Le proposte di Renzi in materia di lavoro con il suoi Job Act (piano Lavoro) sono quasi del tutto inutili e pro-forma, dato che il nuovo leader del
Pd si guarda bene dall’affrontare i nodi reali della situazione, come
d’altronde era prevedibile, vista la sua storia e le sue idee. Alcune
di tali proposte vanno nella giusta direzione, laddove ad esempio si
intenda semplificare la giungla delle forme, delle regole e dei contributi.
Ma semplificare in che direzione e con che risultati? La somma di zero
più zero è pari, come è noto, a zero, e a questa inflessibile regola
matematica neanche l’intraprendente e furbo fiorentino riuscirà, temo, a
sottrarsi.
Stesso discorso vale ovviamente a proposito del tema del reddito minimo garantito, che ci vede, come dimostrato da una recente inchiesta de L’Espresso,
fanalino di coda assoluto anche in Europa. Anche qui non basta
omogeneizzare i trattamenti previsti, che sono comunque tutti ben al di
sotto di ogni parametro dignitoso. Occorre introdurre “garanzie universali: sussidio di disoccupazione, reddito minimo garantito, salario minimo orario e giusto compenso”.
Occorre insomma, su tutti i piani, il trasferimento massiccio di
risorse dalla rendita finanziaria al lavoro, quello esistente e quello
da creare. Nella realtà si assiste invece a fenomeni del tutto opposti.
Una vera e propria tendenza al ritorno in auge della schiavitù, del
lavoro senza garanzie, senza dignità e senza salario, come dimostrato
dalle proposte in corso per quanto riguarda l’Expo 2015.
Su questo come su altri argomenti (vedi legge elettorale
che si ostina a riproporre il bipolarismo fallito, rischiando fra
l’altro di entrare in collisione con quanto la Corte costituzionale dirà
nelle motivazioni della recente sentenza che saranno pubblicate nei
prossimi giorni), Matteo Renzi rischia insomma definitivamente di
essere, più che espressione del nuovo che avanza, il tentativo,
destinato ad irreparabile fallimento, di travestire con nuovi panni il
vecchio che marcisce.
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