svoltosi mercoledì. Ma i loro primi colloqui in 10 mesi sono programmati soltanto per dimostrare l’unità necessaria a confondere i critici dell’accordo per gli aiuti.
Se Obama avesse realmente voluto fare pressioni su Netanyahu, avrebbe usato l’accordo per gli aiuti come una leva. Ora Netanyahu non deve temere ritorsioni finanziarie dagli Stati Uniti, anche se intensifica l’effettiva annessione della Cisgiordania.
Netanyahu ha tratto la giusta lezione dall’accordo per gli aiuti: può agire contro i palestinesi con impunità continua e un sacco attrezzature militari degli Stati Uniti.
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