Ha fatto scalpore negli ultimi giorni la decisione della Commissione
Europea di condannare la Apple al rimborso di tasse non pagate in
seguito ad un accordo fiscale illegittimo con l’Irlanda; la cifra a cui
ammonterebbe l’evasione fiscale è da capogiro: 13 miliardi di Euro. La
situazione paradossale è originata dalla posizione presa dall’Irlanda:
il paese dovrebbe incassare la somma esorbitante, ma ritiene che non ci
sia stata alcuna illegalità e che la multinazionale americana sia
perfettamente in regola con il fisco.
Per comprendere meglio la controversia è necessario partire dal lontano 1980: in quel periodo non esisteva né l’UE (che si chiamava ancora Comunità Economica Europea), né tantomeno l’Euro, e la Repubblica Irlandese stava affrontando l’ennesima grave crisi economica, con il numero dei disoccupati in continuo aumento; lo Stato, per arginare il fenomeno, decise di intraprendere una serie di riforme su larga scala, che prevedano anche degli accordi fiscali anticipati con le multinazionali: il cosiddetto fenomeno del “Tax Ruling”. In pratica, per attrarre capitali dall’estero e creare posti di lavoro, venivano concesse importanti agevolazioni alle grandi imprese che investivano nel paese. La storia di Apple in Irlanda nasce proprio da questa fattispecie: inizialmente l’azienda originaria di Cupertino, aprendo una nuova sede a Cork, assunse 60 dipendenti; nel corso degli anni il numero dei lavoratori è centuplicato, arrivando a 6mila in tutta l’isola. Appare evidente che la multinazionale americana, la quale ha sempre avuto nella strategia di delocalizzazione uno dei suoi cavalli di battaglia (basti pensare a tutta la manifattura dei prodotti in Cina, dove il costo della manodopera è assai inferiore), ha saputo sfruttare al meglio l’accordo preso con la Repubblica Irlandese, aumentando la propria influenza nelle scelte di politica economica nazionale.
Infatti nel frattempo il regime di agevolazioni fiscali è continuato, anzi, a detta della Commissione Europea, si è incrementato, fino a giungere ad un’aliquota irrisoria dello 0,005% sui profitti nel 2013. Il problema è sorto a causa della cessione di una parte della sovranità dello Stato in seguito alla costituzione dell’Unione Europea. Prima infatti l’Irlanda aveva tutta la libertà di attuare accordi fiscali anticipati, sostenuta anche dalla teoria economica neo-classica, in particolare Pigouviana, secondo la quale è necessario ricompensare con sussidi le attività che generano “esternalità positive”(come dare lavoro a molti disoccupati per es.). la situazione si è invece assai complicata con l’istituzione del Mercato Unico: non è più sufficiente valutare l’equità della tassazione rispetto alle altre imprese operanti in Irlanda, ma deve essere relazionata a quelle di tutta Europa. L’accusa mossa dalla Commissione Europea è infatti quella di concorrenza sleale, definendo come semplice “aiuto di Stato” la relazione contrattuale fra Apple e Irlanda , rinnovatasi per più di 35 anni, che ha contribuito fortemente al risveglio economico della “Tigre Celtica” negli anni ’90, influendo anche sulle caratteristiche demografico-sociali di un’intera nazione. Alla luce di tutto ciò, risulta più facile comprendere perché l’Irlanda ritiene che quei 13 miliardi di Euro non siano in alcun modo dovuti dalla multinazionale americana; c’è infatti in gioco la reputazione stessa del paese, e difficilmente in futuro altre imprese saranno disposte ad investire in Irlanda se la condanna della Commissione dovesse essere confermata.
Per comprendere meglio la controversia è necessario partire dal lontano 1980: in quel periodo non esisteva né l’UE (che si chiamava ancora Comunità Economica Europea), né tantomeno l’Euro, e la Repubblica Irlandese stava affrontando l’ennesima grave crisi economica, con il numero dei disoccupati in continuo aumento; lo Stato, per arginare il fenomeno, decise di intraprendere una serie di riforme su larga scala, che prevedano anche degli accordi fiscali anticipati con le multinazionali: il cosiddetto fenomeno del “Tax Ruling”. In pratica, per attrarre capitali dall’estero e creare posti di lavoro, venivano concesse importanti agevolazioni alle grandi imprese che investivano nel paese. La storia di Apple in Irlanda nasce proprio da questa fattispecie: inizialmente l’azienda originaria di Cupertino, aprendo una nuova sede a Cork, assunse 60 dipendenti; nel corso degli anni il numero dei lavoratori è centuplicato, arrivando a 6mila in tutta l’isola. Appare evidente che la multinazionale americana, la quale ha sempre avuto nella strategia di delocalizzazione uno dei suoi cavalli di battaglia (basti pensare a tutta la manifattura dei prodotti in Cina, dove il costo della manodopera è assai inferiore), ha saputo sfruttare al meglio l’accordo preso con la Repubblica Irlandese, aumentando la propria influenza nelle scelte di politica economica nazionale.
Infatti nel frattempo il regime di agevolazioni fiscali è continuato, anzi, a detta della Commissione Europea, si è incrementato, fino a giungere ad un’aliquota irrisoria dello 0,005% sui profitti nel 2013. Il problema è sorto a causa della cessione di una parte della sovranità dello Stato in seguito alla costituzione dell’Unione Europea. Prima infatti l’Irlanda aveva tutta la libertà di attuare accordi fiscali anticipati, sostenuta anche dalla teoria economica neo-classica, in particolare Pigouviana, secondo la quale è necessario ricompensare con sussidi le attività che generano “esternalità positive”(come dare lavoro a molti disoccupati per es.). la situazione si è invece assai complicata con l’istituzione del Mercato Unico: non è più sufficiente valutare l’equità della tassazione rispetto alle altre imprese operanti in Irlanda, ma deve essere relazionata a quelle di tutta Europa. L’accusa mossa dalla Commissione Europea è infatti quella di concorrenza sleale, definendo come semplice “aiuto di Stato” la relazione contrattuale fra Apple e Irlanda , rinnovatasi per più di 35 anni, che ha contribuito fortemente al risveglio economico della “Tigre Celtica” negli anni ’90, influendo anche sulle caratteristiche demografico-sociali di un’intera nazione. Alla luce di tutto ciò, risulta più facile comprendere perché l’Irlanda ritiene che quei 13 miliardi di Euro non siano in alcun modo dovuti dalla multinazionale americana; c’è infatti in gioco la reputazione stessa del paese, e difficilmente in futuro altre imprese saranno disposte ad investire in Irlanda se la condanna della Commissione dovesse essere confermata.
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