venerdì 30 settembre 2016

L’impero bancario colpisce ancora

Sin dall’inizio del suo mandato, Matteo Renzi non si è mai mostrato particolarmente incline a seguire il sentimento popolare. Di conseguenza, ha anche sbriciolato le arcigne barricate che hanno plasmato la sua immagine durante la campagna elettorale delle Primarie del dicembre 2013, e grazie alle quali sperava di opporsi alla casta della vecchia nomenclatura. Qualche mese successivo al suo insediamento nella segreteria del Partito Democratico, però, i piani dell’ex sindaco di Firenze sono notevolmente variati: i 100 giorni sono diventati 1000, il rigetto verso ogni forma di potere costituito s’è trasformato in affiliazione al sistema che s’era prefisso di sconfiggere, e le proposte di riforma si sono dimostrate un ottimo espediente narrativo per manipolare l’attenzione collettiva ed indottrinarla al culto del renzismo. Omettendo qualsiasi argomentazione che prevedesse una modalità per risollevare le sorti del benessere comunitario.
Che non coincide necessariamente con il desiderio sfrenato di appagare i propri bisogni, né con la spasmodica inclinazione di riempirsi la pancia, affamando il prossimo. Piuttosto, si esprime nella “essenza del politico”, parafrasando Julien Freund: provvedere alla tutela delle grandi masse, preservandone la ricchezza ed incrementandola. Possibilmente, senza che banche ed affini costole del capitalismo finanziario ingeriscano a dismisura nelle dinamiche pubbliche, prodigandosi soltanto all’esaltazione del profitto privato. In linea con ciò, Renzi non perde occasione per ricordare della sua incapacità di agire a chiunque ancora lodi in modo faziosamente miope la sua spicciola competenza. Banco Popolare, UniCredit ed Ubi – tre fra i principali cardini dell’attuale complesso bancario italiano – apporteranno un’aggiunta campione di 25 euro su ogni estratto conto. A diniego di quasi 13 milioni di clienti implicati, pari a circa il 20% dell’intera popolazione nostrana.
Tutto per adeguarsi alle disposizioni sulle spese relative al Fondo Nazionale di Risoluzione, che, sorvolando sui tecnicismi, si profila come un’enorme usurpazione legalizzata di quattrini ai danni della collettività, volta a risanare speculazioni di svariati colletti bianchi a cui non verrà torta nemmeno la stoffa delle tasche. “La distinzione tra un banchiere e un usuraio è puramente nominale”: Pierre-Joseph Proudhon fu addirittura ottimista nelle previsioni. Infatti, la tirannia bancaria continua a strozzare correntisti e creditori, famiglie e piccoli/medi imprenditori, nel silenzio assenso di Palazzo Chigi e di quello Stato che sembra aver smarrito completamente la sua impronta sociale. La manovra presentata da Banco Popolare, UniCredit ed Ubi, sgomenta per ferocia e prepotenza: violente caratteristiche che da tempo immemore contraddistinguono la dispotica indole degli istituti finanziari, ma che oggi appaiono ancora più marcate. E lacerano la quotidianità e (soprattutto) l’avvenire di milioni di persone.

giovedì 29 settembre 2016

Referendum, l’insulto della scheda

Una furbata a cui neanche Silvio Berlusconi sarebbe mai arrivato. La scheda per il referendum costituzionale presentata la settimana scorsa dal premier Matteo Renzi non è solo l’apoteosi della politica ridotta a marketing, ma anche un colpo bassissimo, una vera scorrettezza nei confronti di chi si batte perché vinca il NO e, comunque, per tutti gli elettori.
Il quesito che ci ritroveremo davanti fra un paio di mesi recita così: «Approvate il testo della legge costituzionale concernente “disposizioni per il superamento del bicameralismo paritario, la riduzione del numero dei parlamentari, il contenimento dei costi di funzionamento delle istituzioni, la soppressione del Cnel e la revisione del Titolo V della parte II della Costituzione”»?
È un chiaro tentativo di manipolare l’elettorato, un arrembaggio in extremis per far pendere dalla propria parte gli elettori più indecisi. Ed è tanto più odioso perché evidentemente mette nel mirino le persone più ingenue e inermi, quelle che hanno meno strumenti per rendersi conto di quando qualcuno cerca di raggirarle.
Quell’anima pia del ministro per le Riforme Maria Elena Boschi - non a caso occultata nelle ultime settimane, da quando cioè a Palazzo Chigi si sono resi conto che la sua arroganza e il tono con cui ripete a memoria i ritornelli renziani danneggiano il fronte del Sì - non ha perso nemmeno stavolta l’occasione di tacere, ricordandoci che “il quesito referendario si limita a riprodurre il titolo della legge costituzionale”. Già, formalmente ha ragione… Ma che c’entra?
In tutta la storia referendaria repubblicana, nei quesiti appare il numero della legge e la data di pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale; i nomi delle leggi sono noiosi e burocratici e i quesiti referendari con cui si chiede al popolo di esprimersi su quelle leggi lo sono altrettanto. Un motivo c’è: la campagna elettorale deve terminare prima della votazione. Non è lecito influenzare gli elettori quando sono già entrati in cabina elettorale, ovvero quando i sostenitori della parte avversa non hanno più occasione di replicare, di smentire la tua propaganda.
Forse non tutti se lo ricordano, ma il 7 ottobre 2001 andammo a votare per decidere se confermare o meno la modifica del Titolo V della Costituzione e sulla scheda leggemmo questo: «Approvate il testo della legge costituzionale concernente “Modifiche al titolo quinto della parte seconda della Costituzione” approvato dal Parlamento e pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 59 del 12 marzo 2001»?
Poco meno di cinque anni dopo, il 25 e il 26 giugno del 2006, fummo chiamati invece a esprimerci su un’altra riforma costituzionale, quella varata dal governo Berlusconi. In quel caso il quesito referendario recitava così: «Approvate il testo della legge costituzionale concernente “Modifiche alla parte II della Costituzione” approvato dal Parlamento e pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 269 del 18 novembre 2005»?
In entrambi i casi la domanda era semplice, concisa ed equilibrata. Chi non aveva la minima idea di cosa si stesse parlando non poteva trarre alcuna indicazione su come votare dal testo del quesito. Dieci anni fa, per fortuna, gli italiani s’informarono a sufficienza prima di andare a votare e bocciarono quella legge, salvando la Costituzione da Berlusconi. Oggi, purtroppo, di fronte al cesarismo turlupinatorio di Renzi, ci siamo ridotti a citare Berlusconi come un esempio di democrazia.
Già, perché non è democratico far ascoltare agli elettori una sola campana. Non è corretto parlare di “superamento” del bicameralismo paritario - suggerendo un’idea di miglioramento - senza spiegare in quale scempio si trasformerà il nuovo Senato. Non è giusto parlare di “riduzione del numero dei parlamentari” senza spiegare che il Senato sarà riempito di sindaci e consiglieri regionali che non saranno eletti a Palazzo Madama direttamente, ma attraverso una legge elettorale che ancora non esiste. Non è onesto parlare di “contenimento dei costi di funzionamento delle istituzioni”, senza spiegare che si tratta degli spicci per la merenda, compresi tra lo 0,01 e un po’ più dello 0,03% del Pil.
Le schede devono essere asettiche. Anche perché, a voler formulare un quesito realmente didattico, si dovrebbe anche precisare che - combinando gli effetti di questa riforma all’attuale assetto dell’Italicum - il risultato è un rafforzamento allarmante del potere esecutivo a danno di quello legislativo. Stranamente, però, questo dettaglio è stato omesso. In effetti, forse dovremo ritenerci fortunati se sulla scheda troveremo ancora la casella del NO.

martedì 27 settembre 2016

L’accordo per gli aiuti degli Stati Uniti dà il via libera alla cancellazione della Palestina da parte di Israele

L’annuncio della settimana scorsa da parte degli Stati Uniti circa il più grande pacchetto di aiuti militari dati a Israele nella sua storia,– è stata una vittoria per entrambe le parti.
Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha potuto vantarsi che le sue pressioni avevano incrementato gli aiuti da 3,1 miliardi di dollari all’anno, a 3,8 miliardi di dollari all’anno – un aumento del 22% – per un decennio, a partire dal 2019.
Netanyahu ha presentato questo come uno scacco per coloro che lo accusano di mettere a rischio gli interessi della sicurezza di Israele con i suoi ripetuti affronti alla Casa Bianca.
Soltanto nelle scorse settimane, Avigdor Lieberman ha paragonato il patto nucleare dell’anno scorso tra Washington e l’Iran con il patto di Monaco del 1938 che aveva rinforzato Hitler; Netanyahu ha insinuato che l’opposizione degli Stati Uniti all’espansione degli insediamenti è uguale all’appoggio per la “pulizia etnica” degli ebrei.
Nel frattempo, il presidente americano Barack Obama, spera di trattenere i suoi critici che insinuano che sia anti-israeliano. L’accordo dovrebbe servire come stimolo anche a Hillary Clinton, la candidata del Partito Democratico a succedere a Obama nell’elezione di novembre.
In realtà, tuttavia, l’amministrazione Obama ha tranquillamente punito Netanyahu per il suo cattivo comportamento. Le aspettative di Israele di un accordo per 4,5 miliardi di dollari all’anno erano stati ridotti dopo che l’anno scorso Netanyahu aveva bloccato i negoziati quando cercava di portare il Congresso dalla sua parte nella battaglia contro il patto con l’Iran.
Di fatto, Israele riceve già circa 3,8 miliardi di dollari se viene incluso l’aiuto del Congresso per lo sviluppo dei programmi di difesa missilistica. In particolare, Israele è stato costretto a promettere di non rivolgersi al Congresso per avere finanziamenti extra.
L’accordo di Netanyahu su questi termini ha fatto inferocire i lealisti del Congresso come il senatore Repubblicano Lindsay Graham si era schierato dalla parte di Netanyahu per ottenere un sussidio anche maggiore dai contribuenti americani. Venerdì ha accusato il primo ministro israeliano di “averci tirato via il tappeto da sotto i piedi”.
Come ha anche fatto notare Ehud Barack, l’ex ministro della difesa di Netanyahu,
in una serie di interviste alla televisione israeliana che il patto non tiene conto o dell’inflazione o dell’svalutazione del dollaro rispetto allo shekel.
Un colpo anche più forte è la richiesta della Casa Bianca di eliminare una speciale esenzione che permetteva a Israele di spendere localmente quasi il 40% degli aiuti per acquisti di armi e combustibile. Israele presto dovrà comprare tutti i suoi armamenti dagli Stati Uniti, mettendo fine a quello che equivaleva a un sussidio per la sua industria delle armi.
Netanyahu ha preferito firmare il patto ora piuttosto che aspettare fino a quando si insedierà il nuovo presidente, anche se la Clinton e il suo sfidante Repubblicano, Donald Trump, si suppone che saranno anche più codardi verso Israele. Questo sembra riflettere il timore di Netanyahu che l’ambiente politico degli Stati Uniti sarà più incerto dopo l’elezione e potrebbe provocare lunghi ritardi per l’accordo e apprensione circa le implicazioni per Israele della generale opposizione di Trump all’aiuto straniero.
Cionondimeno, la prolungata generosità di Washington – nonostante gli insulti quasi ininterrotti – alimenta inevitabilmente le dichiarazioni che la coda di Israele si sta muovendo davanti al cane statunitense. Anche il New York Times ha definito i pacchetto di aiuti “troppo grosso”.
Fin dalla guerra del 1973, Israele ha ricevuto almeno 100 miliardi di dollari in aiuti militari e altri aiuti nascosti alla vista.
Già negli anni ’70, Washington pagava metà del bilancio militare israeliano. Oggi
Paga ancora un quinto del conto, malgrado il successo economico di Israele.
Gli Stati Uniti, però, si aspettano una ricaduta positiva per il loro massiccio investimento. Come osservò una volta il defunto politico e generale israeliano Ariel Sharon, Israele è stata un “portaerei” degli Stati Uniti in Medio Oriente, agendo come un despota regionale e compiendo operazioni che beneficiano Washington.
Quasi nessuno implica gli Stati Uniti negli attacchi israeliani che hanno eliminato i programmi nucleari dell’Iraq e della Siria. Tuttavia, un Iraq o una Siria provviste di armi nucleari, avrebbero scoraggiato mosse successive appoggiate dagli Stati Uniti per rovesciare il regime e avrebbero anche contrastato il vantaggio strategico che Israele trae dal suo ampio arsenale nucleare.
Inoltre, l’abilità militare di Israele finanziata dagli Stati Uniti è una tripla pacchia per l’industria delle armi degli Stati Uniti, la lobby più potente del paese. I fondi pubblici vengono “travasati” per permettere a Israele di comprare regali dai fabbricanti di armi americani. Questo, a sua volta, serve come vetrina per altri clienti e spinge a un gioco infinito e redditizio di mettersi alla pari nel resto del Medio Oriente.
I primi caccia F-35 che arriveranno a Israele in dicembre, i cui vari componenti sono prodotti negli Stati Uniti, aumenteranno il clamore per l’aereo da guerra all’avanguardia.
Israele è anche un “laboratorio in prima linea”, come ha ammesso durante il fine settimana l’ex negoziatore militare israeliano Eival Gilady, dove di sviluppano sviluppa e si testano sul campo delle nuove tecnologie che poi Washington stessa può in seguito usare.
Gli Stati Uniti stanno progettando di ricomprare il sistema di intercettazione dei missili, l’Iron Dome (Cupola di ferro) – che neutralizza le minacce militari di ritorsione – che in gran parte loro avevano pagato. Israele opera strettamente anche con gli Stati Uniti per sviluppare la guerra cibernetica * come lo il virus Stuxnet che ha danneggiato il programma nucleare dell’Iran per usi civili.
Ma il messaggio più chiaro che arriva dal pacchetto di aiuti per Israele è quello trasmesso ai palestinesi: Washington non vede alcun interesse strategico pressante di porre fine all’occupazione. E’ stato contrario a Netanyahu per l’accordo con l’Iran, ma non rischierà uno scontro dannoso con Israele e i suoi lealisti al Congresso riguardo al problema della Palestina come stato.
Alcuni credono che Obama abbia firmato l’accordo per gli aiuti per ottenere la credibilità necessaria a prevalere sulla sua lobby israeliana interna e tirar fuori il coniglio dal cappello: un’iniziativa rivelata poco prima che lasci la carica e che mette Netanyahu con le spalle al muro per fargli fare la pace.
Si sono sollevate speranze da un atteso incontro alle Nazioni Unite a New York, svoltosi mercoledì. Ma i loro primi colloqui in 10 mesi sono programmati soltanto per dimostrare l’unità necessaria a confondere i critici dell’accordo per gli aiuti.
Se Obama avesse realmente voluto fare pressioni su Netanyahu, avrebbe usato l’accordo per gli aiuti come una leva. Ora Netanyahu non deve temere ritorsioni finanziarie dagli Stati Uniti, anche se intensifica l’effettiva annessione della Cisgiordania.
Netanyahu ha tratto la giusta lezione dall’accordo per gli aiuti: può agire contro i palestinesi con impunità continua e un sacco attrezzature militari degli Stati Uniti.

lunedì 26 settembre 2016

Le rivolte continueranno

100 anni di rivolte
Nel 1917, i fautori delle supremazia della razza bianca, la Guardia Nazionale e la polizia di Saint Louis hanno ucciso un numero di persone di colore stimato tra 150-200, durante quello a cui si fa riferimento come “Massacro di St.Louis Est.” Proprio come Saint Louis, Chicago era una città industriale emergente che stava sperimentando massicci cambiamenti demografici come conseguenza della “Grande Migrazione” verso nord all’inizio del ventesimo secolo. Analogamente, Chicago sperimentò le sue rivolte razziali nel 1919, dove 39 persone furono uccise e 500 ferite. Due anni dopo, furono uccisi oltre 300 persone di colore durante la “Rivolta razziale di Tulsa.” In altre parole, nulla di tutto questo è una novità per gli Americani di colore.
Purtroppo la storia ha un modo perverso di ripetersi.
Venerdì 16 settembre 2016 una poliziotta bianca di Tulsa, Betty Shelby, ha sparato in pieno giorno a Terence Crutcher e lo ha ucciso, vicino al suo SUV in panne (Betty Shelby ha sostenuto che che stava cercando il suo Taser)*. Quattro giorni dopo, la polizia di Charlotte ha freddato Keith Lamont Scott mentre era seduto in macchina. Mentre a Tulsa le gente è rimasta alquanto controllata, le tensioni sono aumentate a Charlotte. Finora una persona è stata uccisa e un poliziotto è stato mandato in ospedale con ferite imprecisate.
Mentre scrivo, i tumulti continuano. Posso sentire il rumore degli stivali della polizia
che cammina con passi pesanti, il suono sfocato degli slogan scanditi dai dimostranti arrabbiati, e le osservazioni concise dei giornalisti partecipativi che sono realmente l’unica fonte affidabile dell’azione dal vivo sul web o alla TV. Chi ha bisogno della CNN quando ho gli amici su Facebook che stanno trasmettendo in streaming senza i commenti plastificati e la propaganda di destra?
Le persone di colore hanno continuato a fare sollevazioni da oltre un secolo in questo paese, e, purtroppo, mentre molte cose sono cambiate (soltanto grazie al lavoro di attivisti coraggiosi), molto resta come prima.
Dalle rivolte di Harlem nel 1964, dove la polizia aveva sparato e ucciso James Powell, a quelle di Miami del 1981 che sono state conseguenza del fatto che la polizia aveva ucciso Arthur McDuffie, un ex marine nero di 29 anni, poi commerciante, dopo un inseguimento ad alta velocità, la gente ha continuato a opporsi per molti decenni alla violenza della polizia.
E, naturalmente, non e è soltanto negli Stati Uniti che si sono sollevate le persone di colore in conseguenza di uccisioni per mano della polizia, e di disuguaglianza economica, ma anche a Londra (1958), in Sud Africa (1976), a Liverpool (1981), Brixton (1985), Sydney (2004), Parigi (2005). Fin dal 2008, le più grosse rivolte negli Stati Uniti si sono svolte a Ferguson (2014) e a Baltimora (2015).
I bianchi si stanno svegliando?
Oggi, grazie ai media sociale e a Internet, la gente di tutto il mondo riceve reportage in tempo reale, video e informazioni sulle sparatorie della polizia negli Stati Uniti. Di conseguenza, l’America bianca è stata costretta a occuparsi del fatto che le persone di colore in America in pratica vivono in uno Stato di apartheid, sia dal punto di vista razziale che da quello economico. La vita dei neri è minacciata dalla seconda più fidata istituzione della società americana: la polizia (le forze armate sono la numero uno).
Le prime rivolte che mi ricordo sono quelle avvenute a Los Angeles nel 1992. In effetti, a quel tempo, avevo poca conoscenza (ero alla scuola elementare) del motivo per cui accadessero. Mio padre lavorava a tempo pieno, e a mia madre non si curava dei notiziari, e così nessuno mi spiegava perché le persone di colore sarebbero state così sconvolte se incendiavano degli edifici e sfasciavano le automobili della polizia.
Senza dubbio, ero un ragazzino bianco normalmente ignorante e ingenuo che non si preoccupava mai di poter essere picchiato, messo in prigione o ucciso a causa del colore della sua pelle.
Quasi 25 anni dopo, cerco di rimettermi in quell’atteggiamento mentale quando parlo con qualcuno della mia famiglia bianca e con amici che non riescono ancora a capire il fatto che il problema non sono “poche mele marce”, ma tutto l’intero stato di polizia carcerario-industriale (sempre più militarizzato). E’ un compito difficile, ma necessario, se speriamo di costruire movimenti interrazziali.
Ci potrebbero volere parecchi anni prima che emergano i dati appropriati, o forse li scopriremo perché fioriranno nuovi movimenti sociali e coalizioni, ma ritengo che un numero sempre maggiore di americani, specialmente di giovani americani che passano il loro tempo su Internet, diventeranno sempre più critici nei confronti della polizia, di che cosa fa, e di chi serve. In qualche modo, lo vediamo già adesso.
Costruire movimenti più efficaci
Le élite, i media, molti bianchi e la polizia sperano che i movimenti esistenti spariscano, ma non succederà, semmai i problemi di sorveglianza, di razzismo sistematico, di disuguaglianza economica sistematica e di corruzione politica diventeranno soltanto sempre più evidenti dato che le istituzioni esistenti diventano sempre più militarizzate e violente.
Nel frattempo, i movimenti progressisti/di sinistra, stanno perdendo su molti fronti. Certo, è vero che le persone (prima di tutto i giovani attivisti di colore) stanno reagendo, ma ottengono risultati limitati. L’anno scorso nessun poliziotto è stato accusato di omicidio colposo o di assassinio. Quest’anno le uccisioni per mano della polizia stanno per superare le raccapriccianti cifre dell’anno scorso (1.146 persone uccise). In altre parole, qualunque cosa facciamo come movimento o come serie di movimenti, non funziona.
Ora sto semplicemente scrivendo ciò che molti attivisti sanno ma che sono restii a esprimere: cioè il fatto che le cose stanno peggiorando in campo economico, ecologico, politico, militare, ecc.
Continuiamo, tuttavia, a opporci usando le stesse strategie e tattiche, o senza di queste. Inoltre, i nostri movimenti mancano di una visione. Che cosa vogliamo, esattamente? Certo, vogliamo meno sparatorie, più obbligo di rispondere dei reati, meno prigioni e più lavoro, ma come possiamo ottenere queste cose? E sono sufficienti le proteste, le sommosse, la disobbedienza civile e il giornalismo partecipativo per fermare una delle forze di polizia più brutali e militarizzate del mondo?
Agli attivisti interessa riformare la polizia e/o sostituire la polizia? Non penso che le due cose si eliminino a vicenda, proprio come non considero che la riforma e la rivoluzione su una scala più ampia siano strade che si escludono a vicenda. Abbiamo bisogno di tutto quello detto in precedenza. Ci serve tutto e ci serve subito, perché la situazione è critica.
Fin dall’assassinio di Eric Garner, i dimostranti neri hanno scandito: “Non posso respirare”! (Sono le ultime parole pronunciate da Garner prima di morire che sono diventate uno slogan, n.d.t.). Gli americani dovrebbero ascoltarli.
Una delle lezioni più importanti che ho appreso da quando partecipo agli eventi di BLM (Black Lives Matter) , è che la gente di colore sta vivendo in un costante “Stato di Emergenza.” Sopportano quotidianamente omicidi autorizzati dallo stato e il problema sta peggiorando, non migliorando.
In conclusione, dovremmo sempre appoggiare gli attivisti che scendono nelle strade a protestare. Riceveranno sufficienti critiche dalla stampa tradizionale e dai bianchi reazionari – non servono loro quelle dei progressisti e della sinistra.
Fino a quando le vite dei neri saranno importanti, le sommosse continueranno, come è giusto che sia.

venerdì 23 settembre 2016

Financial Times: sempre più americani simpatizzano per Putin

Nonostante i politici statunitensi continuino a criticare fortemente il presidente russo Vladimir Putin, il numero di suoi simpatizzanti tra gli americani è in costante crescita, soprattutto tra i Repubblicani, scrive il Financial Times. Secondo il sondaggio di agosto condotto dall'Istituto per le ricerche sull'opinione pubblica YouGov e dall'Economist, solo il 27% dei Repubblicani si relaziona negativamente rispetto al presidente russo. E' interessante notare che 2 anni fa la percentuale era del 66%, si afferma nell'articolo. Dal sondaggio emerge che l'85% dei Repubblicani ritiene Putin un leader forte, mentre condivide lo stesso parere su Obama solo il 18% degli intervistati. Si segnala inoltre che un sostenitore su tre del candidato del Partito Repubblicano Donald Trump ha un atteggiamento positivo verso Vladimir Putin. E' interessante notare che il cambiamento della percezione di Putin si è iniziato a verificare di recente, quando le tensioni tra la Russia e gli Stati Uniti hanno raggiunto un livello simile a quello della guerra fredda. Come notato da alcuni sostenitori di Trump, questa contrapposizione li ha resi più vicini a Putin e alla sua visione del mondo, in gran parte dovuto al fatto che il presidente russo per le sue qualità personali e politiche è l'esatto opposto di Obama, scrive il giornale

giovedì 22 settembre 2016

Italicum, quel gran pastrocchio istituzionale

E’ di questi giorni la decisione della Consulta di rimandare il giudizio sull’Italicum a dopo il referendum costituzionale. Si parla di gennaio 2017. La motivazione principale pare essere la difficoltà di valutare la legge elettorale senza avere la certezza sull’assetto istituzionale del Paese. Nelle intenzioni originarie del premier, le due riforme sono saldate assieme dalla forza della coerenza logica, data l’inutilità dell’una senza l’altra di fronte all’obiettivo sbandierato della governabilità. Avere una maggioranza bulgara alla Camera non avrebbe senso con un Senato sostanzialmente proporzionale, si ripeterebbe la necessità di elemosinare verdiniani di oggi. Al contrario, avere la Camera con un Senato depotenziato ed eletto su base territoriale, dove il Pd è ancora tradizionalmente forte, darebbe al Governo un potere sostanzialmente illimitato, senza contrappesi. Questo dunque il progetto di Renzi, forte dell’appoggio di Bruxelles e Washington, ai quali le lungaggini del parlamento provocano fastidiose orticarie al momento del recepimento di nuove direttive. Di traverso si son messi però, ancora una volta i cittadini (i non più giovani ricorderanno la stangata presa dalla Dc sulla “legge truffa”), che a rigor di sondaggi spedirebbero al governo dritti dritti i 5 Stelle. Di qui le progressive aperture di Renzi alle modifiche dell’Italicum.
A questo punto, la palla passa alle opposizioni. Il 21 settembre si voterà la mozione sull’Italicum presentata prima dell’estate da Sinistra Italiana. Nel mentre, il Movimento 5 Stelle rilancia il suo Democratellum, la proposta scritta in Rete tre anni fa, basata su di un proporzionale quasi puro, collegi medio-piccoli per garantire il legame tra deputati e territorio e un’interessante sistema di preferenze e contro preferenze. Renzi da New York conferma, almeno a parole, la disponibilità al dialogo, girando la patata bollente al centro destra. Forse se ne sarebbe potuto discutere collegialmente prima.
Ora, la questione della governabilità è vecchia almeno quanto Craxi. Essendo la Costituzione nata in antitesi al fascismo, che fu, dal punto di vista istituzionale, qualcosa di simile ad una gigantesca ipertrofia dell’esecutivo, essa effettivamente pecca in direzione opposta. Inutile citare il numero spropositato di governi che si sono succeduti, uno più atrofico dell’altro, in attesa di una morte certa per consunzione. Preso atto del problema, due sono le soluzioni. La prima è copiare dagli inglesi il sistema maggioritario, che consente la formazione di stabili maggioranze parlamentari a scapito della rappresentanza. E’ la strada che si è cercato più volte di percorrere, provocando più disastri che altro. L’alternativa sono il modello francese o quello americano, espressione l’uno centralista e l’altro federalista di un sistema presidenziale, nel quale il capo dell’esecutivo e dello Stato viene eletto direttamente dal popolo e non ha bisogno della fiducia del Parlamento. Con esso deve dialogare, chiaramente, per le questioni nelle quali le competenze si sovrappongono, ma può venirne sfiduciato solo in rari e ben circostanziati casi. Questa è la strada che, probabilmente, sarebbe più consona allo spirito del Paese. Essa consentirebbe infatti di mantenere il proporzionale per le camere (che possono essere una o due, indifferentemente) e di avere un Governo solido, in grado di rappresentare l’Italia all’estero.
Renzi ha scelto una terza via, replicando sostanzialmente la Legge Acerbo del 1923, quella che consentì a Mussolini di blindare il suo potere. Sono entrambe leggi gravate dal più grave dei peccati, molto frequente nel nostro Paese: sono figlie della contingenza, non di principi assoluti. Entrambe hanno avuto e vorrebbero avere lo scopo di garantire una solidissima maggioranza parlamentare al Governo in carica, annullando i contrappesi normalmente vigenti in un ordinamento democratico. La differenza sostanziale è che Renzi non è Mussolini, e si è accorto di essere destinato a fallire.
Ora, se l’ipotesi più perniciosa è il sì al referendum, l’Italicum immodificato ed una vittoria di Renzi, anche una vittoria a 5 Stelle sarebbe probabilmente inutile in questo contesto. Il nuovo Senato infatti, per quanto inutile su quasi tutto, avrebbe il potere di mettere i bastoni tra le ruote proprio nei temi cruciali, come i trattati europei e la politica estera. Se, viceversa, vincerà il no, una riforma dell’Italicum sarebbe imperativa, dovendo coinvolgere necessariamente il Senato. In quale direzione però? Il Democratellum è una buona proposta, che ha il merito particolare di essere stata scritta avendo in mente gli assoluti e non il particolare e l’interesse, ma non garantirebbe solidità al governo. Anzi, sarebbe un notevole passo indietro. Se la forza della retorica di Renzi sulla questione referendaria si annida in due punti, la voglia (e la necessità) reale di governabilità e la retorica del risparmio, al Movimento non può bastare vincere facile sulla seconda. Una controproposta, in senso presidenziale, sulla Costituzione, aiuterebbe una fetta, probabilmente consistente, di indecisi a votare no in Ottobre.

mercoledì 21 settembre 2016

Guerra al terrore: un inganno da 5 mila miliardi

Un recente studio condotto dalla Brown University negli Stati Uniti ha provato a stimare il costo complessivo dal 2001 a oggi della “guerra al terrore” condotta dalle amministrazioni dei presidenti George W. Bush e Barack Obama. I risultati sono nulla di meno che sbalorditivi e consentono di percepire, anche se con ogni probabilità in maniera parziale, gli effetti distruttivi di un’impresa lanciata per ragioni legate esclusivamente agli interessi economici e strategici di un’altrettanto distruttiva classe dirigente americana.
A tutto il mese agosto di quest’anno, la spesa complessiva sostenuta dagli USA per le guerre ha sfiorato i 5 mila miliardi di dollari. Le voci considerate includono le somme stanziate dal Congresso di Washington per finanziare le operazioni nei teatri di guerra veri e propri, gli interessi sul debito contratto per queste ultime, il bilancio del Dipartimento della Sicurezza Interna e l’assistenza ai reduci fino all’anno 2053.
Il solo costo delle operazioni di guerra all’estero è ammontato in quindici anni a 1.700 miliardi di dollari. Questa cifra viene peraltro considerata a parte rispetto al bilancio ordinario del Dipartimento della Difesa che, nello stesso arco di tempo, si è aggirato addirittura attorno ai 7 mila miliardi di dollari.
Il finanziamento dei conflitti in cui sono coinvolti gli Stati Uniti avviene regolarmente tramite stanziamenti separati, anche se il carattere eccezionale o di emergenza, che spiega appunto le modalità con cui il denaro pubblico viene destinato a questo scopo, ha ormai lasciato spazio alla normalità della guerra permanente. In questo modo risulta evidentemente più facile aggirare eventuali tetti di spesa fissati per le spese militari ordinarie.
I fondi per garantire la sicurezza interna di un paese che, dal 2001, ha assistito a un numero irrisorio di attentati o minacce legate in qualche modo al terrorismo islamico sono stati invece pari a 548 miliardi di dollari. La spesa sostenuta finora per i veterani delle guerre al terrore è stata di 213 miliardi, ma entro il 2053 salirà a quota mille miliardi.
Ingente è anche il peso degli interessi sul debito accumulato dal governo federale per finanziare le guerre, uguale cioè a 453 miliardi. Secondo gli autori dello studio, se gli USA non cambieranno le modalità di finanziamento delle guerre, i soli interessi aumenteranno di mille miliardi nel 2023, per arrivare all’incredibile cifra di 7.900 miliardi nel 2053.
La spesa totale, anche se gigantesca, è destinata ad aumentare nei prossimi anni, dal momento che non è in vista alcun disimpegno degli Stati Uniti all’estero sul fronte militare. Per la guerra in Afghanistan, dove sono tuttora presenti 15 mila soldati americani, l’amministrazione Obama ha chiesto ad esempio più di 44 miliardi di dollari per l’anno fiscale 2017.
A questa cifra vanno aggiunti, sempre per il prossimo anno, 13,8 miliardi per le operazioni contro lo Stato Islamico (ISIS/Daesh) in Iraq e in Siria e 35 miliardi per il funzionamento del Dipartimento della Sicurezza Interna. Per i ricercatori della Brown University, oltretutto, i fondi di cui il Pentagono sostiene di avere bisogno nei prossimi anni sono sottostimati, soprattutto se verranno implementati i piani militari attualmente allo studio.
Se i numeri sono già di per sé estremamente significativi, lo studio sottolinea nondimeno che essi non possono rendere conto delle conseguenze della guerra sulle popolazioni di Iraq e Afghanistan, né di quelle di paesi come Siria o Pakistan, a cui nel corso degli anni si è allargata la “guerra al terrore”. Nel solo Iraq, la cui società è stata letteralmente distrutta, alcune stime valutano in oltre un milione le vittime seguite all’invasione americana del 2003, mentre i profughi dei paesi interessati dalle guerre degli ultimi quindici anni superano abbondantemente i 12 milioni.
Il numero di vittime tra le forze armate americane e i “contractors” privati in Iraq e Afghanistan è inoltre superiore a 7 mila, mentre più di 50 mila sono i feriti e i mutilati. Difficili da quantificare sono invece i reduci che soffrono di stress post-traumatico e altre forme di disturbo mentale connesse all’esperienza bellica, così come quelli resi permanentemente disabili. Il numero di coloro che rientrano in queste categorie, per i soli Stati Uniti, è certamente nell’ordine delle centinaia di migliaia.
L’intera “guerra al terrore” risulta anche una sorta di enorme inganno ai danni dei cittadini americani e del resto del mondo. Non solo le giustificazioni non corrispondevano alle motivazioni reali che l’hanno innescata, com’è stato dimostrato negli anni successivi all’11 settembre, ma la stessa entità dell’impegno militare e finanziario è stata nascosta all’opinione pubblica.
Lo studio della Brown University ricorda a questo proposito come nell’autunno del 2002, durante la preparazione dell’invasione dell’Iraq, il consigliere economico dell’allora presidente Bush, Lawrence Lindsey, aveva stimato tra i 100 e i 200 miliardi di dollari il tetto massimo del costo della guerra che sarebbe stata lanciata di lì a poco.
Addirittura, Lindsey fu attaccato da più parti e, in particolare, il dipartimento della Difesa del segretario Donald Rumsfeld e la commissione Bilancio della Camera dei Rappresentanti avevano previsto un costo complessivo non superiore ai 60 miliardi di dollari.
Lo spreco di risorse rappresentato dalla “guerra al terrore” documentato per la prima volta dalla ricerca della Brown University è tale da essere quasi difficile da concepire. I 5 mila miliardi di dollari andati perduti in questo modo, sostanzialmente per promuovere o conservare la posizione internazionale del capitalismo americano, possono avere maggiore senso se si considera l’utilizzo che se ne sarebbe potuto fare a beneficio di decine o centinaia di milioni di persone.
Ad esempio, le infrastrutture pubbliche americane, secondo quanto calcolato dalla società USA degli ingegneri civili, sono in uno stato di degrado tale da avere bisogno di investimenti pari a circa 3.200 miliardi nei prossimi dieci anni. Ancora, il debito scolastico complessivo che grava su studenti ed ex studenti negli Stati Uniti ammonta a più di 1.200 miliardi.
La spesa per i buoni alimentari da destinare alle fasce più disagiate della popolazione, soggetta a continui drastici tagli in questi anni perché ritenuta “insostenibile”, è costata infine “solo” 70 miliardi nel 2014 e poco più di 50 nel 2015.
Le voci di spesa sotto continuo assedio nei bilanci federali e che potrebbero essere finanziate con il denaro destinato alle guerre sarebbero molteplici, dall’assistenza sanitaria alle indennità di disoccupazione, dall’edilizia popolare ai fondi pensione dei dipendenti pubblici.
Al contrario, gli stanziamenti per guerre e “sicurezza nazionale” sono destinati a crescere in parallelo agli sforzi per invertire il declino del peso degli Stati Uniti sullo scacchiere internazionale. Se l’impegno per combattere, almeno ufficialmente, qualche migliaia di terroristi ha richiesto quasi 5 mila miliardi di dollari dal 2001 a oggi, c’è da chiedersi quale livello di spesa e quale impatto sulle popolazioni potrebbero avere le guerre del prossimo futuro con potenze militari come Russia o Cina.

martedì 20 settembre 2016

Gli USA attaccano la Siria aprendo scenari imprevedibili

Negli ultimi giorni in Siria stiamo assistendo a un coinvolgimento sempre più diretto nel conflitto di Turchia, Israele e Stati Uniti. Incursioni aeree, bombardamenti e invasioni di terra, seppur limitati, svelano l’insoddisfazione palpabile e la frustrazione evidente delle nazioni più ostili a Damasco.
L’esempio più appropriato per porre l’accento sul clima di delusione che si respira a Washington, riguarda le dinamiche che hanno accompagnato la firma del cessate il fuoco tra Kerry e Lavrov.
Con Aleppo assediata e i terroristi intrappolati costretti a una rapida resa o a una resistenza limitata, gli Stati Uniti e alleati sono stati obbligati a richiedere una soluzione temporanea al conflitto che fermasse le ostilità.
Nonostante il precedente fallimento del cessate il fuoco, Russia, Damasco e Teheran hanno preferito negoziare, proseguendo comunque nell’azione militare. Avessero rifiutato di negoziare, sarebbero stati dipinti da media e organi internazionali come i veri mandanti di un intensificarsi del conflitto. Ciò avrebbe facilmente spalancato le porte a un maggior coinvolgimento di alleati regionali di Washington, giustificati a loro modo di vedere dal rifiuto di Mosca di negoziare.
La Diplomazia Russa, Siriana e Iraniana è riuscita a trasformare una posizione di forza militare ma di apparente debolezza diplomatica, in una vittoria complessiva. Washington è stata costretta a richiedere che i termini finali dell’accordo fossero segretati. Mosca invoca trasparenza e pretende che l’accordo sia reso pubblico.
Il fatto che gli Stati Uniti si oppongano mostra l’ambiguità della Casa Bianca in merito alla lotta al terrorismo in Siria. L’unico ipotetico punto di accordo dovrebbe riguardare il coordinamento congiunto per colpire Al Nusra e Daesh anche se il giorno successivo all’incontro tra Kerry e Lavrov, Ashton Carter ministro della difesa USA, ha prontamente smentito l’accordo confermando che Stati Uniti e Russia in Siria hanno obiettivi diversi.
Il significato dietro questa dichiarazione lascia pochi dubbi. Washington non è in grado o peggio non vuole abbandonare i terroristi che sostiene in Siria contro Assad e non ha alcuna intenzione di rinunciare al piano di cambio governo in Siria o di divisione territoriale del paese.
A riprova del coinvolgimento americano in Siria al fianco dei terroristi, pochi giorni fa un evento importante è accaduto a Al-Rai nel nord della Siria. Località situata sul confine con la Turchia è da poco stata occupata dall’esercito di Ankara con l’aiuto di truppe islamiste di FSA/AlNusra. Una dozzina di soldati americani delle forze speciali, presenti nella cittadina siriana al fianco dei ‘ribelli moderati’, sono stati costretti a fuggire sotto minacce esplicite di morte da parte dei loro teorici ‘alleati’. Un corto-circuito in piena regola. La base di Nusra/FSA non accetta di lottare palesemente al fianco di chi definisce “infedele” (in realtà chi li arma e finanzia.)
Il dubbio che il filmato fosse un’operazione mediatica per distanziare gli Stati Uniti dai terroristi più radicali, è stato spazzato via dalle notizie provenienti da Dair Al-Zur poche ore dopo:
In Siria alle 17.00 ore locali del 17 Settembre, due caccia F-16, due A-10 e un drone d’attacco dell’USAF e della RAAF colpivano per ben quattro volte le postazioni dell’Esercito Arabo Siriano (SAA) nei pressi di Dair Al-Zur uccidendo sessantadue soldati, ferendone oltre 100 e causando ingenti danni materiali. Poco dopo, le posizioni attaccate a Jabal Al Tahrdah subivano l’avanzata di Daesh che già in precedenza circondava le postazioni governative (la località di Dair Al-Zur è sotto assedio di ISIS da quattro anni.)
Immediata la risposta di Mosca e Damasco che dichiaravano Washington fiancheggiatore dei terroristi di Daesh, mentre fonti del dipartimento di stato americano si giustificavano parlando di un errore, senza alcuna intenzionale di colpire il SAA.
Qualunque lettura si dia alla vicenda, gli Stati Uniti sono colpevoli di non essersi coordinati con Mosca sugli attacchi contro Daesh, come rilevava immediatamente la diplomazia Russa alle Nazioni Uniti, in una riunione d’emergenza richiesta da Mosca. Prendiamo per esempio il livello d’isteria della diplomazia americana con le azioni di Samantha Power, ambasciatrice USA alle Nazioni Unite. Senza nemmeno essere presente all’intervento del rappresentante Russo, ha preferito organizzare una conferenza Stampa in cui accusava Mosca di strumentalizzare i morti in Siria, causati da “un semplice errore americano”.
E’ evidente come gli Stati Uniti e alleati si siano scavati una buca profonda da cui non sono in grado di uscire e reagiscono con i nervi a fior di pelle. Non hanno più alcuna capacità di invertire militarmente, modificare il corso che ha preso la guerra in Siria e ne sono consapevoli.
Colpiscono località di nessuna rilevanza strategica e in cui il SAA e alleati non schierano truppe o materiale bellico per un confronto militare. Le località occupate dalla Turchia nel nord del paese non fermano l’assedio su Aleppo e non liberano i terroristi intrappolati nella città. Le incursioni di Israele sulle alture del Golan non arrestano l’azione di Hezbollah e del SAA contro Al Nusra e sigle affiliate protette da Tel Aviv. L’attacco alle truppe governative Siriane a Dair Al-Zur non ha fatto crollare la resistenza di una città assediata da quattro anni e difesa eroicamente dall’Esercito Arabo Siriano (SAA).
Come ho già scritto in precedenza, il coinvolgimento diretto delle nazioni opposte a Damasco è un segno di debolezza, non di forza. Vedono ridursi drasticamente la capacità di influenzare gli eventi sul campo e possono solo reagire davanti a fatti compiuti.
Prendiamo l’episodio accaduto sulle alture vicino a Dair Al-Zur il 17 Settembre.
Dopo Aleppo e la riconquista di Raqqa, rompere l’assedio di Dair Al-Zur è uno dei pilastri portanti della strategia di Mosca, Damasco e Teheran. Le operazioni di Palmira nei mesi passati hanno rappresentato il primo passo di una strategia più ampia volta a rompere l’assedio alla città.
Dair Al-Zur è situata nell’est del paese e si trova al centro dello snodo utilizzato per i rifornimento di ISIS verso Raqqa e Mosul in Iraq. Con l’assedio delle truppe Siriane e Russe sul versante Nord, ad Aleppo, i terroristi hanno un enorme interesse a mantenere aperte le vie di transito tra Raqqa, Dair Al-Zur e Mosul; è una prerogativa essenziale per mantenere viva la catena di rifornimenti e aiuti (americani, giordani, turchi, sauditi e qatariani).
Nei giorni precedenti l’azione americana, all’aeroporto di Dair Al-Zur era giunto un contingente composto da un migliaio di nuove leve Siriane appena addestrate e altri gruppi di provenienza Iraniana, truppe pronte a combattere per le imminenti operazioni volte a liberare la città.
E’ con queste premesse, con questi fatti già compiuti sul campo che gli Stati Uniti non sono riusciti a impedire, che Washington matura una strategia ancor più sconsiderata e pericolosa.
Ignorando tutte le norme internazionali e ogni principio di buon senso, sperando di ottenere risultati benefici sul campo di battaglia, Obama decide di inviare
2 F-16, 2 A-10 e un drone d’attacco per colpire le postazioni del SAA sulle colline di Jabal al-Thardah, in ben 4 passaggi. Colpendo le postazioni governative a Jabal, gli americani si auguravano di favorire l’avanzata di Daesh per prendere controllo della collina strategica, come poi puntualmente avvenuto.
Le colline di Jabal al-Thardah sono strategiche giacché offrono una visuale unica sull’aeroporto adiacente di Dair Al-Zur sotto controllo di Damasco. Nell’immaginario americano l’azione avrebbe dovuto permettere a ISIS di conquistare le postazioni dell’esercito per poi colpire le piste d’atterraggio dalla montagna di al-Thardah, impedendo al SAA di far giungere altri rinforzi per la liberazione della città, tagliando poi le linee di comunicazione dei terroristi tra Iraq e Siria.
La speranza di Daesh, condivisa dagli Americani, è svanita poco dopo con l’intervento delle truppe governative, sostenuti in maniera decisiva dai bombardieri Russi, che hanno rapidamente riconquistato le posizioni abbandonate.
Washington ha reagito di fronte a un fatto compiuto (i rinforzi in arrivo per la liberazione di una città strategica) e ha ordinato di colpire deliberatamente le postazioni dell’esercito Siriano. Come queste stesse informazioni siano arrivate a Daesh, in pratica in tempo reale, appare evidente e svela le intenzioni degli Stati Uniti di combattere al fianco dei terroristi, non contro il terrorismo.
E’ interessante analizzare i ragionamenti secondari che hanno probabilmente spinto Washington a mettere in pratica tale piano disperato e ingiustificabile. Nella mente degli strateghi di Washington, confuse e avvilite per i continui fallimenti, continua a suscitare emozioni persino il tentativo di provocare una reazione da parte di Damasco, Mosca o Teheran di fronte ad azioni così insensate.
Il movente vale anche per le azioni compiute da Israele e Turchia in Siria. La logica che verte dietro questo ragionamento è la seguente: se Siria, Russia o Iran dovessero mai reagire ad una delle infinite provocazioni, giustificherebbero una risposta ancor più dura, aprendo la strada ad un’escalation del conflitto. E’ una tattica sterile che da anni non funziona e non porta alcun frutto, ricordiamoci l’atteggiamento di Mosca nella vicenda Ucraina e nel Donbass in particolare.
Un altro motivo che potrebbe aver spinto Washington a un’azione diretta contro il SAA è la mancanza di fiducia percepita dai terroristi nei confronti delle nazioni ‘amiche’. La cacciata delle forze speciali USA nel nord della Siria è sintomatica della frustrazione che stanno accumulando le truppe di AlNusra/Daesh/FSA a causa delle continue sconfitte.
Tuttavia la motivazione principale dietro a questa provocazione inaudita resta il tentativo di sabotaggio dell’accordo di cessate il fuoco, firmato recentemente. Gli Stati Uniti sentono di essere stati obbligati a firmare e costretti a scendere a termini stabiliti altrove, precisamente a Damasco e a Mosca.
Si sentono nell’angolo.
Hanno ottenuto l’obbligo alla riservatezza sul documento, ma questo non fa altro che danneggiare la loro strategia, mostrando come la Casa Bianca sia preoccupata di non far trapelare ai propri alleati e ai terroristi sul campo, i termini di ciò che è stato deciso.
Merita un approfondimento, la visione strategica a lungo termine di Mosca in merito al conflitto Siriano.
Alla base di ogni ragionamento del Cremlino prevale una linea realista e diplomatica che vorrebbe evitare uno scontro militare diretto con gli Stati Uniti. Allo stesso tempo c’è la consapevolezza che ciò potrebbe accadere e si preparano in questa direzione, non solo con la diplomazia che pur sempre resta, insieme alla diffusione di notizie tramite RT, l’arma principale contro Washington.
Putin e i suoi consiglieri vorrebbero tenere gli Stati Uniti vincolati da un patto firmato e garantito dalle Nazioni Unite. Il motivo sono le elezioni americane e la possibilità che vincendo la Clinton, si possa arrivare rapidamente a un’escalation del conflitto. Con un piano di pace e un accordo per fermare le ostilità siglato dai predecessori Kerry-Obama, tutto sarebbe più complicato per i neocons e per la Clinton.
Sarebbero costretti a trovare una motivazione plausibile e giustificabile per invalidare il patto di fronte al mondo intero. Le conseguenze sarebbero devastanti con una nuova perdita di credibilità e di sostegno internazionale, stretti alleati esclusi. L’ennesima prova che dimostrerebbe l’incapacità degli Stati Uniti di rispettare gli accordi presi.
L’accordo per fermare le ostilità, dunque è una possibilità che vale la pena di essere esplorata da Mosca. Funzionasse, potrebbe dare inizio a una seria discussione per finire il conflitto, sedando le violenze.
In caso contrario rientrerà nella tattica sempre più efficace della Russia di mostrare il vero intento degli Stati Uniti in Siria: abbattere Assad a qualunque costo e con qualunque metodo, compreso il terrorismo più cruento.
A tal proposito, esiste anche un altro scenario, meno diplomatico ma molto più militare. Qualcosa che Mosca ha sempre provato a evitare in ottica di un confronto diretto con gli Stati Uniti.
E’ possibile che la linea rossa tracciata da Mosca sia stata superata da Washington con l’azione del 17 Settembre scorso. Lo scenario consiste nella creazione di una no-fly-zone (NFZ) in Siria controllata da Russia e Damasco e interdetta ai velivoli della coalizione internazionale.
Un’idea fino ad ora solo discussa informalmente tra Damasco, Teheran e Mosca ma che già ipotizza una concessione particolare per i velivoli Turchi, in determinate situazioni (nord del paese) e previo accordo con Damasco.
Dopo i recenti sviluppi militari e diplomatici, Mosca potrebbe presto dichiarare i cieli siriani off-limits per l’USAF togliendo agli americani anche quella preziosa capacità di ricognizione con droni, metodo con il quale assiste direttamente i terroristi sul campo.
Con due mesi alle elezioni e un Obama completamente travolto dagli eventi, una decisione di questo calibro manderebbe in frantumi i piani americani e sarebbe un segnale forte e inequivocabile: la Russia non tollera più l’ambiguità degli Stati Uniti e li considera parte integrante del fronte terroristico, con tutte le conseguenze del caso.
In uno scenario del genere, sarebbe bene che qualcuno vicino al POTUS gli ripetesse un concetto. Non è detto che Mosca arrivi al punto di dichiarare un veto sui cieli Siriani, ma nel caso in cui dovesse accadere, è bene essere consapevoli che una violazione comporterebbe un’immediata reazione di batterie S-400 pronte a disintegrare i velivoli nemici, americani compresi.
Obama vuole essere ricordato come il presidente che scelse di violare l’ipotetica no-fly-zone Russa in Siria, scatenando scenari apocalittici? A lui la scelta, con la speranza che sia ancora in grado di porre un freno alle conseguenze tragiche che milioni di cittadini americani e non subirebbero per colpa di una sua errata decisione

lunedì 19 settembre 2016

L’Italia al guinzaglio della NATO

La NATO cerca in tutti i modi di dividere l’Europa dalla Russia e tiene l’Italia al guinzaglio, coinvolgendola suo malgrado in una guerra fredda sempre più calda. Costellata di basi americane, l’Italia si ritrova così alla mercé degli Stati Uniti.
La NATO fa veramente gli interessi dell'Europa? Le continue esercitazioni militari ai confini con la Russia, le costose missioni di guerra in giro per il mondo non daranno poi evidentemente tanta stabilità e sicurezza ai Paesi europei. Dal canto suo l'Italia, sotto il controllo militare a stelle e strisce del suo territorio, si ritrova, mani legate, ad agire anche contro i propri interessi, continuando a sottoscrivere le sanzioni alla Russia.
"Siamo vittime di un'autocastrazione nei confronti dei nostri stessi interessi. L'Europa si sta pestando i piedi, si sta mutilando",
ha sottolineato in un'intervista a Sputnik Italia il giornalista e documentarista Fulvio Grimaldi.
Fulvio, secondo lei che cosa vuol ottenere la NATO con la sua espansione nell'Europa orientale ai confini con la Russia?
È un fenomeno estremamente preoccupante anche perché sta per arrivare probabilmente alla presidenza degli Stati Uniti Hillary Clinton, una persona che si è sempre dimostrata radicale nei rapporti con gli altri Paesi e in particolare con la Russia. C'è da avere molta paura su quello che succederà, sulla base di quanto è stato preparato dal presidente Obama. Si tratta di un progressivo assedio nei confronti della Russia, che si vede praticamente circondata da tutte le parti possibili e immaginabili da strutture militari sempre più robuste degli Stati Uniti e della NATO.
È un fenomeno preoccupante che non trova alcuna giustificazione, perché nessuno nell'opinione pubblica e in generale percepisce una minaccia da quella parte, percepisce semmai il pericolo di un'accentuazione della tensione a livello mondiale che non può portare a nulla di buono. Lo ribadisco alla luce del fatto che probabilmente verrà alla presidenza degli Stati Uniti una persona che si è dimostrata molto incline alla violenza, all'aggressività e alla guerra.
Con una possibile vittoria della Clinton secondo lei la NATO diventerà ancora più aggressiva e muscolare?
Non è un rischio, ma una certezza. Hillary Clinton è sostenuta dal settore politico Neocon, quello che da 15 anni ha impostato una politica, prima con Bush poi con Obama, che preme verso un conflitto sempre più acuto e intenso nei confronti di chiunque si opponga al dominino e alla globalizzazione militare, politica, economica neoliberista degli Stati Uniti. Figuriamoci se questo personaggio non rappresenterà un'accentuazione di tensione. Hillary si oppone ad un altro candidato, Trump, il quale ha dato segni di avere qualche perplessità su questo tipo di politica aggressiva e ha preso le distanze dal potenziamento della NATO e dalla necessità di pretendere una difesa dei Paesi del Baltico. La Clinton rappresenta l'ascesa del complesso militare industriale securitario americano.
La Polonia, dove si sono svolte recentemente la maxi esercitazioni NATO "Anaconda", ha acquistato dall'americana Raytheon batterie di "Patriot", una spesa militare importante. Nei Paesi Baltici a rotazione sono stanziati 4 battaglioni dell'Alleanza Atlantica. Per non parlare degli scudi missilistici in Romania. Questa tensione giova all'Europa stessa?
All'Europa nulla di tutto questo giova. L'Europa segue questo carro di violenza e guerra fredda degli Stati Uniti, ma che diventa sempre più calda, una guerra che interessa certi settori della produzione di armi impostati sul mondialismo e il dominio della potenza unica. Questo non conviene certamente all'Europa che ha per situazione geografica, geopolitica, culturale un partner naturale che è l'Est europeo e l'Asia. Il concetto dell'Eurasia è profondamente radicato nella storia e nelle necessità economiche.
Per seguire gli interessi esclusivi degli Stati Uniti siamo costretti ad imporre delle sanzioni che danneggiano probabilmente meno la Russia di quanto non danneggino i produttori e gli agricoltori europei. Siamo vittime di un'autocastrazione nei confronti dei nostri stessi interessi. L'Europa si sta pestando i piedi, si sta mutilando. L'aveva già fatto al tempo della guerra contro la Jugoslavia, quando si distruggeva un pezzo d'Europa per gli interessi degli Stati Uniti. Ora l'Europa continua su questa strada in virtù del fatto che ha una classe dirigente totalmente asservita agli interessi statunitensi e che non bada agli interessi delle proprie popolazioni. In Italia la situazione è gravissima da questo punto di vista.
Cioè?
Abbiamo un Paese che è militarizzato a forza di circa 90 basi americane, inoltre ci sono tutte la basi italiane che sono anche basi NATO a disposizione degli Stati Uniti. Siamo un Paese costellato di basi militari, il che non soltanto è un peso economico finanziario pesantissimo, ci costa l'ira di Dio a scapito di ospedali, scuole, modifiche del territorio. È un fenomeno inoltre che ci mette a rischio facendo di noi un possibile bersaglio di qualcuno che vuole effettuare rappresaglie contro l'aggressività della NATO, di cui noi siamo membri. In Sicilia abbiamo la situazione del M.u.o.s che è la nuova base satellitare statunitense da dove l'America comanderà le varie guerre in Africa e in Medio Oriente. Per la Sicilia è un gravame da un punto di vista aziendale e civile.
Abbiamo la Sardegna che è costellata di basi NATO utilizzate dagli Stati Uniti, dove tutte le industrie militari del mondo collegate all'Alleanza Atlantica fanno le proprie esercitazioni e i propri esperimenti su nuove armi. Tutto ciò avvelenando il territorio e nuocendo alla salute della popolazione. Stiamo soffrendo molto per questa schiavitù essendo membri della NATO.
Questa schiavitù di cui parla si riflette sull'economia, ma anche sulla politica dell'Italia?
Il peso economico è enorme. Le missioni militari che la NATO ci impone in giro per il mondo, costano circa 55 milioni al giorno. Con il contributo di altri ministeri si sale a 80 milioni al giorno per l'impegno militare di un Paese che non ha nessun interesse a fare operazioni militari nei confronti di nessuno, perché non è minacciato da nessuno. Questo controllo militare capillare sul nostro territorio, che si combina al controllo politico che è storico e nasce dalla fine della II Guerra Mondiale, quando siamo entrati in un rapporto di subalternità con gli Stati Uniti, ci pone alla mercé. Questo ci priva di qualsiasi possibilità di autodeterminazione.
Un esempio di questi condizionamenti politici è anche l'allontanamento dell'Europa dalla Russia, per via delle sanzioni imposte dagli Stati Uniti?
È un'assoluta certezza. Si cerca in tutte le maniere, attraverso la militarizzazione dei confini e il controllo politico economico, di impedire che ci sia uno sviluppo naturale, fisiologico, storico e culturale di un rapporto benefico fra l'Europa e l'Est, quindi con la Russia. Si cerca di allontanare l'Europa e la Russia anche attraverso una propaganda russofoba intollerabile che sta assumendo dei toni incredibili contro una Russia, che dopotutto si pone in difesa del diritto internazionale e in difesa dei popoli aggrediti.
Che scenari futuri si immagina personalmente in questo complesso scenario geopolitico?
Purtroppo non vedo elementi che giustifichino ottimismo. Vedo qualche speranza nel fatto che ci sono sempre più evidenti manifestazioni di volontà popolare che si oppongono a questa strategia di scontro e delle sanzioni. Anche attraverso nuove organizzazioni politiche in vari Paesi europei credo ci sia una presa di coscienza che questo tipo di strategia aggressiva ci porta alla rovina. Spero questo sviluppo possa fermare la mano ai politici e impostare un altro tipo di politica. Si deve sperare in questo

venerdì 16 settembre 2016

Germania No-Euro: trionfa Alternative für DeutschlandGermania No-Euro: trionfa Alternative für Deutschland

Dopo l’exploit alle elezioni nazionali di marzo, il partito euroscettico di destra “Alternative für Deutschland” ha ottenuto un altro importante risultato nel Meclemburgo-Pomerania, dove diventa il secondo partito, superando la Cdu di Angela Merkel. Nonostante abbia sottrato voti a tutte le principali forze politiche – spiega lo “Spiegel” all’indomani del voto – a perdere la porzione maggiore di elettori sono state le forze di sinistra, rappresentate da Spd e Die Linke. Importante sottolineare anche come in una regione con un tasso di disoccupazione molto alto, quasi il 30% dei votanti senza un lavoro abbia optato per il partito “populista”, annota Christoph Sydow, chiarendo che, in Meclemburgo-Pomerania, Afd ha ottenuto un importante successo «grazie al voto dei lavoratori, dei disoccupati e degli ultratrentenni». Una persona su quattro «ha votato con convinzione per i populisti di destra». Esito che smentisce seccamente la teoria secondo la quale una maggiore affluenza alle urne indebolirebbe i “populisti”.
E’ un “teorema” bocciato dalla realtà, insiste il giornalista dello “Spiegel” in un articolo tradotto da “Voci dall’Estero”: lo dimostra il successo di “Alternative für Deutschland” non solo in Meclemburgo-Pomerania, ma anche nelle recenti elezioni Leif-Erik Holm, candidato di punta di Adfstatali in Baden-Württemberg, Renania-Palatinato e Sassonia-Anhalt, «tutti Land in cui l’affluenza è cresciuta notevolmente». In Meclemburgo-Pomerania quest’ultima è aumentata di circa dieci punti percentuali rispetto al 2011. Vero, la partecipazione è ancora molto al di sotto dei valori riscontrati dal 1994 al 2000, ma in passato le elezioni regionali hanno quasi sempre coinciso con le elezioni nazionali, che attraggono tradizionalmente più elettori. Ancora una volta è dunque Afd a beneficiare dell’incremento dell’affluenza alle urne: secondo le analisi di Infratest Dimap, il partito No-Euro avrebbe mobilitato oltre 56.000 ex astenuti – più di qualsiasi altra formazione. Inoltre, Afd è riuscita a convincere 20.000 sostenitori dell’Npd, il partito nazional-democratico dell’ultradestra. E ha strappato oltre 23.000 elettori alla Cdu, più 16.000 all’Spd. Infine, l’Afd ha spodestato anche la Linke: 18.000 elettori che quattro anni fa avevano scelto la sinistra, questa volta hanno votato per “Alternative für Deutschland”.
«Il fatto che l’Afd venga percepito principalmente come un partito di protesta è mostrato chiaramente dagli exit poll», continua Sydow. «Interrogati sul motivo della loro decisione di voto, il 66 % degli elettori di Afd ha dichiarato di aver scelto i populisti di destra per via della delusione nei confronti degli altri partiti. Solo il 25% si è detto pienamente convinto dal programma di Add». Guardando l’elettorato totale, il rapporto è invertito: il 57% ha scelto con convinzione il proprio partito, mentre solo il 36% ha dichiarato di essere deluso dagli altri raggruppamenti. «Non abbiamo fatto campagna contro i rifugiati», ha affermato Leif-Erik Holm, il principale candidato di Afd, la sera dopo la chiusura delle urne. È evidente come l’opinione degli elettori del Frauke Petry, tra i leader di Adfsuo partito sia differente. Interrogati sul tema che ha influito in modo decisivo sul voto, il 52% dei votanti di Afd ha risposto: i “profughi”. Al contrario, guardando la totalità degli elettori solo il 20%, ha menzionato questo punto.
L’Afd, continua lo “Spiegel”, è particolarmente forte nell’elettorato tra i 35 e i 60 anni; nella fascia tra i 35 e i 44 anni di età è quasi alla pari con l’Spd; minore è il suo consenso tra gli elettori più giovani. La Cdu riesce a superare l’Afd solo nell’elettorato over-60. “Alternative für Deutschland” riscuote successo soprattutto nella popolazione maschile: in Meclemburgo-Pomerania ha convinto il 25% degli elettori maschi, mentre la percentuale di voto tra le donne è solo del 16%. In questo modo, nel computo totale dei voti femminili, Afd si piazza terzo, dopo Spd (34%) e Cdu (20%). Gli elettori Afd provengono da tutte le classi sociali: disoccupati (29%), lavoratori dipendenti (34%) e lavoratori autonomi (28%). «Afd guadagna punti soprattutto tra gli elettori con un livello di formazione medio-basso, posizionandosi di pochissimo dietro l’Spd», conclude lo “Spiegel”. «Tra le fasce della popolazione altamente istruite il partito si piazza solo al terzo posto, proprio davanti alla sinistra».

giovedì 15 settembre 2016

Cina e Giappone potrebbero essere i vincitori asiatici della Brexit

Il voto del Regno Unito per lasciare l'Unione europea potrebbe avere alcuni vincitori in Asia.
Questo perché la Gran Bretagna sarà costretta ad approfondire i legami con i partner commerciali asiatici e stringere nuovi accordi commerciali che consentiranno l'accesso ad altri mercati. Tale mossa aprirà opportunità per attori del calibro di Cina, Giappone e Hong Kong che hanno già forti legami di investimento, finanziari, turistici e commerciali con il Regno Unito in base a una scheda elaborata dagli economisti di Bloomberg, Fielding Chen e Tom Orlik
"Mentre la Brexit getta le relazioni del Regno Unito con l'Europa nella confusione, rafforzare i legami con le economie asiatiche che sono i principali motori della crescita globale è raramente stato così importante," scrivono Chen e Orlik in una nota. Gli analisti di Bloomberg intelligence elencano cinque fattori per misurare la forza delle relazioni bilaterali.
Commercio: legami più forti significano più possibilità di beneficiare di un cambiamento di flussi commerciali mondiali dopo la Brexit.
Investimenti: significativi investimenti esteri diretti nel Regno Unito offre opportunità altri attori con il Regno Unito che sembra rimanere aperto al commercio globale.
Finanza: forti legami finanziari forniscono una base per migliorare i flussi commerciali e di investimento.
Turismo: l'afflusso di visitatori genererà più reddito per il Regno Unito, e legami people-to-people che sono alla base dei flussi di beni e capitali.
Tasso di cambio: il forte calo della sterlina dopo il voto sulla Brexit è una manna per gli esportatori del Regno Unito, così come per i visitatori stranieri e gli investitori.
In questa particolare classifica, la Cina viene al terzo posto dopo il Giappone e Hong Kong. Il suo punteggio è potenziato da legami commerciali e turistici, ma scivola verso il basso a causa dell' indebolimento dello yuan. Tra coloro che potrebbero perdere ci sono la Malesia, l'Indonesia e le Filippine.
A dire il vero, molto delle future relazioni del Regno Unito con l'Europa e l'Asia rimane sconosciuto all'indomani del voto sulla Brexit. Gli accordi commerciali richiedono tempo per concretizzarsi e le tendenze di investimento si delineano nel corso degli anni, non mesi, avvertono gli analisti di Bloomberg intelligence. Eppure, quelli che vogliono cogliere l'opportunità non attenderanno a lungo
"Le aziende e gli investitori non aspetteranno troppo a lungo prima di afferrare l'opportunità della Brexit".

mercoledì 14 settembre 2016

L’Italicum verrà bocciato, quindi si può buttar via

Dopo aver imposto a colpi di voti di fiducia la legge elettorale chiamata Italicum, improvvisamente Matteo Renzi e la sua coorte di governanti per caso si scoprono “disponibilissimi a cambiarla”. Magari non è nemmeno vero, ma devono almeno far finta di esserlo.
Il caso è notevole non solo sul piano della coerenza di un gruppo di potere – se quel che un anno fa era "il massimo della modernizzazione" ora può essere buttato nello scarico senza problemi, c'è qualcosa che non funziona – ma soprattutto su quello degli scenari a breve termine. Che sono poi gli unici che interessano alla coorte e soprattutto a quelli che “li hanno messi lì” (Marchionne dixit).
In un paese dove la Carta costituzionale viene trattata come un impiccio idealistico difficile da mandare in soffitta (non è mai stata applicata per intero, tantomeno la sua prima parte), la legge elettorale cambiabile a maggioranza semplice è stata spesso il modo più veloce per trasformare la “costituzione materiale”, restringendo progressivamente la rappresentatività del Parlamento rispetto al paese. Tutto in nome della “governabilità”, dell'”efficienza”, della “rapidità” della decisione politica.
Da questo punto di vista l'Italicum è veramente il massimo sperabile, appena un pelo meno del voto censitario o della dittatura. Un sistema a doppio turno in cui chiunque si piazzi ai primi due posti in prima battuta può diventare padrone del paese, anche prendendo magari il 20% dei voti (ossia all'incirca il 10% degli aventi diritto); e che assicura ai comitati elettorali il controllo pressoché assoluto sugli eletti, predeterminati al momento della formazione delle liste.
In combinato disposto con la controriforma costituzionale si andrebbe a realizzare un dispositivo istituzionale che anche Licio Gelli avrebbe probabilmente benedetto con un “troppa grazia, sant'antonio!”.
Ma la Costituzione formale nata dalla Resistenza, pur azzoppata e pesantemente intaccata (dal Pd, quando ancora comandavano Prodi e D'Alema!), ancora esiste e agisce. E dunque tutti guardano con apprensione al 4 ottobre, quando la Corte Costituzionale dovrà esaminare l'Italicum per verificare se esistano o meno – come si dice – profili di incostituzionalità. A presentare ricorso alla Consulta, peraltro, non erano stati i partiti dell'opposizione vera o finta, ma due tribunali, Messina e Torino, con una ricca dotazione di argomenti.
Si sa che l'Italicum ha ripreso e ampliato proprio i due punti su cui la Consulta aveva giudicato incostituzionale la legge elettorale precedente, il porcellum partorito dalla fervida mente di Calderoli & co.: abnorme premio alla maggioranza e candidati predeterminati, non scelti dagli elettori. Entrambi i punti, insomma, annullano le possibilità di scelta e restringono in modo eccessivo-autoritario la rappresentanza politica a due soli "partiti". Un suicidio, oltretutto, in un sistema di fatto tripolare, che implicitamente assicura al ballottaggio la convergenza di secondo e terzo contro il primo.
Rilievi sollevati appunto dai due tribunali ricorrenti, e che mettono sulla graticola proprio il “premio di maggioranza” assegnato al partito che supera il 40% al primo turno o che vince al ballottaggio. Senza una "soglia critica di consensi" per accedere al secondo turno (oltre il 30%, per esempio), il premio non garantisce "l'effettiva valenza rappresentativa del corpo elettorale". In un sistema di rappresentanza frammentatissimo, infatti, sarebbe teoricamente possibile che qualcuno arrivi “primo” con una percentuale irrisoria.
In secondo luogo, l'esplicito “divieto di apparentamento” tra liste diverse tra il primo e il secondo turno – se pure sembra favorire il “non patteggiamento” tra programmi elettorali diversi, considerato un modo per rallentare o paralizzare l'azione di governo – appare decisamente irrazionale rispetto allo scopo (costituzionalmente dovuto) di assicurare un Parlamento che sia anche rappresentativo dell'opinione prevalente nel paese. Governabilità e rappresentatività viaggiano su binari e con orari diversi. E l'attuale Costituzione non consente di scegliere la prima, come pure piacerebbe a Goldman Sachs e a tutte le imprese multinazionali.
Dunque, visto che la sentenza del 2014 fa da autorevole precedente, sembra logico attendersi che a ridosso del 4 ottobre anche questa legge elettorale venga bocciata in tutto o in parti sostanziali. E certo non mancano i memebri della Consulta nominati dal Parlamento che possono riferire in privata sede degli orientamenti esistenti nella corte (non pensate subito a Giuliano Amato, ce ne sono anche altri!).
Insomma: il governo Renzi e i sui committenti sono perfettamente consapevoli che l'Italicum finirà nella spazzatura, quindi si portano avanti con il lavoro dichiarandosi pronti a discutere un'altra legge elettorale. Anche a costo di fare una figura miserabile (non è mai stata cambiata una legge elettorale prima ancora di metterla alla prova), che dimostra anche ai ciechi l'incompetenza istituzionale di questi “personaggetti”.
Il problema è che i tempi sono ormai maledettamente stretti. Il referendum va fatto – per obbligo costituzionale, anche qui – prima di Natale. E non sembra che la cosiddetta “maggioranza di governo” possa reggere una discussione che va a incidere sulle possibilità o meno, per l'attuale ceto politico-parlamentare, di restare in sella. E arrivarci con sulle spalle un'altra bocciatura della Consulta sarebbe il modo migliore per assaporare la sconfitta.
Se la controriforma Boschi-Renzi dovesse però finire bocciata dagli elettori – cosa che appare oggi possibile, contrariamente a un anno fa – Renzi sarebbe così “azzoppato” da non poter evitare le dimissioni. Se non altro perché la sua “maggioranza” si sfalderebbe all'istante, con tanti manipoli in fuga verso una configurazione diversa. E sarebbe complicato anche andare a nuove elezioni, visto che la legge utilizzabile allo scopo resta per il momento il vecchio mattarellum.
Anche saldandosi alla poltrona di Palazzo Chigi, comunque, con una diversa legge elettorale dovrebbe cambiare completamente strategia rispetto a quanto previsto fin qui (un solo partito al comando, al servizio di un gruppo selezionato fuori dai circuiti della politica nazionale), tornando alle “vecchie” e consolidate prassi concertative tipiche dei governi di coalizione. Qualcosa che proprio non piace in primo lugo all'Unione Europea, che pretende da ogni paese governi certi per almeno cinque anni, e non litigiose combriccole di specialisti in “assalti alla diligenza” della spesa pubblica.
Il cortocircuito è evidente, e la paralisi del potere probabile. Vero è che i giudici della Consulta – ragionando politicamente, cosa che non dovrebbe nemmeno sfiorarli – potrebbero portare la sentenza alle lunghe, dando così modo all'esecutivo di arrivare senza altri handicap alla scadenza referendaria. Ma se dovessero scegliere questa strada, anche a prescindere dal merito della sentenza che emettranno, si dimostrerebbe che anche la Corte Costituzionale non è più un “organo di garanzia

martedì 13 settembre 2016

Il fantasma dell’occupazione che cresce

Il Jobs Act funziona nel ridurre la disoccupazione? Renzi e media più servi si sono lanciati sui dati Istat di oggi come un assetato sull'acqua, nel bel mezzo del deserto, sventolando due nuemri che sembrano incontrovertibili: +439 mila occupati su base annua e -252 mila persone Not in Education, Employment or Training (Neet), ossia giovani che non lavorano né studiano.
Purtropo, per dare un giudizio sensato del quadro occupazionale e del mercato del lavoro, bisogna leggere tutti i dati e soprattutto sapere cosa c'è a monte di tendenze che sembrano “oggettive”.
E il quadro generale è assai meno roseo di come lo dipinge il governo. Cominciamo col contesto: nel secondo trimestre di quest'anno la “crescita” del Pil si è arrestata, e questo era già stato detto in un report Istat precedente; la crescita tendenziale – ossia su base annua, rispetto al 30 giugno 2015 – è addirittura la metà (0,8%) di quella che il governo s'era dato come obiettivo (1,6-1,7%).
Vabbè, direbbe un renziano, ma l'occupazione è cresciuta lo stesso, di che vi lamentate?
Se ne lamenta l'economia, stupid! In un modo di produzione in rapidissimo sviluppo tecnologico applicato alla produzione, se la crescita del Pil è zero la disoccupazione diventa inevitabilmente un dato in crescita (meno occupati per fare la stessa massa di merci, di qualsiasi tipo). Dunque, se l'occupazione appare crescente in un contesto in cui doivrebbe invece diminuire, abbiamo di fronte due possibili spiegazioni.
a) In Italia, e solo in Italia, gli incentivi che per tutto il 2015 il governo ha concesso alle imprese che assumevano con il contratto a tutele crescenti (impropriamente chiamato “a tempo indeterminato”, visto che il licenziamento può scattare in qualsiasi momento e per qualsiasi motivo, anche ingiustificato). Fino a 8.000 euro l'anno di sgravi contributivi e fiscali per ogni “nuovo assunto”, per la durata di tre anni. Con incentivi così robusti è stato favorito il passaggio di molti occupati in nero o con contratti a tempo determinato nelle fila dei “tempi indeterminati”. E l'Istat dice che effettivamente questo travaso è stato molto importante, andando a limare sia la disoccupazione giovanile ufficiale che il fenomeno assolutamente negativo dei Neet.
Non ci sarebbe affatto da stigmatizzare un simile risultato se, nella pratica, l'entità dell'incentivo non fosse grosso modo identica al salario corrisposto dalle aziende ai lavoratori in nero o precari. Di fatto, imprenditori che pagavano 800 euro al mese (o anche meno) a giovani in nero o con contratti a termine, hanno potuto “assumerli” senza peggiorare affatto i propri conti economici, visto che hanno continuato a corrispondere gli stessi salari “in chiaro”, mentre il governo si incaricava di coprire i costi previdenziali e fiscali. Una cosmesi legalizzata che cambia le statistiche ufficiali – l'Istat non può che registrare quel che si determina a legislazione vigente – senza migliorare in nulla la condizione delle persone. Probabilmente (non essendoci dati certi sul lavoro nero), il numero degli occupati reali non è affatto mutato.
b) I posti di lavoro “in crescita” in una situazione economicamente stagnante sono per forza di cose “lavoretti”, con scarso o nullo impatto sulla crescita. Se chiudono fabbriche e aprono ipermercati, per esempio, i posti di lavoro possono persono forse aumentare, ma la ricchezza prodotta diminuisce, il profilo industriale di un territorio crolla, i salari – necessariamente – vengono ridotti e i diritti dei dipendenti finiscono nello sciaquone. Dura miga, non può durare…
Siamo noi a dirlo, impenitenti comunisti avversari del governo Renzi?^ No, lo dice l'Istat. Basta saper leggere tutto: “le ore complessivamente lavorate crescono dello 0,5% sul trimestre precedente e del 2,1% su base annua”. Non vi sembra illuminante? Il Pil non cresce, ma le ore lavorate sì. Insomma, si lavorerebbe di più per fare la stessa quantità di prodotti… O c'è un inganno statistico (lavoro nero ora “in chiaro”, ma di bassa qualità), o stiamo diventando un popolo incapace di fare…
Una ipotesi idiota, visto che “Il tasso di occupazione sale di 0,5 punti, soprattutto per i 15-34enni (+0,8 punti) e per i 50-64enni (+0,6 punti)”. I giovani hanno più energia, quindi per tutte le lavorazioni più “fisiche” possono dare un contributo maggiore degli anziani; e gli over 50 hanno più esperienza, quindi possono rendere meglio in tutte le mansioni in cui il “saper fare” ha la meglio sull'energia pura e semplice. Un altro apparente paradosso statistico che andrebbe spiegato, invece di farsene stupidamente belli…
Anche perché, fa presente l'Istat, i primi dati disponibili per il mese di luglio (apertura del terzo trimestre) sono tutt'altro che piacevoli.
“Le tendenze più recenti, misurate dai dati mensili relativi a luglio 2016 mostrano, al netto della stagionalità, un'interruzione della tendenza positiva registrata nei quattro mesi precedenti, con un calo degli occupati concentrato nella componente indipendente, a fronte di una sostanziale stabilità dei dipendenti.”
La propaganda ha i suoi tempi e i suooi limiti. I primi stanno scadendo, i secondi sono stati superati. E sono ora insopportabili.

lunedì 12 settembre 2016

11 Settembre, com'è possibile che 15 anni dopo gli Usa siano alleati di chi uccise più di 3.000 americani?

35 anni fa in Afghanistan Reagan e gli Stati Uniti si affidava ai cosiddetti Freedom Fighters per combattere l'URSS.
20 anni dopo, le stesse persone, chiamandosi in modo diverso (Al Qaeda) realizzavano l'11 Settembre 2001 negli Stati Uniti.
10 anni dopo, le stesse persone, chiamandosi in modo diverso (Ribelli Moderati) venivano sostenuti dagli americani per disintegrare il medio oriente.
5 anni dopo, le stesse persone, con un altro nome (Al Nusra, Daesh, Free Syrian Army) finalmente venivano fermati da Arabi, Russi e Persiani, Cristiani, Musulmani e altri uomini valorosi.
A distanza di quindici anni dall'11 Settembre 2001 Washington è alleata di coloro i quali hanno ucciso più di 3.000 americani.
Come è possibile? Semplice. Non fu al-qaeda a far crollare il palazzo numero
7 a New York. Non venne colpito da alcun aereo.
Quel grattacielo implose senza alcuna giustificazione fisica plausibile e non fu neppure investigato dalla commissione ufficiale (nemmeno una parola lo menziona nelle oltre 1000 pagine dell'inchiesta).
15 anni dopo siamo ancora in attesa di sapere come crollo' e chi lo fece implodere: se non fu Al Qaeda, chi allora ?
La mancanza di una risposta ha foraggiato anni di guerre in tutto il globo e ironicamente, quasi come lezione del destino, ha segnato l'inizio della fine per il sogno americano di dominazione mondiale.
Quindici anni dopo l'11 Settembre 2001 l'inganno potrà ancora essere forte e la verità sempre più lontana, ma il destino di Washington è segnato per sempre, inesorabilmente...

venerdì 9 settembre 2016

Falsa morale (e veri interessi) da chi pilota l’immigrazione

Poteri forti, interessi fortissimi. Attraverso i media da loro gestiti, giustificano l’immigrazione di massa come rimedio alla denatalità dei paesi occidentali. Ma la giustificazione non regge, secondo Marco Della Luna, «perché quelli sono i medesimi poteri (interessi) forti che hanno indotto la denatalità, soprattutto attraverso la loro politica monetaria deflazionistica e recessiva la quale, assieme al modello sociale ad essa collegato, al contrario delle sue promesse di sviluppo e stabilità, ha tolto lavoro e prospettive per il futuro, nonché partecipazione democratica». Sono i medesimi super-poteri che «mantengono quella politica nonostante i suoi effetti, e che con essa si sono arricchiti e potenziati politicamente». Sono sempre loro a produrre i flussi migratori, «fomentando o conducendo direttamente guerre in Africa e Asia, per i loro interessi petroliferi, minerari, militari e per vendere armi, e praticandovi il land grabbing», la “rapina” delle loro terre. Poteri che «permettono ai comitati d’affari» anche italiani, «in veste politica o religiosa», di «speculare e rubare sul traffico dell’accoglienza», al riparo del Vaticano e dei mass media «moraleggianti». Tutto questo permette ai grandi padroni di «giocare al ribasso sui salari grazie alla manodopera immigrata».
Per Della Luna, si tratta di «un traffico che distrae grosse risorse economiche altrimenti spendibili per sostenere l’occupazione e gli investimenti, quindi la natalità», senza contare «problemi di criminalità, di sicurezza del territorio e di malattie Marco Della Lunaimportate». Facciamo pochi figli? E’ sempre scarsa la domanda interna di beni? E’ perché «già abbiamo scarso reddito, scarsi servizi e scarsa sicurezza». E loro, i poteri al servizio degli “interessi forti”, «ci tolgono altri soldi, altri servizi e altra sicurezza per offrire il mantenimento (per giunta gratuito, senza lavorare) a chiunque arrivi: un invito potentissimo ad accorrere in massa, rivolto a un bacino di centinaia di milioni di poveri, che mette in moto un flusso inesauribile, che richiederà risorse inesauribili, ossia esaurirà presto quelle disponibili». Per Della Luna, da sempre ultra-critico verso l’immigrazione “pilotata”, il cerchio si chiude: «Con la recessione e la disoccupazione si produce la denatalità che giustifica l’accoglienza, la quale sostiene la denatalità».
Al tempo stesso, «con l’imperialismo e l’interventismo nei paesi poveri si alimentano i flussi migratori, scaricandone i costi sui paesi occidentali, in cui le condizioni di vita e le prospettive per il futuro si deteriorano al punto che essi risultano attraenti solo per i migranti economici che vengono da aree molto peggiori, mentre per noi davvero aver figli diviene sempre meno sostenibile e desiderabile». Così sta avvenendo una sorta di graduale sostituzione etnica: «Fuori noi, dentro loro». E’ la sindrome dei panda, che «quando si trovano in cattività, in un ambiente cioè che non sentono più come il loro, smettono di riprodursi». Preti e mass media dicono che noi occidentali dobbiamo accettare l’immigrazione di massa da quei paesi per espiare il fatto che, in passato, li abbiamo colonizzati e sfruttati? «Ma chi decise la colonizzazione e la usò per arricchirsi – ribatte Della Luna – erano non già i popoli (occidentali), bensì proprio quelle medesime élites che oggi stanno praticando l’imperialismo verso quei paesi, a spese (anche) dei popoli occidentali, e che posseggono i media e gestiscono l’informazione, cioè la propaganda, a loro profitto».

giovedì 8 settembre 2016

Francia in tumulto: si prepara a minacciare l’uscita dall’Ue

Sei francesi su dieci voterebbero per uscire dall’Unione Europea. Lo dicono i sondaggi, all’indomani del Brexit, in una Francia devastata dall’opaco terrorismo targato Isis. Protefa in patria, il professor François Heisbourg, presidente dell’istituto di studi strategici di Parigi, in un saggio di tre anni fa anticipò “La Fine del Sogno Europeo”. Sosteneva che il «cancro dell’euro» dovesse essere estirpato per salvare quel che resta del progetto europeo: «Il sogno è diventato un incubo. Non ci basterà negare la realtà per evitarlo, e Dio sa quanto la negazione sia stato il modo di operare delle istituzioni europee per lungo tempo». Heisbourg è stato ignorato, rileva Ambrose Evans-Pritchard, ma gli eventi si stanno svolgendo esattamente come lui temeva. Nel centrodestra, Sarkozy annuncia una grande svolta anti-Ue con la quale spera di contendere voti a Marine Le Pen. E dal centrosinistra, l’ex ministro Montebourg sfida apertamente Hollande, dichiarando che ormai i trattati europei sono da considerarsi carta straccia: la Francia non può più continuare a prendere ordini da Bruxelles.
La lunga crisi economica in cui è sprofondata la Francia sta per riscuotere il suo tributo, politicamente parlando: «Ha mandato in pezzi prima il centrodestra e poi il centrosinistra francese, e ora minaccia la stessa Quinta Repubblica», scrive Evans-Il socialista Arnaud MontebourgPritchard sul “Telegraph”, in un articolo tradotto da “Voci dall’Estero”. L’ex presidente gollista Nicolas Sarkozy è tornato alla ribalta mediatica «lanciando la scommessa del proprio ritorno sulla scena con la proposta di un pacchetto di politiche di ultra-destra mai viste in tempi recenti nelle democrazie europee occidentali». Ma il tumulto nella sinistra è altrettanto rivelatore: Arnaud Montebourg, l’enfant terrible del partito socialista, ha lanciato la propria sfida contro il governo Hollande, definito «regime politico da destra tedesca». Nel mirino, Bruxelles: «Penso che l’Unione Europea sia arrivata a fine corsa, e la Francia non ha più alcun interesse a farvi parte. L’Unione Europea ci ha lasciati impantanati in una crisi anche molto tempo dopo che il resto del mondo ne era uscito». Montebourg chiede una sospensione unilaterale delle leggi europee sul lavoro: «Per quanto mi riguarda, gli attuali trattati sono scaduti». E annuncia uno “sciopero” contro l’Ue: «Non possiamo più accettare questa Europa».
In altre parole, spiega Evans-Pritchard, Montebourg «se ne vuole andare da dentro – come stanno già facendo la Polonia e l’Ungheria – cioè senza sollevare nessuna clausola tecnica o legale». E la sua accusa contro Hollande è devastante: le politiche di rigore hanno inevitabilmente portato a milioni di persone disoccupate. «Non si sono mai smossi dal loro catechismo e dalle loro false certezze», dice Montebourg. I socialisti hanno pagato un prezzo salato per la loro cieca arroganza: hanno ottenuto solo il 15% dei voti dalla classe lavoratrice nelle recenti elezioni, mentre il Front National di Marine Le Pen ha mietuto il 55%. La doppia contrazione – fiscale e monetaria – ha gettato la già prostrata economia dell’Eurozona in una seconda recessione, osserva Evans-Pritchard. «Tutto ciò è stato aggravato da una stretta fiscale che è andata ben oltre qualsiasi possibile dose terapeutica, ed è stata imposta da un ministro delle finanze tedesco accecato da un’ideologia pre-moderna», il terribile L'economista François HeisbourgWolfgang Shaeuble, «e seguita servilmente da tutti gli altri». Ed ecco il punto: «La Francia avrebbe forse potuto mobilitare una maggioranza di paesi europei per bloccare questa follia, ma né Sarkozy né Hollande sono stati disposti ad affrontare Berlino».
Entrambi i presidenti francesi «sono rimasti legati religiosamente all’accordo franco-tedesco, o almeno alla sua illusione totemica». Il risultato? «Un decennio perduto, e una retrocessione del lavoro che ridurrà le prospettive di crescita dell’Eurozona per molti anni ancora». Osserva ancora il giornalista economico inglese: «Non sapremo mai se la disoccupazione giovanile di massa nei quartieri nordafricani delle città francesi ha avuto un ruolo nella diffusione della metastasi jihadista lo scorso anno, ma certamente è stato uno degli ingredienti». Per contro, la tendenza anti-Ue che ormai investe trasversalmente la Francia dimostra che, se la “regia occulta” del terrorismo mirava a ottenere la rassegnazione dei francesi anche rispetto alle misure più impopolari dettate dall’élite finanziaria, come la Loi Travail, il Jobs Act transalpino, i francesi non ci stanno. Anche perché l’analisi della situazione è deprimente: «L’austerità fiscale è terminata, ma l’economia francese non è ancora abbastanza forte da risolvere le patologie sociali che tormentano il paese. Nel secondo trimestre la crescita è ritornata a zero».
Per Evans-Pritchard, «il grande danno politico, comunque, si è già consumato: non serve aggiungere che la Francia ha anche una serie di problemi economici che non c’entrano con l’Ue. Il modello sociale è basato su tasse punitive sull’occupazione e crea uno dei peggiori cunei fiscali al mondo. Appena un quarto dei francesi tra i 60 e i 64 anni lavorano, rispetto al 40% della media Ocse. Questo è dovuto a incentivi per il pensionamento precoce. Lo Stato spende il 56% del Pil, cioè l’equivalente dei paesi nordici, senza però avere la flessibilità del lavoro che c’è nei paesi nordici». E ancora: «Ci sono 360 diverse tasse, alcune delle quali in vigore da prima della Rivoluzione Francese. I sindacati hanno per legge un presidio in tutte le aziende oltre i 50 dipendenti, eppure hanno un tasso di partecipazione di appena il 7%». Per Brigitte Granville, economista alla Queen Mary University di Londra, «è un inferno che purtroppo non ha nemmeno la poesia di Dante». Di fatto, «si è tergiversato per tutti gli anni del boom dell’euro e ora è troppo tardi. Ora la Francia è intrappolata nella camicia di forza dell’unione monetaria». Secondo il Fmi, il tasso di cambio reale è sopravvalutato del 9% (e rispetto alla Germania del 16%). «L’unico modo pratico con Sarkozycui la Francia può riguadagnare competitività è tramite una profonda deflazione rispetto al resto dell’Eurozona, ma questo prolungherebbe la crisi e sarebbe devastante per il Pil e la dinamica del debito. Sarebbe autolesionista».
Per Evans-Pritchard, Montebourg ha ragione a concludere che la Francia sarà paralizzata fino a che non riprenderà gli strumenti della propria sovranità. Quanto a Sarkozy, sta «aggirando questo elemento essenziale». Il suo manifesto-shock «chiede la fine del primato legale Ue rispetto alla legge francese e chiede l’abrogazione del Trattato di Lisbona, quello stesso trattato che lui, Sarkozy, aveva introdotto con prepotenza al Parlamento francese dopo che era stato respinto dagli elettori francesi in un referendum sotto la guisa di “Costituzione Europea”». Ma il suo maggior ardore, continua Evans-Pritchard, è riservato alla guerra culturale e alla “riduzione drastica” del numero degli stranieri. «Sarkozy promette di porre sotto controllo l’Islam in Francia, con gli imam che dovrebbero riferire le proprie attività al ministero degli interni». L’appello di Sarkozy alla “identità francese” punta direttamente al Front National, «e questo dice molto sulla devastazione dello scenario politico dopo anni di depressione».
Marine Le Pen è davanti a Sarkozy nei sondaggi, con un sostegno dell’elettorato vicino al 30% grazie a un impetuoso mix di ricette economiche di sinistra e nazionalismo di destra, con un richiamo diretto agli anni ’30. Ha promesso di «far finire l’incubo dell’Unione Europea». Un sondaggio Pew risalente a giugno svela il 61% degli elettori francesi ha un’opinione “sfavorevole” dell’Ue, un dato addirittura più alto che in Gran Bretagna. Il professor Thomas Guénolé della “Sciences Po” di Parigi avverte: «Per quanto possa sembrare incredibile, un referendum sul ‘Frexit’ verrebbe probabilmente perso dalla fazione europea. Come nel Regno Unito, il ‘leave’ vincerebbe». Per “Le Figaro”, il Brexit ha cambiato profondamente la situazione: «I sostenitori della costruzione europea avevano preso l’abitudine di difendere l’Europa con argomenti catastrofisti, con l’idea che l’uscita avrebbe provocato nuove guerre o collassi economici. Ma ora la Gran Bretagna sta uscendo ed è evidente che non avverrà nessun cataclisma economico e nessuna grossa crisi geopolitica»

mercoledì 7 settembre 2016

LIBERA CIRCOLAZIONE DEI CAPITALI, OVVERO COLONIALISMO

La serie di attentati di presunta matrice “islamica” in Francia e Germania è stata l’occasione, o il pretesto, per gran parte della stampa di segnalare la pioggia di finanziamenti che provengono da Arabia Saudita e Qatar, con la giustificazione ufficiale di costruire moschee in Europa. Gli stessi quotidiani che lanciano l’allarme per questa nuova emergenza-Islam non possono però fare a meno di rilevare che la destinazione “religiosa” dei finanziamenti non impedisce che questi capitali delle petromonarchie vadano ad acquisire vasti patrimoni immobiliari, specialmente in Italia.
Le operazioni finanziarie di questo tipo hanno probabilmente molto poco a che vedere con il terrorismo (molto più endogeno di quanto si voglia far credere) o con i progetti di conquista manu militari dell’Europa, dato che l’Europa è già sotto l’occupazione militare statunitense. La presenza di poli “islamici” ricchi e costantemente finanziati in Paesi come l’Italia, soggetti ad impoverimento progressivo dalle politiche europee, rappresenta una testa di ponte per affari immobiliari tanto più promettenti quanto più l’euro-deflazione fa scendere i prezzi.
Del resto i finanziamenti alle moschee ed ai centri culturali islamici rappresentano la minima quota del totale degli investimenti del Qatar in Italia. Grazie alla sua stabile partnership con la NATO, il Qatar ha acquisito ufficialmente lo status di Paese “rispettabile” che non rischia di andare incontro a sanzioni economiche, perciò, attraverso una lobby “italiana” ben strutturata e ammanigliata, questa petromonarchia, dopo aver acquisito il marchio della moda Valentino ed il complesso immobiliare di Porta Nuova a Milano, ha ulteriormente ramificato le sue attività nel campo del turismo, dove non mancano le occasioni per acquistare a prezzi stracciati alberghi, terreni ed altri immobili.
Di fronte alla preoccupata indignazione dei giornalisti, verrebbe da commentare: è la libera circolazione dei capitali, bellezza!
Razzismo anti-arabo ed islamofobia costituiscono un espediente per aggirare il vero problema e la vera soluzione al problema: l’afflusso di capitali esteri può sì rappresentare un momentaneo sollievo per la nostra bilancia dei pagamenti in deficit, ma comporta gravi effetti destabilizzanti per l’assetto sociale ed istituzionale di Paesi in stagnazione economica cronica come il nostro, perciò la soluzione consisterebbe nel limitare la mobilità dei capitali, non certo nel razzismo o nell’impedire alle donne l’uso di burka e burkini. La locuzione “libera circolazione dei capitali” può vantare un sinonimo dal senso semplice e diretto: colonialismo.
Molti commentatori dell’establishment si lamentano del fatto che, nonostante gli incrementi, l’Italia veda un tasso di investimenti esteri ancora inferiore agli Stati Uniti ed alla Germania. Intanto però in Italia vi sono più investimenti esteri che in Brasile e quasi al livello dell’India. In realtà certe lamentele non hanno alcun senso, se non propagandistico, perché gli Usa e la Germania sono Paesi fortemente capitalizzati, nei quali gli investimenti hanno uno scarso potere condizionante. In Paesi poco capitalizzati come il nostro solo in minima parte i capitali esteri vanno infatti a finanziare attività produttive, in quanto sono soprattutto indirizzati all’acquisizione immobiliare ed alla fagocitazione della classe dirigente.
Ad esempio, con il patrocinio dell’Unione Europea, la Open Society Foundation di George Soros finanzia anche piani di borse di studio. In un contesto di impoverimento e dissesto dell’istruzione pubblica, questi piani così apparentemente innocui e filantropici costituiscono una vera e propria ipoteca sul futuro di un Paese. Le prossime generazioni si affacceranno alla gestione della società già “formate” in base agli interessi del colonialismo.
La libera circolazione dei capitali rappresenta uno dei cavalli di battaglia del sedicente liberismo, l’altro è la riduzione della spesa pubblica, considerata, specialmente in Paesi come il nostro, strutturalmente “inefficiente”. Il liberismo pretende di imporre una visione dell’economia come un processo “naturale” a cui adattarsi, ma è tutto da dimostrare che la natura sia “efficiente”. Anche la natura risulta piuttosto “sprecona” e la sua riproduzione avviene a prezzo di innumerevoli disastri e tentativi falliti, quindi la spesa pubblica potrebbe vantarsi di essere molto più “naturale” di quanto si voglia far credere; anche perché la stessa natura viene a riscuotere i suoi crediti nei confronti dei territori e dei popoli che li abitano senza riguardo ai pareggi di bilancio nella Costituzione.
Ma se si esce dagli ossimori liberisti, si comprende immediatamente l’importanza che riveste una riduzione della spesa pubblica per favorire la colonizzazione da parte dei capitali esteri. Meno soldi circolano in un Paese, più i capitali esteri vedranno aumentare il proprio potere contrattuale. La libera circolazione dei capitali presuppone quindi la limitazione della libertà degli altri. Nelle enciclopedie il liberismo andrebbe quindi tolto dalla voce “dottrine economiche” per essere inserito in quella di “propaganda imperialistica”.

martedì 6 settembre 2016

Evasione e bolle armi del ricatto globale

Le ultime vicende che vedono i colossi del web e dell’informatica, Apple in testa, sotto accusa per i marchingegni fiscali e le gigantesche evasioni, non ci parlano solo del meraviglioso e intricato mondo del business nell’era globalizzata nella quale si produce in Cina, si distribuisce in Irlanda e si pagano le tasse finali a Bermuda, ma di una realtà sempre più evidente: che le multinazionali e i grandi gruppi finanziari stanno sostituendo gli stati e dunque stanno anche spazzando via la democrazia. Il caso della mela morsicata è esemplare: non contenta della tassazione in Irlanda che peraltro è appena del 12,5% nel 2003 riuscì ad imporre a Dublino un’aliquota dell’ 1% e a portarla gradualmente a niente, a una ricarica di telefonino, ovvero lo 0,005% , il 5 per mille per chi non si trova a suo agio con le cifre decimali. Adesso l’Irlanda, dopo una sentenza europea chiede ad Apple 13 miliardi di tasse, per le attività economiche svolte sul proprio territorio, ma succede un fatto stranissimo e surreale: gli Usa dapprima hanno minacciato ritorsioni, poi il ministro del tesoro ha suggerito che forse la multinazionale (che ovviamente paga cifre ridicole anche in America) potrebbe ridurre l’importo dovuto all’Irlanda “se le autorità degli Stati Uniti dovessero imporre ad Apple di versare per il periodo 2003 – 2014, importi maggiori alla società madre statunitense per il finanziamento delle attività di ricerca e sviluppo”.
E’ chiaro che si tratta di un tentativo di salvataggio in extremis francamente privo di senso visto che non si vede la ragione per cui l’Irlanda dovrebbe cedere parte del suo credito agli Usa in cambio di una fumosa e pelosa promessa su un cambiamento delle regole in terra americana. Ma dall’episodio emergono fin troppo chiaramente due cose: da una parte il totale disconoscimento della sovranità altrui tanto da voler rubare e lucrare il maltolto quasi si trattasse di una storia di malavita, dall’altra la subalternità di Washington ai poteri di economici, che la costringe farsi carico non solo dell’evasione ed elusione nazionale, ma di difenderla anche altrove. Insomma come se fossero ormai una specie di Blackwater globale, di braccio armato del profitto.
Del resto in un sistema liberista non potrebbe essere altrimenti: la nomenklatura capitalista comanda ad onta dell’apparente democrazia; la globalizzazione, la battaglia contro il lavoro, i salari e il welfare hanno fatto crescere i profitti e li hanno finanziarizzati, a fronte di un calo produttivo, tanto che nel secondo trimestre di quest’anno i dividendi azionari sono stati di 372 miliardi dollari e questo secondo le stime ufficiali che ovviamente non tengono conto delle sottostime, degli imboscamenti e dei camuffamenti di denaro, dei dividendi non versati o di quelli occulti, delle capitalizzazione borsistiche, dei guadagni azionari di tantissimi dirigenti dei grandi gruppi, dell’economia criminale o di quella sommersa, della finanza off shore, o delle evasioni fiscali. Bene che vada la gigantesca cifra è solo la punta di un iceberg e tuttavia già così e nemmeno tendendo conto di una stima di crescita del 4% entro il 2016 fatta dalla Henderson Global Investors, arriviamo su base annua a 1 miliardo e 488 miliardi di Euro, vale a dire una cifra superiore al Pil di quasi tutti i Paesi del mondo e inferiore solo a quello dei primi 9. E’ più, molto di più, di qualsiasi Paese dell’America latina ad eccezione del Brasile, è più di qualsiasi Paese dell’Africa, molto superiore alle tre grandi economie del continente, ovvero Sudafrica, Nigeria ed Egitto e assai di più di qualsiasi stato dell’Asia, fatte salve Cina e India. Sono cifre, anche se solo ufficiali, che determinano il comando perché qualsiasi Paese è sotto ricatto, basta premere un tasto.
E tuttavia i numeri stratosferici non cancellano anzi rafforzano l’idea di trovarsi di fronte ad un mondo illusorio ed estremamente fragile: tornando alla web e sharing economy dalla quale siamo partiti possiamo focalizzarci sulla Airbnb, una società fondata bel 2008 da tre ragazzotti californiani che oggi sono multimilardari con l’idea di mettere in rete il business fiorente, proprio a causa delle crisi, delle case vacanza. Con solo un’idea nemmeno poi cosìoriginale e di fatto già in qualche modo esistente sia pure a titolo gratuito, con una banalissima struttura informatica, senza alcuna proprietà materiale, nemmeno quella dei server sono diventati leader mondali di questo interscambio e per tutto questo salvo che negli Usa dove viene usato il paradiso fiscale de facto del Delaware, la società madre e le consorziate pagano un inezia di tasse in Irlanda. Si tratta allora di un miracolo che conferma la retorica oscena e vacua delle start up? No si tratta dell’economia di carta: in Italia che è il terzo Paese al mondo dopo Usa e Francia per numero di contratti, i proprietari hanno guadagnato almeno in chiaro 394 milioni di euro con le case affittate su Airbnb. Ma solo una commissione del 3% per cento è finito alla società dunque all’incirca 11 milioni, mentre dagli ospiti temporanei arriva una percentuale che va dal 6 al 12% e quindi aggiungiamo altri 23 milioni. A questi sommiamo i “contributi” alla società di un milione e trecentomila italiani che si sono serviti di Airbnb per trovare case vacanza fuori del Paese: qui i conti sono più ardui, ma possiamo ipotizzare un’altra dozzina di milioni per un totale di circa 50 di milioni. Tantissimo per pagare appena 40 mila euro di tasse anche se tutti i contratti vengono in realtà firmati con la filiale irlandese della società.
Tantissimo ma anche problematico perché se è vero, come afferma la società che finora 60 milioni di persone hanno utilizzato il servizio di cui 2 milioni di proprietari gli incassi globali sebbene alti per un semplice servizio web e altissimo rispetto alla miseria di tasse pagate, si possono ipotizzare in circa 6 miliardi di entrate ( con una media, molto, ma molto generosa e di fatto improbabile di mille euro a contratto), ma allora com’è che i tre fondatori si ritrovano ognuno con un patrimonio personale di circa 3 miliardi e mezzo di dollari? Si deve andare a tentoni perché i bilanci sono segreti e del resto la Airbnb ha la sua sede principale nello stesso palazzo che ospitò a suo tempo la Buconero significativa società di Callisto Tanzi. Ora tutto questo per dire che nonostante la Airbnb secondo il Wall street journal non abbia fatto utili nel 2015 a causa delle spese per espandersi e che anzi le perdite operative siano state di 150 milioni, che il settore abbia comunque dei limiti di crescita e che adesso arriva il difficile con la concorrenza locale in via di contrattacco, la società ha ricevuto un miliardo di dollari da un gruppo di banche composto da Jp Morgan, Citigroup, Bank of America, Morgan Stanley e grazie a questo la sua valutazione è arrivata a 30 miliardi di dollari, una cifra spropositata se ci basiamo sui fondamentali. E tutti riposti in una fede assoluta e generica nella sharing economy che via Irlanda e Bermuda paga un semplice obolo di tasse. Quindi economia di rapina e bolle vanno di pari passo e collaborano insieme a costruire la potenza finanziaria con cui si tiene in vita il ricatto globale.