martedì 14 maggio 2019

Il libero pensiero secondo i social

La chiusura di 23 pagine Facebook italiane – buona parte “tifose” della Lega o dei Cinque Stelle – è una classica “novità” da esaminare con attenzione.
La decisione dei vertici del social fondato a Mark Zuckerberg è arrivata dopo un’inchiesta condotta da Avaaz, una ong internazionale che ha censito con cura una serie di account intestati a nomi improbabili e che “informazioni false e contenuti divisivi contro i migranti, antivaccini e antisemiti”.
Roba da chiudere anche a mazzate, insomma. E, fin qui, nulla da eccepire. Siamo tutti tormentati quotidianamente da centinaia di post “condivisi” – spesso da gente che si fa abbindolare solo da un titolo studiato apposta – che sparano idiozie di ogni tipo. Noi stessi, quasi ogni giorno, segnaliamo ai nostri lettori fake news di grande rilevanza, magari diffuse dai più accreditati media mainstream…

Stiamo parlando qui di pagine abbastanza seguite (un totale di quasi due milioni e mezzo di followers), che contribuivano insomma a creare un pubblico intossicato da “informazioni” false, slogan razzisti, credenze antiscientifiche, ecc. Gente che poi vota in base a quel che crede di “sapere”…

I problemi su cui ragionare, dunque, non riguardano affatto la “difesa della libertà di espressione” – che ai falsari consapevoli va sempre negata (gli errori sono un’altra cosa, e li commettono tutti: si riconoscono, si chiede scusa e si va avanti) – ma sull’origine di questa operazione di “pulizia”.
Che è totalmente privata. Lo è l’ong Avaaz; lo è soprattutto Facebook, il social con più utenti al mondo, che sulle scemenze e i profili individuali rivenduti sul “mercato” ha costruito l’immensa fortuna del suo fondatore.
Un “privato” può indubbiamente negare a chiunque creda l’accesso sulla sua piattaforma. Ma questo toglie parecchio fascino a un “luogo” che è stato presentato come un palestra di libera espressione. In futuro, per esser chiari, a seconda delle vicende politiche del mondo, potrebbero essere “bannate” altre tipologie di utenti o creatori di pagine, in base a criteri decisi soltanto dal “proprietario”.
Non si tratta di un’illazione, in quanto tra motivazioni addotte c’è esplicitamente anche la capacità di quelle pagine di “influire sulle elezioni”. Se questa volta l’operazione “repulisti” ha colpito gente che poteva essere tranquillamente repressa dalla “mano pubblica” (ma ce lo vedete voi Salvini chudere le pagine dei contafrottole che l’hanno gonfiato come un pallone nei consensi?), la prossima potrà toccare ad altre forze o ideologie sgradite al “proprietario”.
Una volta inaugurata la prassi dell’esclusione “per via privata”, insomma, non c’è teoricamente o legalmente alcun limite: tutto dipende dagli interessi di mr. Zuckerberg (sia commerciali che politici o geopolitici).
In questo senso, si conferma in mondo concreto che la “globalizzazione” è finita. E con essa l’indifferenza per le varie opzioni, idee, concezioni del mondo, ideologie. E Facebook tende a trasformarsi in “piattaforma dell’Occidente”, contrapposta a quelle cinesi o russe o – se ne esistessero, nella decadente Unione Europea dell’austerità e della ridottissima ricerca scientifica – europea. Anzi, di un Occidente politically correct il cui baricentro viene fissato da un solo azionista…
Non è l’unico punto critico nascosto sotto questa notizia. C’è il tema dell’impotenza degli Stati – specie quelli meno grandi e meno dottati sul piano tecnologico – davanti allo strapotere delle multinazionali (come se non bastassero le “oscillazioni di mercato” e lo spread). Il fatto che la legalità di alcuni contenuti – la loro “propagandabilità” – sia decisa non da istituzioni democraticamente elette, ma da singoli imprenditori, segna un fondamentale punto di crisi nello sviluppo della democrazia.

C’è il tema del significato reale delle presunte “condivisioni”, istituzionalmente ridotte a impressioni senza alcun fondamento. La superficialità con cui, su qualsiasi social network, si concede un like o si gira un contenuto – rendendolo potenzialmente virale – è un risultato di un lungo processo di svuotamento del pensiero. Sia individuale che collettivo.
Pensateci un attimo. Si dedica meno tempo – e riflessione – a un atto del genere, potenzialmente creatore di un senso comune politicamente influente, piuttosto che a qualsiasi altro gesto della banalissima vita quotidiana. Al punto che ci si “affilia” a una linea ideologica con molta meno attenzione di quanto non si dedica alla cottura di due uova al tegamino.

lunedì 13 maggio 2019

Il tabu del debito pubblico nasconde chi ci guadagna

Il debito pubblico, spiegava Marx, è l’unica cosa davvero comune a tutta la popolazione in una società divisa in classi. Come per ogni “bene comune”, però – per quanto “negativo” come il debito – c’è sempre una modo per avvantaggiare alcuni a scapito di altri.
Fuori da ogni disputa ideologica – che è “falsa coscienza”, ovvero “narrazione” fasulla per coprire il reale – occorre guardare a questo debito con occhi decisamente diversi da quelli totalmente strabici di un Cottarelli, Giannini, Alesina, Giavazzi, Monti e via cantando sulle note dell’austerità.
Un editoriale di Guido Salerno Aletta per Milano Finanza aiuta – come spesso ci accade – a chiarire alcuni dettagli che svuotano di senso quella narrazione, illuminando su altre soluzioni. Quelle proposte da Carlo Messina, amministratore delegato di Banca Intesa, e riprese da questo editoriale, non sono ovviamente le nostre. Ma mostrano quasi fisicamente che si possono seguire altre strade anche restando in ambito totalmente capitalistico.
Ma, se si possono seguire altre persino garantendo al mondo del business di continuare a far soldi, allora sono possibili anche starde che portano da tutt’altra parte. In entrambi i casi – ed è questo l’interessante – viene distrutta la narrazione per cui “non c’è alternativa”. Un’autentica tortura mediatica (pensiamo solo alla quantità di volte che Carlo Cottarelli viene invitato da Fabio Fazio o Paolo Floris…) che ha anestetizzato le capacità critiche soprattutto della cosiddtta “sinistra”, incapace oggi persino di articolare un pensiero senzato di fronte alla più devastante delle domande: “ma dove si trovano i soldi?”.
La strada dell’a.d. di Banca Intesa, per esempio, rivela che non solo “i soldi ci sono”, e in misura persino eccessiva rispetto allo scopo di abbattere il debito pubblico, ma soprattutto che quella domanda retorica da talk show nasconde gli interessi reali che hanno guadagnato ricchezze colossali: “Dietro il moralismo del rigore si cela la tesaurizzazione del patrimonio, garantita dalla rendita parassitaria sul debito pubblico”.
Detto altrimenti, l’attuale intreccio tra dimensioni del debito pubblico e “regole europee” favorisce la rendita, deprime l’economia reale, aiuta a comprimere i salari e i consumi, rende disponibili ampie quote dell’industria a essere svendute per un tozzo di pane. In pratica, è un meccanismo distorsivo “di classe” e anche un modo per cambiare gli equilibri tra “partner-competitori all’interno dell’Unione Europea.
Restare a subire questa forca è privo di senso. Non “guariremo” mai (il debito aumenta sistematicamente in virtù proprio di questo meccanismo “austero”) e alla fine saremo tutti morti. Come lavoratori e come sistema-paese.

Ora, se una cosa del genere può esser detta da chi guida una delle due principali banche italiane, che conosce a menadito la struttura della ricchezza in questo paese, si vede che la situazione sta diventando davvero esplosiva. E che ulteriori misure in questa direzione – come la spaventosa “manovra da 40 miliardi” che il prossimo governo (tecnico?) dovrà mettere in cantiere per il 2020 rischia di essere la mazzata finale per un sistema-paese già da tre decenni sottoposto a una “dieta” che sta ammazzando il paziente.
Materiale per riflettere, insomma, non roba da prendere così com’è. Ma siamo sicuri che i nostri lettori sappiano pensare da sé…
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Debito pubblico: garantire la rendita finanziaria o fare sviluppo
Guido Salerno Aletta
Tanto tuonò che piovve. Quale strategia adottare per ridurre il debito pubblico? È questo il tema dell’evento dal titolo “Riduzione del debito pubblico: l’esperienza dei Paesi avanzati negli ultimi 70 anni”, che si terrà lunedì 13 maggio a Torino, presso l’Auditorium della Fondazione Collegio Carlo Alberto.
L’iniziativa, come informa il comunicato stampa, è stata promossa dalla Fondazione Collegio Carlo Alberto e dall’Osservatorio sui Conti Pubblici Italiani dell’Università Cattolica del Sacro Cuore. E sarà l’occasione per presentare una nuova ricerca, curata da Sofia Bernardini, Carlo Cottarelli, Giampaolo Galli e Carlo Valdes, in cui vengono discusse le strategie di riduzione del debito pubblico adottate nelle economie avanzate nei 70 anni successivi alla seconda guerra mondiale. L’illustrazione dei risultati sarà seguita da momenti di confronto tra personalità del mondo economico e politico italiano.
La questione non è nuova, soprattutto per Milano Finanza che ha dedicato a questo argomento grande attenzione sin dal 2010, quando il cosiddetto contagio della crisi greca cominciò a creare difficoltà sul mercato secondario dei titoli di Stato italiani, con l’aumento degli spread.
La crisi iniziata nel 2008 non solo ha vanificato tutto il processo di riduzione del rapporto debito/pil iniziato nel 1992, dopo la crisi valutaria che coinvolse la lira italiana, il franco francese e la sterlina inglese, ma lo ha portato ad un livello mai raggiunto prima in tempo di pace. Per due motivi: la bassa inflazione, assolutamente inusuale per l’Italia, ha abbattuto il tasso nominale di crescita, mentre quello reale ha subito le conseguenze della duplice recessione.
Ci sono due strategie in campo. Da una parte c’è quella consueta: pareggio strutturale del bilancio, arrivando ad con un livello dell’avanzo primario in misura tale da coprire integralmente la spesa per interessi. E’ la scelta che è stata compiuta dal ’92 ad oggi: consiste nel dedicare una quota crescente delle entrate tributarie al servizio del debito. Ha come controindicazione la bassa crescita che deriva dalla sottrazione alla economia reale di quote rilevanti di risorse, che potrebbero arrivare fino al 3%, ovvero al 4 % del pil, in considerazione dell’ammontare complessivo degli interessi sul debito.
Questo non aumenterebbe più in termini nominali, data l’assenza di deficit, ma varierebbe in rapporto al pil in funzione della crescita reale e dell’inflazione, ferma restando la soggezione agli shock esterni. Data per scontata la bassa crescita reale e la bassa inflazione derivanti dall’avanzo primario, si determina un drenaggio continuo di risorse dall’economia reale al sistema finanziario: considerando, infatti, la proporzione prevalente tra il gettito delle imposte sui redditi e sui consumi e quello delle imposte sui capitali e sulle rendite finanziarie, il pagamento di interessi sul debito pubblico ormai detenuto per oltre il 70% da residenti in Italia, comporta un trasferimento di ricchezza dai primi ai secondi. Dalla produzione e dal consumo, alla rendita.
La bassa crescita, come abbiamo sperimentato, penalizza l’economia nel suo complesso, con la tendenza alla stagnazione degli investimenti. La competitività si fonda sui bassi salari, avvitandosi verso il basso.
Come la storia recente ci ha purtroppo confermato, basta una crisi di origini esogene per vanificare decenni di sacrifici. Una dieta lunga, inflessibile, lascia sfiancati e pericolosamente vulnerabili.
Va poi considerata la inesistenza di coperture da parte della Banca centrale europea: già a partire dal Trattato di Maastricht non può sovvenire in alcun modo a favore degli Stati, neppure con anticipazioni di cassa. Gli Stati, dopo la adozione dell’euro, sono esposti alla speculazione sui loro debiti così come in precedenza erano esposti alla speculazione sulle rispettive valute. Ma, allora, potevano infine svalutare o per l’intanto manovrare i tassi di interesse per disincentivare l’esportazione di capitali; ora non più. Di situazioni così anomale è inutile cercare analogie nella storia economica moderna: l’euro è una costruzione senza precedenti.
Per fortuna, c’è chi la pensa diversamente: la soluzione per la riduzione del debito pubblico passa dalla mobilitazione del patrimonio finanziario delle famiglie italiane. Ad averlo affermato, più volte, è stato Carlo Messina, amministratore delegato di Banca Intesa: “Ridurre lo stock del debito, i 2,3 trilioni di euro che paralizzano il Paese, deve essere la priorità della politica economica. E non si può farlo semplicemente guardando alle regole europee, al rapporto tra deficit e Pil e quindi tra debito e Pil. Non basta ridurre il rapporto crescendo di più o contenendo la spesa. Occorre tagliare lo stock per liberare risorse”.
Ed ancora, ha precisato: “Le basi ci sono. Bisogna collegare i nostri punti di forza: è inaccettabile che non si valuti come poter ridurre un debito pubblico da 2.300 miliardi quando nel Paese ci sono 10.500 miliardi di ricchezza privata e oltre 1.000 miliardi di asset pubblici…. Quelli immobiliari possano essere valorizzati con un programma pluriennale, indipendentemente dalla loro appartenenza all’amministrazione centrale o periferica. Come? Mettendoli in connessione con l’enorme ricchezza finanziaria degli italiani”.
Da parte di Messina, la contrarietà ad una patrimoniale è netta: “No, non è quella la strada per valorizzare entrambi, patrimonio pubblico e ricchezza privata. Bisogna creare degli strumenti finanziari ad hoc, sulla scia di quanto fatto con i Pir. Fondi immobiliari, anche locali, che investano in questi asset e vengano poi collocati presso i piccoli risparmiatori, con garanzie sui rendimenti e incentivi fiscali. Gli immobili tra l’altro, non sarebbero svenduti e resterebbero in Italia. Banche, assicurazioni, Cdp potrebbero affiancare i piccoli risparmiatori. Penso che con un’operazione di questo tipo il nostro spread si avvicinerebbe a quello francese. E comunque scenderebbe sotto i 150 punti base”.
D’altra parte, su uno stock di debito che nel 2018 è stato del tutto analogo rispetto a quello dell’Italia, 2.315 miliardi di euro rispetto a 2.322 miliardi, la Francia ha pagato interessi per 40 miliardi di euro netti, rispetto ai 65 miliardi dell’Italia. Tanto pesa il differenziale sui tassi. Non potendo forzare il mercato sui tassi, occorre tagliare lo stock del debito. I benefici sarebbero consistenti.
Messina conclude così: “Liberandoci dalla zavorra del debito, il gap di fiducia si ridurrebbe. E anche gli investitori comincerebbero a guardare meglio ai nostri fondamentali. L’Italia potrebbe così concentrarsi sullo sviluppo, sulla lotta alla povertà e sul sostegno della classe media. Il nostro Paese decollerebbe, tornerebbe a primeggiare in Europa e potrebbe anche investire per il futuro…. Dove? Infrastrutture, strade, ospedali, scuole e porti, soprattutto al Sud. E poi istruzione, ricerca e innovazione. Ci sono 150 miliardi di risorse pubbliche già stanziate. Noi ci affiancheremmo per garantire un effetto leva: lo scorso anno Intesa ha erogato nuovo credito a medio e lungo termine per 50 miliardi, possiamo continuare a farlo nei prossimi anni anche in misura maggiore”.
C’è chi insiste ancora, in favore di una sterile e micragnosa austerità. Dietro il moralismo del rigore si cela la tesaurizzazione del patrimonio, garantita dalla rendita parassitaria sul debito pubblico. Sottende una strategia volta a smantellare i servizi sociali, rosicchiandone la sostenibilità un po’ alla volta. Dall’altra parte, c’è la mobilitazione del risparmio privato, per valorizzare il patrimonio pubblico, che è già tutto degli italiani.
Accumulazione di ricchezza per alcuni, oppure maggiore crescita collettiva. La differenza, in fondo, sta tutta qui. E non è poco.

venerdì 10 maggio 2019

Italia. Cresce la ricchezza privata. Il problema rimane la mancata redistribuzione

Un rapporto congiunto tra Banca d’Italia e Istat, certifica che dopo tre anni di riduzione costante, tra il 2016 e il 2017 la ricchezza privata delle famiglie italiane è cresciuta di 98 miliardi (+1%) e ha raggiunto quota 9.743 miliardi. Il dato, misurato come la somma di tutte le attività reali (casa, terreni, eccetera) e di quelle finanziarie (depositi, titoli, azioni) si considera “al netto” delle passività finanziarie che è solo di 926 miliardi (prestiti a breve termine, a medio e lungo termine). Il grosso di questa ricchezza privata continua ad essere quello delle rendite immobiliari, seguito subito dopo da quella finanziaria.
Nonostante la perdita di valore registrata – tra il 2005 e il 2011 il peso degli immobili sul totale delle attività delle famiglie è salito dal 47% al 54% per poi ridursi negli anni successivi sino al 49% nel 2017. Gli immobili continuano a rappresentare la principale forma di investimento dei nuclei familiari e, con un valore di 5.246 miliardi di euro, rappresentano la metà della ricchezza lorda.
Le attività finanziarie, completano il quadro raggiungendo i 4.374 miliardi di euro, in crescita rispetto all’anno precedente; la loro incidenza sulla ricchezza netta è risultata tuttavia inferiore a quella registrata in altre economie.
I dati  (non quelli contenuti in questo rapporto) ci dicono che in Italia i primi sette miliardari possiedono una ricchezza pari a quella del 30% della popolazione.  Il 20% dei più ricchi hanno in cassaforte patrimoni e liquidità che valgono il 69% della ricchezza complessiva del paese. I più poveri invece stanno sempre peggio. Dal 2008 a oggi le fasce più deboli infatti hanno perso il 24% del loro reddito. Le radici di questa crescente e insopportabile disuguaglianza sono confermati dallo studio della Banca d’Italia.

Le attività non finanziarie (quindi macchinari, beni reali etc.) rappresentano solo il 3,8% della ricchezza. In pratica la ricchezza privata si basa al 96% sulla rendita, in molti casi del tutto parassitaria, e con un livello di concentrazione diventato scandaloso.
Quando dicono: ma dove andiamo a prendere i soldi per i servizi, le abitazioni pubbliche, il welfare? Possiamo tranquillamente rispondere: lì dove stanno!!

giovedì 9 maggio 2019

Trump rilancia i dazi e affossa l’economia

Fretta e paura sono pessime consigliere. Ed è vero per tutti, potenti e irrilevanti. Ovvio che quando paura e fretta – causa crisi permanente – attanagliano la principale superpotenza economico-militare, ogni decisione presa diventa uno tsunami oncontrollabile nelle sue conseguenze.
Donald Trump – non proprio il più riflessivo tra i presidenti Usa – ha deciso che le trattative commerciali con la Cina procedevano “troppo lentamente” e quindi ha deciso di rilanciare, come in una mano di poker: da venerdì 4 maggio i dazi sulle merci cinesi saliranno dal 10 al 25%, per un totale stimato in 200 miliardi dollari.
Per rincarare la dose, verranno applicate imposte doganali del 25% ad altri prodoti fin qui esenti, per un ammontare di 325 miliardi.
Se l’intento era chiaramente quello di spaventare l’interlocutore – che, secondo molti economisti ha rami superato gli Usa come Pil annuale “a parità di potere d’acquisto” – il risultato pratico rischia di esser l’opposto: a Pechino starebbero valutando di uscire totalmente dalla trattativa, perché “la Cina non discute con una p,iostola puntata alla tempia”.
Tutta una serie di Stati l’hanno fatto, nel passato anche recente, e dunque a Washington si è presa la brutta abitudine di mettere la pistola sul tavolo per alzare il prezzo. Gioco che riesce ora molto più difficile con chi – almeno sul piano economico – si sente ed è grosso modo alla pari. Con in più, cosa da non sottovalutare, idee e progetti colossali, con tutta la liquidità necessaria a realizzarli.
La mossa del pistolero non sembra del resto troppo lucida stando anche a,gli ultimi tweet sparati dell’immbiliarista col ciuffo: “Per 10 mesi ,la Cina ha pagato agli Stati Uniti dazi del 25% su 50 miliardi di dollari di hi-tech e del 10% su 200 miliardi di dollari di altri prodotti. Questi pagamenti sono in parte responsabili dei nostri buoni risultati economici”. Insomma, se salta il banco gli Usa si danno la zappa sui piedi.
Tanto più che lo stesso Trump, solo due giorni fa, ha annunciato un piano di infrastrutture pubbliche da 2mila miliardi di dollari. La strategia presidenziale era stata enfatizzata – e poi abbandonata – in campagna elettorale con il titolo “Rebuilding America”. Ora viene rilanciata, nella speranza di spingere l’economia americana nel 2020 – anno delle elezioni, in cui tradizionalmente il Pil rallenta per l’incertezza sulle intenzioni del prossimo presidente – addirittura con il sostegno politico dei rivali “democratici”.
Ma che proprio l’inasprimento della guerra dei dazi con la Cina potrebbe rimettere in dubbio. Investire così tanto mentre le entrate calano e la dinamica economica rallenta, non è poi una cosa semplice.
Se n’è accorta subito anche la Heartland, raggruppamento delle associazioni commerciali Usa: “Tassare gli americani quando comprano mobili, elettronica, utensili non ha niente a che fare con la ricerca di un accordo con la Cina”.
Perché è ovvio che alzare i dazi rende meno convenienti le merci cinesi, ma se non produci merci alternative di pari livello, in realtà stai aumentando prezzi e tasse al tuo popolo. E, nell’anno delle elezioni, se lo ricorderà di sicuro…
Le conseguenze planetarie sono invece scontate. Le borse di tutto il mondo stanno “soffrendo” enormemente, a cominciare da quelle cinesi (Shanghai -5,58%, e Shenzhen (-7,38%) e asiatiche, per poi dilagare negli altri continenti: tutte le piazze europee perdono oltre il 2%, e anche Wall Street è per ora attesa su quei livelli.
Non sei più la superpotenza di una volta, prendine atto…

martedì 7 maggio 2019

E ora il popolo” contro la corsa al disastro dell’UE

Il 18 aprile è uscito nelle librerie “La France tra Macron e Mélenchon. La sfida di France Insoumise” (Pgreco Edizioni, 2019) di Giacomo Marchetti, Andrea Mencarelli e Lorenzo Trapani. Il libro indaga tre differenti “oggetti politici”: l’affermazione e la crisi del Macronismo, la crescita e il posizionamento politico de La France Insoumise, lo sviluppo e le dinamiche del grande movimento di protesta popolare dei Gilets Jaunes.
Le questioni sono numerose, articolate, intrecciate, complesse, risultato di una realtà oggettiva che richiede uno sforzo maggiore di comprensione, andando a coniugare all’attenzione quotidiana un approfondimento concreto, soprattutto in una fase di accelerazione degli eventi e di loro continua evoluzione.
Il libro rappresenta un tentativo in questa direzione, attraverso una cronaca ragionata basata sulla rielaborazione dei contributi pubblicati in chiave giornalistica, interviste inedite e traduzioni dei documenti. Senza alcuna presunzione didattica, si cerca di offrire una fotografia dinamica del contesto politico e sociale francese negli ultimi due anni, andando a cogliere quegli aspetti fondamentali che segnano l’evoluzione e la trasformazione del panorama d’oltralpe.
Qui la prefazione: http://contropiano.org/news/cultura-news/2019/04/08/la-francia-tra-macron-e-melenchon-la-sfida-di-france-insoumise-0114256
Pubblichiamo l’intervista a Clémentine Autain (deputata di France Insoumise e direttrice della rivista Regards) realizzata da Andrea Mencarelli e contenuta nel libro. Si ringrazia Giada Pistilli (Potere al Popolo! Parigi) per la collaborazione e per la trascrizione dell’intervista.
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Sei stata tra i firmatari de “L’appello dei 58” (“Noi manifestiamo durante lo stato di emergenza”), a seguito della decisione di François Hollande di attuare lo stato di emergenza dopo gli attacchi del 2015. Hai sostenuto la mozione di rifiuto dell’estensione voluta da Emmanuel Macron, in quanto pregiudizievole per le libertà civili e il diritto di manifestare. Le conseguenze sui dimostranti sono state visibili durante la lotta contro la Loi Travail e la COP21. Recentemente, Amnesty ha dichiarato che il diritto di manifestare è sotto minaccia in Francia, in particolare nel contesto degli ultimi mesi con la mobilitazione dei Gilets Jaunes. Questo rischio esiste davvero?
Dall’epoca di Thatcher in poi, c’è stato un binomio ben funzionante tra il liberalismo economico e la deregolamentazione, da un lato, e una maggiore repressione e autoritarismo, dall’altro. Tutto ciò contrariamente alla favola che ci è stata raccontata per molto tempo, secondo la quale sarebbero stati il comunismo e le esperienze in stile sovietico ad essere etichettate come totalitarismo, e quindi società liberticide. Inoltre, ci hanno raccontato che il capitalismo avrebbe naturalmente portato con sé più libertà, più democrazia…
Siamo in una nuova fase politica ed economica in cui vediamo un’affermazione dello Stato attraverso un maggiore controllo sociale. E in Francia questo non è del tutto nuovo. Direi che con Macron, a differenza della sua parvenza (il fatto che sia giovane, che affermi di essere “moderno”, che sembri aperto e amichevole), non ci aspettavamo necessariamente che ci cadessero addosso leggi così violente dal punto di vista dei diritti umani.
La prima, che credo abbia avuto un impatto significativo sulla mente delle persone, è stata l’incorporazione delle misure di emergenza nel diritto comune: esse hanno trasposto misure eccezionali nel diritto comune (la prima legge che viola i diritti e le libertà fondamentali). Poi hanno fatto questa Loi Asile-Immigration, che è prima di tutto uno scandalo in relazione all’obbligo di umanità necessaria nel momento storico che stiamo attraversando, ma è anche uno scandalo insieme al fatto che Macron si è presentato ai francesi come il bastione contro l’estrema destra.
Il governo si vantava di aver trovato un equilibrio, dicendo: “È protezione e fermezza”. Questo equilibrio non è affatto presente nel testo, poiché non migliora per niente i diritti dei migranti. Al contrario, la legge complica la possibilità di accedere a un permesso di soggiorno e di essere accolti in Francia. Contiene misure particolarmente inaccettabili, come quelle che consentono l’incarcerazione di giovani minori.
Quindi, non solo tutto rimane complicato nel diritto di accesso al permesso di soggiorno (è quindi la fermezza che ha dominato), ma ci sono anche misure molto dannose per i diritti dei bambini, il che è assolutamente allucinante.
Dall’arrivo di Macron come Presidente della Repubblica, la situazione sembra essere peggiorata sotto i suoi stessi auspici, come dimostra anche il caso Benalla.
A mio parere, non si dice abbastanza, ma l’ONU ha ripreso la situazione francese; c’è un funzionario dell’ONU che è venuto a redigere una relazione preliminare in estate e che ha messo in guardia sulla questione delle libertà pubbliche in Francia. Siamo quindi in una situazione di conflitto… per non parlare del profilo monarchico del nostro Presidente della Repubblica: egli è veramente il monarca! E lui stesso ci aveva avvertito! Durante le elezioni ha detto in sostanza che i francesi avevano bisogno di un re!
I francesi sarebbero nostalgici del re ed è per questo che lo chiamano Giove. E il caso Benalla evidenzia questo rapporto con i diritti e la giustizia, poiché il Presidente della Repubblica ne ha parlato molto chiaramente. In Francia è un grosso scandalo che ci ha tenuto molto occupati la scorsa estate – e non è ancora finita! Perché ogni giorno ci sono nuovi pezzi della storia che vengono aggiunti.
É pazzesco: in questo caso, quando si deve effettuare una perquisizione a casa di una persona prossima al Presidente della Repubblica, questa può essere rinviata al giorno successivo. Nel frattempo, la cassaforte che gli investigatori erano andati a prendere è scomparsa nella notte…
E Benalla ha passaporti diplomatici che avrebbero dovuto essere restituiti dopo il suo licenziamento, ma l’amministrazione non li ha dichiarati nulli e lui è andato all’estero a fare i suoi affari!
Anche l’apparato statale repressivo ha trovato nuovi metodi e meccanismi per reprimere le proteste sociali degli ultimi anni, derivanti dalla crisi economica e dalle politiche liberali dei governi di Hollande e Macron.
Poiché il sistema economico sta colpendo molto violentemente le persone, è imperativo avere un modo per controllare la rabbia legittima, che certamente si esprimerà. E così, per arginarla, ci sono oggi mezzi di coercizione piuttosto violenti. Inoltre, il movimento dei Gilets Jaunes è stato represso ad un livello mai visto dal maggio 1968. Abbiamo avuto più di 5.000 persone in garde à vue, più di 1.000 feriti (dati di gennaio), alcuni dei quali gravemente (avendo perso una mano o un occhio), per l’uso di flashball a tutto campo e delle famose granate GLI-F4 (che sono utilizzate solo in Francia) e un tono di violenza estremamente eccessivo.
I sindacati sono in difficoltà anche perché il ruolo negoziale e di mediazione che hanno svolto nel XX secolo è al livello minimo. Perché tutti i governi che si sono succeduti – non è solo Macron, ma comincia già da prima – non giocano più un ruolo nel mediare e dare guadagni ai sindacati…
Quindi siamo in una situazione in cui la partita si gioca altrove – è il caso del movimento dei Gilets Jaunes – perché c’è un problema di credibilità anche per i sindacati relativa alla loro capacità di essere buoni convogli per migliorare le condizioni di vita e di lavoro e far progredire le rivendicazioni.
Così tutto ciò accade all’esterno del gioco istituzionale e si crea una situazione di crisi sociale e politica. Inoltre, la questione della mediazione è una vera problematica, specialmente in una società in cui tutte le possibilità di mediazione sono state tagliate fuori (quelli che in Francia rappresentano i “corpi intermedi”).
Abbiamo parlato del movimento dei Gilets Jaunes. Puoi darci in breve la tua opinione sulle rivendicazioni?
Quello che ci ha colpito in Francia è che, di solito, mobilitazioni sociali di questo tipo hanno a che fare con il movimento operaio; significa che sono spinte, infuse, penetrate dai sindacati, dalle forze comuniste/socialiste (sto parlando delle lotte del XX secolo e anche dell’inizio del XXI secolo).
Dall’inizio del XXI secolo, ma già da prima (’95, il movimento dei pensionati, il movimento degli insegnanti, il CPE…), tutte le lotte sociali che abbiamo avuto negli ultimi decenni sono state fatte da movimenti in cui noi ci siamo comportati naturalmente, come pesci nell’acqua, e li abbiamo sostenuti.
Qui, con i Gilets Jaunes, il fenomeno è abbastanza nuovo: ci troviamo con una mobilitazione che non è guidata da dirigenti di organizzazioni note al movimento operaio, sostenute in parte dall’estrema destra e molto da noi – il che è estremamente atipico!
É necessario essere in grado di comprendere questa situazione senza precedenti. Questo riguarda sia la parte di persone che si sono mobilitate per via della loro appartenenza geografica, abbastanza chiara in quei luoghi come le rotatorie, e che corrisponde ad un certo tipo di popolazione che costituisce il popolo, ma non l’intero popolo!
Per esempio, io sono deputata di Seine Saint-Denis… Nella periferia popolare non sto dicendo che non ci sono Gilets Jaunes, ce ne sono alcuni, ma non è un grande movimento come il movimento dei ferrovieri, infermieri (che all’inizio diceva “non vogliamo stare con i gilets gialli”).
La sfida e la difficoltà per il futuro sarebbe riuscire a federare queste diverse parti del popolo: assicurare che ci sia una possibile convergenza tra coloro che continuano ad esistere perché fanno parte della tradizione del movimento dei lavoratori e tra ciò che di nuovo si cristallizzando intorno ai Gilets Jaunes.
Se non arriviamo a questa convergenza, penso che ci troveremmo in una situazione pericolosa, perché ci potrebbe essere una lettura sommaria e superficiale, propria dell’estrema destra, che dirà “guardate, sono i bianchi della periferia di cui stiamo parlando, e che hanno voluto sfuggire a queste pericolose periferie dove c’è una popolazione risultato dell’immigrazione, loro rappresentano il vero popolo bianco, di commercianti, indipendente”.
Hai fortemente criticato il disegno di legge sui Gilets Jaunes proposto dal governo Macron, che, di fronte al desiderio di giustizia sociale e fiscale, distribuisce solo le briciole. Quali sono le responsabilità della sinistra, negli anni precedenti e soprattutto oggi?
Penso che sia stato necessario fin dall’inizio essere presenti, sia per andare lì (alle manifestazioni dei Gilets Jaunes) sia per anticipare con estrema precisione le difficoltà in cui ci saremmo trovati dopo. La nostra strategia è proprio quella di essere presenti, pur avendo chiari i limiti del pericolo che esiste, ovvero quello di offuscare i punti di riferimento politici. Avevamo anche bisogno di lungimiranza per capire che stavamo iniziando un rapporto di forza che ci era sfavorevole…
Voglio dire, Le Pen era al secondo turno delle elezioni presidenziali; il rapporto di forza in tutti i sondaggi dimostra ancora che non siamo davanti all’estrema destra, quindi sono in un certo senso più avanti di noi. Quindi, se non comprendiamo tutto questo, il voto sull’efficacia del discorso politico andrà più al Front National che a noi.
Penso che questa sia la sfida, come quando abbiamo lottato nel 2005 durante la consultazione sulla Costituzione europea, dove ci siamo trovati subito in quella che poteva essere trappola del “no”, dove c’era anche l’estrema destra. Il rischio è il tono del dibattito potesse essere quello del ripiegamento nazionale identitario, la xenofobia, ecc…
Invece abbiamo lottato bene, abbiamo fatto collettivi per il “no” al TCEU da sinistra, con sindacati, partiti politici, personalità, appelli di intellettuali. Era davvero un movimento centripeto, molto orizzontale e vario. Alla fine, abbiamo vinto la battaglia delle idee e ciò significa che il “no” è stato totalmente importato dalla nostra famiglia politica, dalle nostre idee per il progresso, per la nostra idea di Europa e non per la chiusura delle frontiere.
Il movimento dei Gilets Jaunes ci mostra come ci stiamo muovendo in un’era senza un vero e proprio movimento operaio e dei lavoratori. In più, il movimento delle donne in gilets giallo non mi è piaciuto affatto e su quello bisogna intervenire, perché ho sentito cose del tipo “noi siamo donne, ma non femministe”.
Dobbiamo provare a raccontare questa realtà dei Gilets Jaunes come sta facendo Ruffin. Quando dici qualcosa, il modo in cui lo fai contribuisce alla lettura del fenomeno, anche se credo che funzioni fino ad un certo limite. Ma di sicuro non si può vivere nel completo rifiuto di affrontare questa analisi e queste sfide.
Che dire del rischio di recuperi da parte dell’estrema destra?
Questa è la nostra difficoltà: come esserci dentro (ovviamente, perché è una rabbia popolare – come non essere sensibili ad un movimento che è contro le disuguaglianze territoriali e finanziarie?), ma vedendo che c’è una potenziale trappola. Isolare questa parte del popolo dal resto della popolazione sarebbe un rischio e un errore (penso in particolare alle periferie popolari o ai ferrovieri).
Come fare questa sintesi? Come federiamo questo popolo e come riusciamo ad essere ben identificati su una questione di progresso sociale, che non è assolutamente quella dell’estrema destra?
Non meno importante, ciò che il movimento dei Gilets Jaunes ci insegna molto chiaramente è che fino ad ora, quando abbiamo parlato di popolo, abbiamo avuto una visione che si basava principalmente sulla questione dello status o dello stipendio, e non sulla questione dell’appartenenza ad un territorio. Penso che la questione dell’uguaglianza territoriale (del territorio e degli stili di vita che lo accompagnano – perché quando ci si trova in un territorio sono coinvolti anche gli stili di vita) sia fondamentale.
Catherine Tricot (giornalista di Regards) lo dice in un articolo molto interessante su Le Monde, dove parla del desiderio di gran parte dei Gilets Jaunes, che si trovavano in fondo alla scala sociale e che vogliono fuggire dalla banlieue, ma che sognano di trasferirsi una casa con il proprio barbecue e avere una certa indipendenza professionale. Questo è ancora un sogno piuttosto liberale, che ha portato molte persone a contrarre debiti. In più, la distanza sempre maggiore dai servizi pubblici è una questione che non è mai stata affrontata e che rende la loro situazione ancor più difficile.
Quindi, questa questione del territorio, a mio parere, si presenta anche con i Gilets Jaunes e deve essere affrontata a testa alta. Abbiamo alcuni pensatori di quella che chiamiamo la geografia del capitale e di tutte queste questioni legate al territorio, due grandi pensatori come Henri Lefebvre e David Harvey, che hanno lavorato bene su queste sfide e su questo modo di pensare politicamente la questione del territorio.
Eri con i collettivi del 29 maggio per la campagna contro il Trattato costituzionale europeo, durante il referendum francese del 2005. Oggi nel programma politico per le elezioni europee di Francia Insoumise è chiaramente scritto che “bisogna uscire dagli attuali trattati europei”. Penso che la France Insoumise abbia ben articolato la sua posizione sull’Unione Europea e sul ruolo dei trattati europei. Puoi spiegare quali sono state per te le tappe principali di questa evoluzione?
Abbiamo capito chiaramente questa difficoltà all’epoca dell’episodio greco, che certamente rappresentava in Francia, anche nelle nostre sfere militanti, una terribile spina nel fianco, se confrontata ai nostri discorsi. Anche se ne eravamo già abbastanza consapevoli, credo che tutti abbiano ora compreso la determinazione della Troika e della violenza concreta che la Germania e tutti gli attori di questa logica possono assumere a livello europeo.
Quindi, comprendiamo bene la portata delle difficoltà, ma il nostro punto di partenza è poter affermare che “vogliamo essere in grado di implementare il nostro programma”, qualora venissimo eletti.
Vorrei aggiungere un secondo punto, oltre ad attuare il nostro programma, relativo al fatto che la storia ci ha insegnato che il socialismo in un singolo paese non dà ottimi risultati, soprattutto perché oggi siamo in un mondo sempre più globalizzato. Questo per dire che, in questo mondo globalizzato, l’idea che la Francia da sola, limitandosi entro i suoi confini, possa riuscire ad affrontare il capitalismo globalizzato è un’idea piuttosto folle.
Quindi, non si tratta esclusivamente della possibilità di applicare il nostro programma, ma della necessità di costruire una mobilitazione popolare a livello europeo che permetta di imporre in tutti i paesi un altro corso degli eventi.
Oggi l’Unione Europea sta andando verso il disastro – in più perde pezzi con la Brexit – e siamo in un momento in cui non sappiamo se e quanto questa tenuta durerà. Quello che vogliamo, intanto, è poter costruire delle collaborazioni di cooperazione con gli altri paesi.
Su questo punto siamo molto diversi dall’estrema destra, perché a questa non importa se c’è una più ampia solidarietà continentale internazionale, ma è soltanto interessata ai francesi in patria e non guarda al resto del mondo.
Quali sono le prospettive politiche, a questo proposito, dell’appello “E ora il popolo!”?
Trovo molto positivo che siamo riusciti a costruire una lista con elementi comuni, con Podemos, con Potere al Popolo, con Bloco de Esquerda, ecc… Per me questo appello comune e questo impegno è davvero una grande speranza per costruire questo progetto politico per l’Europa.
Dobbiamo ancora riflettere attentamente su come uscire da questi trattati, come fare alleanze che ci permettono di andare avanti non solo in Francia… ma il punto di partenza dell’appello “E ora il popolo” è davvero buono.
Come dicevo, c’è una questione fondamentale, ovvero applicare il nostro programma anche a livello europeo, essendo ben consapevoli che non riusciremo a farcela da soli e che abbiamo bisogno di una scala politica più ampia della sola Francia. L’Europa è quindi un ovvio sostegno, ma per il momento questa Unione Europea ci sta letteralmente portando allo sfascio, quindi dobbiamo riorientarla e questo significa sviluppare dei rapporti internazionali.
Tutti devono essere in grado di progredire. Lo si può e lo si deve fare insieme, elaborando solidarietà, integrazione e cooperazione internazionale tra i paesi che condividono questa visione. Quindi, oggi l’appello “E ora il popolo!” restituisce entusiasmo e permette di avviare questo processo, anche alla luce di quanto successo in Grecia qualche anno fa, quando i greci sono morti per mancanza di solidarietà.
Abbiamo partecipato alla riunione della corrente Ensemble-Insoumis in ottobre, nella quale Laurence Lyonnais ha introdotto il dibattito “Nè Macron, Nè Orban: quale orientamento per la campagna delle europee”. Come Potere al Popolo, si è detto che, dal punto di vista mediatico, esiste una falsa alternativa tra l’europeismo liberista di sinistra e il nazionalismo liberista di destra. Che ne pensi?
Penso all’esempio di Prodi, ovvero alla morte della sinistra italiana quando tutti si sono messi dietro Romano Prodi per “combattere meglio Berlusconi”. Non solo non sono ci sono riusciti, ma poi Berlusconi è diventato ancor più forte. Quell’idea è stata un fallimento totale. Il fatto che la sinistra italiana del tempo si sia allineata solo su questo tema, non solo ha reso Berlusconi più forte, ma ha affossato anche la sinistra stessa.
Noi ci siamo affidati al vostro contro-esempio, che penso sia rappresentato da quello che Mélenchon ha fatto con il Front de Gauche prima e ora con la France Insoumise: resistere, reagire, non lasciarsi coinvolgere nel fallimento di Hollande, senza rinunciare ai nostri valori e alle nostre idee in nome della lotta contro il Front National.
Proprio per esistere in futuro dobbiamo avere questa sinistra di rottura e di cambiamento. Ho l’impressione che il panorama politico in Francia non è lo stesso del vostro in Italia, perché abbiamo anche imparato qualcosa dall’evoluzione del Movimento 5 Stelle e da come questa alleanza di governo con la Lega sia un disastro.
In questo momento, direi che il caso del M5S serve anche più come supporto quando diciamo di “fare attenzione a quello che facciamo e dove andiamo”. Oggi l’estrema destra “modernizzata” trova punti di vicinanza e di alleanza anche con quella che in Francia è la destra repubblicana, con la quale ci sono relazioni molto importanti che stanno diventando operative (intorno a Marion Le Pen, ma anche con Mariani, che viene comunque da quell’area e che ora si trova a sostegno di Marine Le Pen e del Front National). Possiamo comprendere come il recente posizionamento del FN sta facendo saltare in aria gli argini che erano stati posti da Jean Marie Le Pen, con questo partito che si sta muovendo verso una soluzione di maggioranza.
C’è un senso della storia in Francia e non dobbiamo perderlo. Vedo che tra i giovani non è sempre ovvio: l’antifascismo, il rifiuto assoluto e viscerale dell’estrema destra… non riesco a ritrovarli nei giovani che hanno 20-30 anni. E tutto questo l’abbiamo visto al secondo turno delle elezioni presidenziali, quando tanti giovani si sono trovati a dover votare Macron o Le Pen: “Le Pen è terribile, ma Macron è l’inferno liberale”. In questo senso, il rischio si concretizza nel discorso “l’estrema destra non è buona, sono razzisti, ma alla fin fine…”. Inoltre, Marine Le Pen è forte e ha risorse economcihe alle sue spalle, non deve essere sottovalutata per la rilevanza della battaglia da combattere.
Qual è il nostro ruolo nel rompere questa falsa dicotomia tra due visioni che rappresentano due facce della stessa moneta?
Penso che, di fronte a loro, ciò che ci rende efficaci è opporre a una visione coerente. Per questo motivo continuo a credere che la lotta all’immigrazione non sia una lotta marginale. É una lotta che va combattuta e che dobbiamo immaginare che possa assumere un ruolo guida nel paese, soprattutto quando tra l’opinione pubblica c’è il 70% dei francesi che oggi pensa che non possiamo più accogliere i migranti… è un orrore!
Dobbiamo vincere questa battaglia, dobbiamo combatterla contro l’estrema destra, ma anche contro Macron. Guardando i migranti che muoiono nel Mediterraneo e pensare che Francia, Italia, ecc… nessuno è in grado di accogliere una barca con 30 o 40 migranti che rischiano la morte, mi sembra davvero assurdo. Francamente, penso che dobbiamo lavorare su questo perché dobbiamo convincere la gente del contrario.
Un altro tema è sul quale lavorare è quello della battaglia ambientale, anche in opposizione all’estrema destra. Molto spesso è scettica sulle questioni ambientali e climatiche, ma anche quando ammettono che c’è un problema di questo tipo, non li sentirete mai parlare di ecologia, perché non è assolutamente il loro argomento.
Infine, un altro tema di confronto è relativo alla questione della democrazia e delle libertà. Su questo punto, noi pensiamo che abbiamo bisogno di una Sesta Repubblica. Per farla dobbiamo opporci all’estrema destra, combattendo queste battaglie.
Ad esempio, le questioni relative alla redistribuzione della ricchezza e all’accoglienza dei migranti possono essere utilizzate per fare una chiara differenza con lo status quo difeso dalle politiche liberali di Macron e dalle politiche reazionarie di Le Pen.
Se c’è una questione sulla quale stiamo facendo bene, è quella della redistribuzione della ricchezza, una battaglia sulla quale c’è una convergenza abbastanza forte con i Gilets Jaunes. Macron è arrivato, ha abolito l’Impôt de Solidarité sur la Fortune, ha donato miliardi ai più ricchi e poi spiega al popolo che ora, a causa dell’elevato debito pubblico, deve fare dei sacrifici.
Ovviamente tutto ciò non può funzionare. Eppure l’estrema destra non si è posizionata con forza né in aula né a livello globale contro questa riforma dell’ISF. Inoltre, è anche contraria all’aumento del salario minimo, ovvero una delle rivendicazioni essenziali dei Gilets Jaunes. Pertanto possiamo dire che la redistribuzione della ricchezza non è una faccenda che interessa né Macron né Le Pen. Penso che spetti a noi portare avanti questa battaglia, soprattutto perché la loro visione sociale ed economica è stata messa in discussione da più parti ed è un completo fallimento.
La mia convinzione è che dobbiamo essere concentrati su un progetto sociale più globale, non solo nel dimostrare che il Front National sta mentendo. Bisogna indicare chiaramente che tipo di politiche vuole mettere in campo e dire espressamente che noi non siamo d’accordo!
Non penso che dovremmo mettere il tema dell’immigrazione sotto il tappeto, perché sarebbe aberrante, come altre questioni che non sono immediatamente popolari. Penso che ciò ci renderà veramente credibili e dobbiamo andare a prendere le persone sulle tematiche di sinistra.
L’espressione sembra non avere più alcun significato, perché la parola “sinistra” stessa è stata così maltrattata durante il quinquennio di Hollande. Quindi è un problema quando si arriva sui media e si dice la parola ” sinistra” perché per molte per molte persone non significa più niente.
D’altra parte, credo è che ci sono alcune convinzioni nelle caratteristiche più profonde del paese che sono dalla parte di questo progresso, di questa emancipazione umana. Ad esempio, se si guarda alla mappa elettorale del voto di Mélenchon, si può notare una corrispondenza, non totale ma in buona parte, con la mappa elettorale del voto storico verso il PCF. I sobborghi rossi, come per esempio quello di Seine Saint-Denis, dove il PCF faceva punteggi assolutamente incredibili, Mélenchon ha ottenuto i suoi punteggi migliori.
C’è un potenziale per risvegliare non solo tutte le persone che da sempre hanno votato in quel modo, ma anche tutti quelli che ormai sono disillusi ma che condividono questo nostro stesso punto di vista.
A livello politico, sei sempre stata attiva sui temi dell’emancipazione femminile e della parità di genere. Qual è la situazione attuale in Francia?
La sfida per la parità di genere in Francia è passare dall’uguaglianza formale a quella sostanziale. Nel XX secolo sono stati conquistati diritti, tra cui il diritto di voto, il diritto all’aborto (almeno la liberalizzazione dell’aborto), e altri importanti progressi legali che fanno sì che l’uguaglianza sulla carta esista in un certo modo.
Però, la difficoltà che abbiamo è come passare da questa parità di diritti formale a un’uguaglianza praticata nella vita reale, il che significa lottare duramente contro ogni forma di sessismo e coinvolgere le autorità pubbliche in questo settore. E per farlo, non vedo come si possa combattere questa battaglia nel quadro dell’austerità. Perché un modo per combattere queste forme di sessismo è sviluppare moduli didattici sul tema, formare personale per accogliere donne vittime di violenza, creare assistenza nel tessuto sociale e luoghi di ascolto.
Sono solo alcuni esempi concreti, ma che dimostrano che abbiamo bisogno di investimenti pubblici per sostenere la transizione verso una società egualitaria dal punto di vista popolare.
Hai detto che con la Loi Asile-Immigration “le porte si stanno chiudendo mentre il Mediterraneo diventa un cimitero”. Hai denuncia il caso della nave Sea Watch e hai fatto un appello per interrogare politicamente il governo francese e l’Unione Europea, a seguito del rifiuto del governo italiano di accogliere la nave. Per quanto riguarda questa deriva xenofoba e securitaria che interessa molti paesi europei, quali politiche dovrebbero essere messe in atto per affrontare quello che qualcuno chiama il “problema dell’immigrazione”? Sempre se esiste un problema reale su questo tema…
Contestiamo fermamente il fatto che vi sia un problema di immigrazione, perché oggi assistiamo invece a una crisi di accoglienza. Non c’è nessuna invasione, non è vero. Dobbiamo portare la discussione e il dibattito al livello adeguato. Ci impegniamo per i diritti di tutte di tutti e crediamo che questa Loi Asile-Immigration è estremamente rigida nei confronti dell’accoglienza, producendo situazioni di illegalità e di mancanza di protezione, aggravando anche la divisione che esiste tra i lavoratori che hanno i documenti e quelli che non li hanno. Quindi, tutto questo sistema è assolutamente catastrofico e dobbiamo lottare per affermare una logica dell’accoglienza incondizionata.
È estremamente urgente vista la situazione nel Mediterraneo, per poter affermare prima di tutto il dovere all’umanità. Per quanto riguarda la regolarizzazione delle persone che si trovano sul nostro territorio, riteniamo già che tutti coloro che lavorano dovrebbero poter essere regolarizzati e che il ricongiungimento familiare non dovrebbe ancora essere impedito, ma al contrario incoraggiato.
Voglio ribadire con chiarezza che i problemi della Francia non sono in alcun modo legati all’immigrazione, come qualcuno vuole far credere. Dobbiamo adoperarci per contrastare questo ripiegamento xenofobo e per farlo non possiamo impedire a queste persone di avere diritti e di essere accolte con dignità. Pertanto, se vogliamo fare dei progressi dobbiamo affrontare la questione con la dovuta attenzione, mettendo in campo un discorso chiaro di apertura e non di ritiro.

venerdì 3 maggio 2019

Venezuela. Sconfitto nuovamente il golpe. Il popolo salva il popolo

In Venezuela ancora una volta è il popolo che scende in strada a difendere sé stesso e il proprio governo dal golpe orchestrato a Washington ed eseguito dal burattino Guaidó.
Il golpe è stato sconfitto. Leopoldo López, Juan Guaidó e gli altri golpisti sono in fuga, alla ricerca di nascondigli. Mentre il popolo in massa è sceso in piazza davanti a Miraflores per difendere Maduro, il golpista Lopez si è rifugiato nell’ambasciata spagnola. Altri golpisti si sono rifugiati nell’ambasciata de Cile. Alcuni militari disertori sono invece segnalati presso la sede diplomatica del Brasile.
 Come il 13 aprile 2002, anche stavolta la “unión civico-militar” si mostra una forza decisiva. Hanno provato di nuovo a spaccare le Forze Armate, hanno fallito. Hanno provato a costruire una mobilitazione reazionaria del Popolo ma hanno fallito.
L’attenzione per la giornata di oggi è massima. Ci sono le manifestazioni per il 1 Maggio e la destra potrebbe approfittarne per fare vittime e provocazioni. In particolare si monitorano gli aereporti, soprattutto fuori da Caracas, dove i golpisti potrebbero tentare azioni per consentire l’atterraggio di elicotteri con mercenari armati provenienti da fuori il Venezuela.
Di fronte all’ennesimo tentato golpe in Venezuela, emergono ancora una volta le convergenze trasversali di chi in Italia sostiene i golpisti. Quelli che dichiarano di essere diversi e in competizione tra loro, in realtà pensano le stesse cose e appartengono allo stesso campo: quella subalternità all’imperialismo. In un tweet il presidente del PD Paolo Gentiloni si schiera con i golpisti fascisti in Venezuela. Si aggiunge così alle altre due scimmiette di Trump che hanno già parlato: Tajani e Salvini.
Dei tre Gentiloni è sicuramente il peggiore, perché poi chiederà voti “per battere la destra”, mentre lui e il PD stanno con Trump, Bolsonaro ed i golpisti fascisti.
“Ha ragione Gentiloni, bisogna scegliere da che parte stare e noi stiamo con il Venezuela di Chavez e Maduro, con il popolo che lotta contro i fascisti servi dei ricchi e delle multinazionali e contro il PD che sta con loro, per questo mai più con il Pd”

giovedì 2 maggio 2019

Siamo ultimi in Europa per spesa in istruzione. Così ci condannano a essere un popolo ignorante

Abbiamo tutti un aneddoto sulle condizioni fatiscenti del sistema scolastico italiano: non c’è studente di qualsiasi latitudine che non abbia il ricordo di mediocri pasti della mensa – quando la mensa c’è – o di giornate passate al freddo per un guasto al sistema di riscaldamento. All’università è normale sedersi a terra in aule affollate o ascoltare le lezioni dal corridoio, perché i locali sono troppo piccoli per accogliere tutti.
In Italia, fra studenti e professori si instaura un rapporto di mutua rassegnazione, ma basta andare all’estero, conoscere un Erasmus, ascoltare racconti di esperienze diverse – danesi, svedesi, tedeschi – per rendersi conto di quanto l’Italia, nel campo dell’istruzione, sia arretrata rispetto al resto d’Europa. 
Non è un luogo comune, ma una realtà provata dalle statistiche. Da anni l’Italia è terzultima in Europa per investimenti nel settore educativo: secondo un rapporto Eurostat, l’Italia riserva alla scuola circa il 3,8% (passato al 3,5% per il 2019 con l’ultimo documento programmatico di Bilancio) del Pil, almeno un punto in meno rispetto alla media europea – che si attesta al 4,9% del Pil – e molto al di sotto di altri Paesi: la Danimarca guida questa classifica con 7 punti percentuali, seguita dalla Svezia, con 6,5 punti, e dal Belgio con 6,4. Solo la Romania e l’Irlanda registrano un dato peggiore di quello italiano, rispettivamente con il 3,1% e il 3,7% del Pil. Anche altri Paesi europei che non fanno parte dell’Unione spendono più di noi: l’Islanda destina all’istruzione quasi l’8% del suo Pil, mentre Norvegia e Svizzera si attestano sopra i 5 punti percentuali.
Guardando i dati si potrebbe obiettare che anche la Germania, con il suo 4,3%, si trova sotto la media europea, ma se consideriamo il valore del Pil tedesco, Berlino investe nell’istruzione 127,4 miliardi di euro l’anno, contro i 65,1 dello Stato italiano. Per quanto riguarda la percentuale di spesa dedicata all’istruzione rispetto alla spesa pubblica totale, l’Italia riconferma il trend negativo e si trova addirittura all’ultimo posto della classifica con il 7,9%. La Grecia spende l’8,2%, la Romania l’8,4%. L’Islanda il 15%.
Sul tema dei finanziamenti scolastici l’esecutivo gialloverde sembra intenzionato a fare economia almeno quanto i governi precedenti. Lo scorso febbraio il ministro dell’Istruzione Marco Bussetti, rispondendo a chi chiedeva più soldi per gli istituti scolastici del Meridione, ha dichiarato che “Non servono più fondi. Serve più sacrificio, più lavoro, più impegno. Vi dovete impegnare forte”. Il vicepremier Luigi Di Maio si è affrettato a fare marcia indietro: “Se un Ministro dice una fesseria sulla scuola, chiede scusa. Caro Marco, siamo noi al Governo che evidentemente dobbiamo impegnarci sempre di più”. Un impegno che stenta ad arrivare dato che già in passato Bussetti si era espresso contro la possibilità di aumentare gli stipendi inadeguati dei docenti: “Lo stipendio degli insegnanti dovrebbe essere all’altezza del ruolo che hanno e dell’impegno. Non possiamo però far finta di non conoscere la difficile situazione dei conti dello Stato,” aveva dichiarato.
Oltre agli stipendi del personale anche le strutture sono inadeguate e spesso fatiscenti. Secondo l’ultimo rapporto nazionale sulla sicurezza delle scuole – stilato da Cittadinanzattiva – un edificio scolastico su due ha ricevuto il collaudo statico, meno di uno su dieci è stato migliorato dal punto di vista sismico, e in media ogni quattro giorni si verificherebbe un crollo. Il rapporto restituisce un Paese spaccato: se in Lombardia si spendono in media 119mila euro per una manutenzione ordinaria, in Puglia si arriva a malapena a 3mila, mentre in Calabria si superano di poco i 2mila euro. Al Nord il 64% degli istituti scolastici è in possesso del certificato di prevenzione incendi, mentre al Sud il dato scende al 17%, così come solo il 15% degli istituti ha il certificato che attesta il rispetto delle norme igienico-sanitarie, contro il 67% delle scuole settentrionali.
Allo stesso modo, al Nord le verifiche tecniche hanno riconosciuto il 63% degli edifici scolastici come agibile, mentre al Sud i controlli hanno dato parere positivo solo nel 15% dei casi. Il Centro non versa in condizioni migliori: il 19% delle scuole ha il certificato di prevenzioni incendi, solo il 18% quello sanitario e il 22% quello di agibilità.
Sono le regioni del Centro e del Sud a mostrare i più gravi segni di ritardo: nel Lazio l’agibilità è attestata solo per il 9% delle scuole, il 6% in caso di incendi; In Campania il dato migliora di poco: 11% per l’agibilità e 17% per la prevenzione incendi; di poco sopra la Calabria con il 12% di agibilità.
Non può dirsi migliore la situazione delle università. I fondi scarseggiano e l’istruzione “pubblica” è in gran parte a carico delle famiglie. Secondo Anvur l’Italia è il terzo Paese in Europa per le rette più alte, superata solo da Inghilterra e Paesi Bassi. Di contro solo uno studente su cinque ha accesso a una borsa di studio, costringendo l’80% degli universitari italiani a cavarsela da soli, con le proprie forze o con il contributo economico della famiglia.
All’estero la situazione è sensibilmente diversa: in Germania circa il 25% degli studenti percepisce borse di studio, in Spagna il 30% e in Francia il 40%. Inoltre in Germania e Austria non sono previste tasse universitarie, mentre in Danimarca, Finlandia e Svezia gli studi sono gratuiti per i cittadini europei.
Andando più nello specifico, in Danimarca gli studenti possono usufruire di aiuti su base mensile o settimanale: chi vive con i genitori può arrivare a percepire 346 euro, mentre chi vive da solo prende fino a 804 euro. In Finlandia gli aiuti dello Stato ammontano a 11.260 euro annui per studente, che se ha un reddito inferiore a 11850 euro annui ha diritto anche a un bonus affitto di 201 euro mensili per 9 mesi l’anno.
In Germania non ci sono tasse – escluso l’abbonamento ai mezzi – e le borse di studio possono garantire 735 euro mensili. In Norvegia gli studenti pagano una cifra a semestre che oscilla tra i 30 e i 60 euro. In Scozia la laurea triennale è gratuita, mentre in Francia le università hanno una tassa unica per tutti gli studenti di 181 euro l’anno per una magistrale e 250 per un master (a esclusione di politecnici e facoltà di medicina dove la cifra sale a un massimo di 600 euro). Inoltre lo Stato francese garantisce un bonus tra i 115 e i 200 euro mensili per le spese di affitto. 
In Italia i fondi sono gestiti male e non si fa niente per invertire la tendenza. Dal 2013 è fermo il decreto che destina il 3% del denaro confiscato alla mafia al Fondo Integrativo Statale per la concessione di borse di studio universitarie. Mancano i decreti attuativi per rendere effettiva questa misura. Secondo Elisa Marchetti, coordinatore nazionale dell’Unione degli Universitari, “Queste risorse risultano fondamentali per il finanziamento del diritto allo studio e, oltretutto, riteniamo questa vicenda estremamente grave, considerando che si tratta di un ‘semplice’ trasferimento di risorse e non di fondi aggiuntivi per cui si renderebbe necessario trovare conseguenti coperture”. 
Con presupposti simili non stupisce che secondo un recente rapporto Ocse un quarto dei 500mila studenti che hanno sostenuto l’esame di maturità nel 2018 vivrà all’estero entro il 2020 per studiare o lavorare. Questo esodo imminente è il frutto dalla mancanza di lavoro, ma anche dalle scarse prospettive offerte dal nostro sistema scolastico.
Fra gravi deficit nelle infrastrutture e un costo elevato dell’istruzione, la scuola italiana è uno dei punti di maggior debolezza del nostro Paese. Chi concentra la sua attenzione su un’inesistente invasione straniera dovrebbe rendersi conto che il vero pericolo è affidare i propri figli a scuole che rischiano di crollare loro sulla testa e a un sistema universitario che li esclude con rette insostenibili per un numero sempre più alto di famiglie.