mercoledì 14 novembre 2018

Il decreto Genova, le opere e le autorità di sorveglianza

Avanza il decreto per la ricostruzione del Ponte Morandi e si aggravano le accuse della magistratura sulle responsabilità. Ancora in verifica Gronda e Terzo Valico e serviranno altri 43 decreti attuativi. Ma soprattutto serve un’idea di città resiliente e sostenibile per il futuro. A Genova e non solo lì.
A quasi tre mesi dal crollo del Ponte Morandi con i suoi 43 morti e centinaia di sfollati, la magistratura prosegue le sue indagini sulle cause e le responsabilità, mentre il Parlamento si è occupato a più riprese del disastro e della ricostruzione, con audizioni, mozioni ed infine con il decreto legge Genova (Dl 28 settembre 2018, n. 109), approvato alla Camera in prima lettura il 31 ottobre e ora all’esame del Senato. A smentita degli annunci iniziali del governo e di Autostrade per l’Italia, in cui tutto sarebbe stato svolto in modo rapido, si prosegue tra polemiche continue e aggiustamenti di tiro, sia per le divergenze dentro la maggioranza e sia per la complessità delle misure da realizzare, ampiamente sottovalutate nei primi annunci.
Riprova ne sia che a differenza degli applausi per il governo durante i funerali delle vittime, a fine settembre sfollati e genovesi hanno contestato il ministro Danilo Toninelli leggendo la prima stesura del decreto legge di aiuti, così come è avvenuto con il braccio di ferro sulla nomina del commissario straordinario per la ricostruzione che ha visto bruciare nomi già indicati per poi ricadere sul sindaco di Genova Marco Bucci. O ancora con le divergenze tra il governo Giuseppe Conte e il presidente della Regione Liguria sul ruolo di Aspi nella ricostruzione del ponte Morandi ed il ruolo della stessa Regione nella gestione dell’emergenza.
Estremamente pesanti le critiche del presidente dell’Autorità anticorruzione Raffaele Cantone al testo del decreto legge Genova approvato in Consiglio dei ministri, in cui si consentiva la ricostruzione in deroga a tutte norme vigenti, incluse quelle antimafia, creando preoccupazione per le infiltrazioni e la corruzione che potrebbe essere alimentata dagli investimenti e movimenti terra dei lavori. Una misura che a seguito della segnalazione dell’Autorità Anticorruzione è stata parzialmente corretta dalle modifiche approvate in Parlamento.
Cosi come giova ricordare che il decreto legge Genova è diventato un decreto omnibus su cui sono state inserite vergognose misure per il condono edilizio ad Ischia, un altro condono per le zone terremotate del 2016 nel centro Italia e la possibilità di sversare nei campi fanghi ripieni di idrocarburi di cui è stato innalzato appositamente il limite.
La Commissione ispettiva istituita subito dopo la tragedia dal ministro Toninelli al Mit (ridimensionata per le dimissioni di alcuni esperti e responsabili di uffici pubblici che sono poi risultati coinvolti nelle indagini dalla magistratura) ha consegnato a fine settembre le sue conclusioni. “Il rischio di crollo del ponte Morandi a Genova era evidente già negli anni scorsi, e ancor più lo era nel progetto di retrofitting di Autostrade del 2017. Eppure il concessionario ha sottovalutato “l’inequivocabile segnale di allarme”, ha “minimizzato o celato” la gravità della situazione al ministero delle Infrastrutture, e “non ha adottato alcuna misura precauzionale a tutela dell’utenza”. È quanto si legge nelle nette conclusioni della relazione della commissione Mit, ovviamente contestata da Autostrade per l’Italia che le ha definite “mere ipotesi”.
L’indagine della magistratura prosegue e si aggravano le accuse
E’ dal 14 agosto che le indagini della magistratura di Genova vanno avanti senza sosta sulle cause e le responsabilità del crollo del Ponte Morandi, con 21 persone e 2 società – Aspi e Spea – iscritte nel registro degli indagati. Ma a fine ottobre le posizioni si sono aggravate perché più si approfondiscono le indagini, più i magistrati si sono convinti che Autostrade per l’Italia, la Spea (società di Aspi addetta a progettazione e monitoraggio della rete), il provveditorato alle Opere pubbliche della Liguria e il ministero delle Infrastrutture, avessero la percezione “dell’ammaloramento del ponte Morandi”: in pratica sapevano che fosse a rischio crollo, anche se ” ritenevano di poterlo evitare”. A seguito di queste indagini, la procura di Genova ha cambiato il capo di imputazione: non devono rispondere più solo di omicidio colposo, disastro colposo e attentato colposo alla sicurezza dei trasporti, ma di “colpa cosciente”. Si tratta di «un reato che contempla una aggravante», ha precisato il procuratore aggiunto Paolo D’Ovidio, infatti in caso di condanna gli imputati avrebbero l’aumento di pena di un terzo. Non resta che vedere gli sviluppi dell’inchiesta, molto complessa, sull’accertamento delle cause e delle responsabilità.
Il decreto legge Genova per la ricostruzione
È diventato un maxi decreto da 60 articoli il decreto legge “Genova”, anche detto “Urgenza” (DL 28 settembre 2018, n. 109) approvato dalla Camera in prima lettura il 31 ottobre 2018: ora il testo passa ora all’esame del Senato e deve essere convertito in legge entro il 27 novembre. Il provvedimento contiene le misure per la ricostruzione del Ponte Morandi crollato e quelle di indennizzo degli sfollati, dei cittadini e delle imprese di Genova danneggiate dal crollo. Il decreto stanzia complessivamente 630 milioni di euro, di cui 360 milioni per la ricostruzione del ponte e per le nuove case degli sfollati, oneri che secondo il testo dovrà comunque pagare Autostrade per l’Italia – e 270 milioni per minori tasse, zona franca urbana, e sostegni alle imprese. Il disegno di Legge di Bilancio 2019, appena arrivato in Parlamento, aggiunge poi altri 460 milioni di euro: 160 in due anni per indennizzi agli autotrasportatori, 100 in due anni ancora per la “Zona franca urbana”, 200 milioni per il piano di sviluppo portuale.
L’articolo 1 del decreto legge prevede la nomina, da parte del presidente del Consiglio, di un commissario straordinario per la ricostruzione del ponte Morandi e della viabilità connessa. Il 4 ottobre scorso il presidente Conte, dopo un lungo tira e molla delle forze politiche di governo, ha annunciato la nomina a commissario del sindaco di Genova Marco Bucci, ma il Dpcm non è ancora uscito in Gazzetta e serve un altro Dpcm per la costituzione della struttura di supporto al commissario.
L’articolo 1-bis, aggiunto con un emendamento alla Camera, stabilisce gli indennizzi per i proprietari di case da demolire, oggi sfollati, mentre l’articolo 1-ter stabilisce che il commissario debba individuare subito i tratti autostradali A7 e A10 funzionalmente connessi al viadotto Polcevera, che Autostrade per l’Italia deve immediatamente consegnare al commissario. Una sorta di revoca della concessione ad Aspi su questo tratto incriminato, in modo da consentire un rapido avvio della ricostruzione e limitare il contenzioso. La norma stabilisce che spetta ad Autostrade per l’Italia, non solo pagare la ricostruzione del ponte, ma anche pagare tutti gli indennizzi agli sfollati, per il trasloco e la nuova casa.
I poteri del commissario sono praticamente illimitati, con possibilità di deroga a ogni norma di legge extra penale, ma a seguito della segnalazione del presidente dell’Anac Raffaele Cantone, la Camera ho modificato il testo e ha stabilito che il commissario deve rispettare il codice antimafia (Dlgs 159/2011), con procedure però accelerate per il rilascio del certificato antimafia da parte delle prefetture da stabilire con decreto del ministro dell’Interno. Aspi dovrà pagare entro 30 giorni dalle richieste del commissario, e in caso di diniego quest’ultimo potrà chiedere anticipazioni a banche garantendo la restituzione con le coperture indicate in bilancio (360 milioni di euro).
Per l’affidamento degli appalti (demolizione, progettazione del nuovo ponte, lavori di ricostruzione), il commissario Bucci non potrà assegnare alcun incarico ad Autostrade o società controllate/collegate, ma ogni altra esclusione anche di altre concessionarie, è stata eliminata rispetto al testo iniziale.
Il decreto nulla dice rispetto alle modalità di affidamento, ma il commissario Bucci ha già precisato che farà gare semplificate, dai tempi stretti, a inviti: saranno invitate 5-10 imprese per ogni incarico, scegliendo le migliori sul mercato, e affidando la scelta a una commissione di tecnici esterni.
Ancora non è chiaro poi quale sarà il ruolo di Fincantieri, che in un primo tempo secondo diverse dichiarazioni del governo, sembrava dovesse essere il principale attore e gestore della ricostruzione del Ponte.
Altre misure del decreto su infrastrutture, sicurezza e regolazione
Il decreto legge contiene altre misure più generali ma sempre riferite alle infrastrutture, sicurezza e regolazione. Un articolo impone a tutte le concessionarie autostradali di avviare subito un’attività «di verifica e messa in sicurezza di tutte le infrastrutture viarie oggetto di atti convenzionali, con particolare riguardo ai ponti, viadotti e cavalcavia», da concludere entro 12 mesi.
Una novità inserita nel decreto – all’articolo 12 – è l’istituzione di una nuova Agenzia per la sicurezza ferroviaria e stradale/autostradale (ANSFISA). In sei mesi dovrà accorpare ANSF, l’attuale Agenzia per la sicurezza ferroviaria, con nuove figure e nuove competenze sulla rete stradale e ferroviaria, a cui sono destinati oneri per 22 milioni di euro all’anno. Avrà compiti di regolazione, ispezione e sanzioni sui gestori delle reti, ai fini della sicurezza.
Per rafforzare le capacità di vigilanza da parte del ministero delle Infrastrutture sullo stato delle opere pubbliche viene istituito il nuovo Archivio informatico nazionale delle opere pubbliche (AINOP), una banca dati alimentata dai soggetti gestori, aggiornata costantemente e con sperimentazione anche di sensori posti sulle infrastrutture e connessi in tempo reale. A questo scopi il decreto autorizza l’assunzione di 200 nuovi tecnici al Mit (ministero dei Trasporti), con oneri per 7,2 milioni di euro l’anno.
Sempre in materia di infrastrutture e regolazione, il decreto all’articolo 16 comma 1, rafforza i poteri dell’Autorità di regolazione dei trasporti (ART) sulle concessioni autostradali, estendendo il compito di verifica di tariffe e assetti regolatori anche alle vecchie concessioni (quelle esistenti al 28 dicembre 2011) e non solo a quelle nuove e future. Si tratta di una significativa estensione di poteri ma che già ha dato luogo a diverse interpretazioni sulle reali possibilità di ART di intervenire sulle concessioni e relative convenzioni in corso di validità (praticamente tutte e con scadenze assai lontane nel tempo).
Inoltre la stessa norma aggiunge il parere della stessa ART per la revisione degli atti convenzionali vigenti, per la revisione delle tariffe e al verifica sugli investimenti effettivamente realizzati. Atti che restano sempre di competenza del Mit e del Mef (ministero dell’economia) da emanare con decreto. Quindi, se da un lato si estendono le funzioni di ART – e questo è certamente positivo – siamo però ancora lontani dai poteri di una Autorità indipendente sulla regolazione delle concessioni autostradali.
Nel decreto – sempre all’articolo 16, ma comma 2 – si anticipano 192 milioni di euro (già presenti nel Bilancio 2018) a favore di Strade dei parchi Spa, concessionaria della autostrada Roma-L’Aquila-Teramo (gruppo Toto,) al fine di avviare subito le opere più urgenti di messa in sicurezza sismica dei viadotti della A24/A25. Anche in questo caso è lo Stato che deve intervenire per mettere in sicurezza una autostrada in regime di concessione privata, a conferma dei gravi limiti delle attuali convenzioni autostradali.
Nasce infine la cabina di regia «Strategia Italia», a Palazzo Chigi, per il monitoraggio e il rilancio dei programmi di investimento in opere pubbliche, in particolare quelli per dissesto idrogeologico, antisismica, bonifiche. Anche questa non è una novità perché anche i governi precedenti avevano varato misure analoghe di coordinamento e vigilanza sugli investimenti.
Un limite oggettivo del decreto legge per Genova, è che prevede la redazione e approvazione di 43 decreti attuativi, che allungheranno i tempi di attuazione di diverse misure previste dalla norma. C’è da augurarsi che i tempi siano rispettati per avviare rapidamente la ricostruzione e dare una soluzione reale alle famiglie sfollate.
Ancora assenti le proposte del Governo sulle nuove regole per le concessioni autostradali
Quello di cui invece non c’è decisamente traccia nei provvedimenti e nel confronto politico riguarda le proposte del governo sulle nuove regole per le concessioni autostradali, in cui riequilibrare il rapporto distorto tra interesse pubblico e interesse privato, come è emerso in modo chiaro dopo il disastro di Genova, quando sono stati resi finalmente noti gli atti convenzionali di tutte le concessionarie autostradali, a fine agosto.
Ma su  tutto questo per ora il governo tace, nonostante le pesanti accuse del vice presidente del Consiglio Luigi Di Maio al sistema delle concessioni autostradali ed ai governi precedenti di destra e di sinistra per aver assicurato un sistema sbilanciato verso i profitti privati a scapito dell’interesse pubblico, degli investimenti e della manutenzione della rete. Questo silenzio non sorprende perché è nota la distanza tra il movimento Cinquestelle ed il partito della Lega, assai contiguo nelle regioni del Nord al sistema delle concessioni autostradali.
Anche dal fronte della procedura di revoca avviata dal governo e dal Mit con la contestazione della concessione ad ASPI per le inadempienza, non ci sono novità: ASPI ha consegnato le sue controdeduzioni e ora sono in corso le valutazioni da parte del governo e del Mit. Anche in questo caso c’è da immaginare che i tempi di decisione non saranno brevi.
In corso è anche la verifica sulle grandi opere come Terzo Valico e Gronda autostradale di Genova. Ma serve una idea di città del futuro.
Nella nota di aggiornamento del documento di economia e finanza 2018 (NADEF), presentato dal governo a fine settembre e condiviso dal Parlamento, viene descritta l’importanza degli investimenti pubblici su cui “invertire la tendenza negativa in atto da molti anni e precipitata ulteriormente dall’inizio della crisi”, con l’obiettivo di raggiungere almeno il 3% di investimenti in rapporto al PIL. Quindi, la solita invocazione degli investimenti come volano dell’economia e dell’occupazione a cui ci hanno abituato da sempre governi di destra e di sinistra degli ultimi 30 anni.
Ma questa invocazione viene mitigata nello stesso documento NADEF quando il governo in modo opportuno “ribadisce la sua intenzione di portare a compimento gli investimenti strategici seguendo standard rigorosi di efficienza e, a questo scopo, intende sottoporre ad una analisi costi-benefici e ad un attento monitoraggio le grandi opere in corso (i.e. la Gronda autostradale di Genova, la Pedemontana Lombarda, il Terzo Valico, il collegamento tra Brescia e Padova e la tratta Torino-Lione). Una verifica che sta svolgendo la Struttura Tecnica di Missione del Mit e che nei prossimi mesi darà conto dei primi risultati di questa verifica, incluse le due opere legate a Genova ed al suo territorio. Vedremo i risultati e quali saranno le decisioni che verranno assunte di conseguenza.
Il tema delle grandi opere è però estremamente divisivo nel governo, come dimostrano le polemiche costanti su ogni investimento. Il vice presidente Matteo Salvini ha già dichiarato più volte che la Lega era e resta favorevole alle grandi opere come la Gronda di Genova, e che le verifiche vanno bene purché si concludano con il via libera ai lavori. Anche in questo caso dunque lo scontro con il movimento Cinquestelle è solo rimandato.
Se da un alto la verifica sulle grandi opere in corsa è opportuna, dall’altro serve anche un’idea diversa di città, di mobilità sostenibile, di riqualificazione territoriale, di resilienza ai fenomeni estremi, di capacità di contrastare il dissesto idrogeologico, di cui Genova, come tutte le grandi città, ha un forte bisogno.
Sul tavolo è già arrivata la proposta dell’architetto Renzo Piano secondo cui l’area della Val Polcevera coinvolta nel crollo del Ponte Morandi, “è di grandissima importanza”, anche se “sostanzialmente periferica”. “Ho lavorato sempre sul tema delle periferie – ha aggiunto – un’area di trasformazione, industriale e ferroviaria, un’area di straordinaria importanza per la città, Genova non può pensare di crescere né verso mare né verso monte, quindi l’area dove passava il ponte ha un grande valore urbanistico”. L’obiettivo deve essere come trasformare le vecchie aree industriali in ‘città’, “urbanizzarle”.
Ecco un’idea di città su cui coinvolgere le forze vitali della cittadinanza attiva per guardare al futuro resiliente e sostenibile dell’area metropolitana di Genova.

lunedì 12 novembre 2018

14 milioni di alberi abbattuti. Un disastro epocale diventa il pretesto per nuovi interessi economici

Non c'era chi si fregava le mani dopo il terremoto? Imprenditori intercettati mentre sghignazzavano parlando delle future commesse. Perché dai terremoti si può guadagnare, anche senza fare niente di buono e anzi aggiungendo danno al danno, se si hanno buoni amici tra i politici al potere in quel momento o in quella regione. Ma si può guadagnare, aggiungendo danno al danno, anche dalle calamità naturali, facendo leva sull'opportunismo e sull'ignoranza.
 
Il 29 ottobre sull'Italia hanno soffiato venti da uragano. Venti che in molti luoghi hanno superato i 200 chilometri orari, velocità che caratterizza gli uragani di categoria tre.

Ai tropici, dove tali uragani sono relativamente comuni, crescono le palme e un motivo ci sarà. Gli abeti, i larici, i pini, e persino le querce e i faggi non resistono a venti così violenti, e ne abbiamo avuto già dimostrazione qualche anno fa sull'Appennino tosco emiliano, seppure in misura minore. E infatti nei luoghi colpiti dai venti a 200 chilometri orari milioni di alberi (14 milioni è la stima) sono stati abbattuti e distrutti. E con loro quanti milioni di animali selvatici che in quelle foreste avevano casa e rifugio?

Un disastro di proporzioni immani, che dovrebbe scuotere le coscienze di tutti gli abitanti di questo disgraziato paese. Una finestra di orrore da cui possiamo dare un'occhiata al futuro che ci aspetta grazie al riscaldamento globale provocato dal nostro stile di vita e dalla follia di chi ci domina e di chi ci governa. Il potere economico in primis e quello politico subito dopo.

Quattordici milioni di alberi sono quattordici milioni di creature che contrastavano l'aumento dell'effetto serra, che producevano ossigeno, mitigavano il riscaldamento del suolo e dell'aria nelle estati sempre più calde; erano rifugio e cibo per mammiferi, uccelli, insetti; ci davano speranza e bellezza. Si dovrebbe piangere sul loro sterminio, arrabattarsi per cercare tutti insieme delle soluzioni per rimpiazzare al più presto quegli alberi sterminati, per mettere in atto politiche radicali che contrastino il riscaldamento del pianeta.

Invece no. Si attacca subito a sproloquiare per portare acqua al proprio mulino. Le calamità ambientali diventano un pretesto per attaccare gli ambientalisti e i vincoli ambientali. Come ai tempi in cui i giudici assolvevano gli stupratori, dando la colpa alle donne stuprate: se loro non fossero esistite, quei poveretti non sarebbero caduti in tentazione. Se non ci fossero gli ambientalisti e i vincoli ambientali, le imprese forestali avrebbero già potuto papparsi le foreste, che così non sarebbero state devastate. Non fa una grinza.

Sì, perché "l'acqua al proprio mulino" che sta portando una parte dei politici di governo e dei politici amministratori locali, è in realtà acqua al mulino delle grandi e medie imprese di distruzione dell'ambiente. Molte di tali imprese sono implicate in inchieste di mafia, tanto per non farci mancare nulla. Basti pensare alla Sila, ai boschi sequestrati, alle illegalità sul Gargano, alle trame sul verde pubblico, tanto per fare degli esempi.

Cui prodest? A chi giova? E' sempre la domanda che rivela il trucco. Siete dei bari, signori! A meno che non siate così ignoranti...

Dragare i fiumi non serve ai fiumi e alle terre che li fiancheggiano. Li uccide e, nello stesso tempo, ne aumenta la portata d'acqua e la velocità, rendendoli delle bombe sparate da un missile. Ma, naturalmente, giova alle imprese del movimento terra con i loro bei superescavatori e le loro super ruspe, il loro lavoro nero e le inchieste di mafia che coinvolgono molte di loro.

Gioverebbe alle popolazioni che vivono lungo le rive dei fiumi non aver costruito nelle zone di esondazione. Gioverebbe a tutti che lungo i fiumi ci fossero ancora quei bei boschi e boscaglie ripariali di salici, ontani e pioppi, che si lasciavano allagare tranquillamente e sopravvivevano allegramente dentro l'acqua, smorzandone la violenza. Ma quei bei boschi ripariali impedivano di cementificare e asfaltare e adesso, al loro posto, ci sono appunto case e strade. Che, a differenza dei salici, non resistono agli straripamenti dei fiumi. Dove qualche bosco ripariale resiste ancora, oggi intervengono a distruggerli Regioni, Consorzi cosiddetti di Bonifica e... industrie di legname e biomasse. Gnam, gnam, quanta buona pappatoria!

Il mercato dell'energia è stato aperto, anzi spalancato, ai privati; le centrali a biomasse vengono sovvenzionate (con i nostri soldi, non dimentichiamolo) come energie rinnovabili (peccato che brucino in un'ora quello che per rinnovarsi ha bisogno di cinquant'anni), e gli speculatori di ogni tipo ci si sono tuffati. "Ados, ados, ch'el muntun l'è gros!", antico detto lombardo che si traduce "addosso che il mucchio è grosso". Peccato che "il mucchio" da cui vogliono portar via tutto il possibile non sia di loro proprietà, e quindi ce lo stanno fregando, con l'aiuto di chi dovrebbe rappresentarci e custodirlo per noi.

Lo stesso discorso del "gnam gnam" vale per i boschi. Ci dicono che le foreste italiane sono cresciute a dismisura, vogliono farcelo credere e farci credere che questa sia una sciagura. In tempi di incremento insopportabile dell'effetto serra e dell'anidride carbonica in atmosfera! Ci prendono proprio per scemi.

  Mistificano, nascondono, omettono. Omettono, per esempio, di dire che tutte queste "foreste" di cui parlano, nella maggior parte dei casi non meritano questo nome; si tratta di boschi regolarmente e continuamente tagliati, sfruttati all'osso e indeboliti, ridotti a delle monocolture. I nostri governanti vadano a vedere i boschi del Mugello, dell'Umbria e di tante zone dell'Appennino, ridotti a boscaglie rade con alberi di dieci centimetri di diametro e alti tra i quattro e i sei metri. Boscaglie, quelle sì, impenetrabili, perché non c'è ombra che impedisca ai rampicanti e agli arbusti di crescere e propagarsi senza limiti. Ma, naturalmente, anche queste boscaglie tagliate ogni dieci anni vengono classificate come "foreste".

Dimenticano, i divoratori di legname, di parlarci dei 140.000 ettari di boschi incendiati nel 2017, dei quasi 50.000 ettari del 2016 e così via di anno in anno. Incendi dolosi. Chissà chi li ha provocati. Poi bisogna "bonificare", cioè portare via la legna bruciata, e si viene anche pagati per questo. E' comunque biomassa e come tale viene utilizzata. Chissà chi ci guadagna. E infine anche quei boschi bruciati a centinaia di migliaia di ettari risultano "foreste" sulla carta.

Dimenticano di dire che tra fine '800 e primi del '900 un terzo dei boschi italiani era stato distrutto per fare posto a pascoli, e che quindi non è così straordinario che il bosco abbia poi ripreso una parte del proprio territorio.

E dimenticano di farci notare che l'80% del territorio del nostro un tempo bel paese è di collina e montagna, che tendono a franare quando i boschi non ci sono.

Ma, direte voi, se i boschi italiani sono già così sfruttati, cosa vogliono le imprese del legno, le aziende agrarie-imprese del legno e i corifei al loro servizio? Sorpresa! Vogliono mangiarsi i parchi nazionali, le riserve naturali, le foreste demaniali e, giacché ci siamo, quei pochi boschi privati che i proprietari rispettano. Hanno già il decreto legge dell'ex governo Gentiloni, che il presidente della nostra Repubblica ha senza indugi firmato, nonostante "presenti diversi aspetti di incostituzionalità" e che questo governo "del cambiamento" non si è sognato di buttare nel cestino dei rifiuti, nonostante sia un decreto incostituzionale ed ecocida. Mancano i decreti attuativi delle Regioni e poi... gnam gnam, quanti soldi, profitti, mazzette, crescita, sviluppo, frane, smottamenti, alluvioni, erosiono... Quanta morte machissenefrega.

E, siccome hanno paura che gli ambientalisti e quella parte del popolo che non è bue (senza offesa per i buoi veri, che non hanno scelto di esserlo) mettano qualche sassolino nell'ingranaggio, hanno attuato un attacco preventivo. Come fanno tutti gli imperialisti con coloro che rifiutano di essere sudditi.

Così un disastro epocale diventa il pretesto per fare gli interessi economici di una parte minoritaria e priva di scrupoli, a discapito degli interessi collettivi e generali del paese e delle generazioni future.

Tuttavia la cosa più deprimente in tutto questo vociare confuso e fatto per generare confusione contro ambientalisti, vincoli, natura, alberi e foreste, è constatare a che punto sia giunta la follia e la cecità di coloro che mettono al primo posto nel loro operato e nella loro vita il profitto economico e il privilegio e il potere che esso genera. Dopo una catastrofe terrificante, oltre a chi pensa come guadagnarci, c'è chi si chiama "governatore" e si preoccupa di aprire gli impianti di sci: non temete, consumate, spendete, guadagnate, arricchitevi, sprecate, inquinate, distruggete.

Di fronte a un disastro che ci fornisce la prova evidente che tutta la vita del pianeta è a rischio, che ci mostra un quadro di ciò che ci aspetta in un prossimo futuro, e rende evidente e tangibile proprio ciò che scienziati e ambientalisti pronosticavano se non avessimo arrestato l'incremento dell'effetto serra, come dovrebbe agire qualsiasi essere pensante e dotato di istinto di sopravvivenza? Pensavano ai soldi e alla carriera i passeggeri del Titanic che andava a fondo?

Preparate le scialuppe, cari signori, perché tutti i vostri soldi non vi rendono invulnerabili e, anche se foste tanti Nembo Kid, il riscaldamento globale è la kriptonite che vi annienterà, se non cerchiamo tutti di fermarlo.

Quanto agli "ambientalisti da salotto" del ministro Salvini, bisogna che qualcuno lo informi che non sono gli ambientalisti a frequentare i cosiddetti "Salotti" dove si trama e si intessono relazioni proficue. Noi ambientalisti siamo gente comune, che lavora in genere almeno otto ore al giorno, e dedica il suo tempo libero a cercare di salvare il pianeta a beneficio di tutti, anche dei ministri e dei loro figli e dei figli di imprenditori forestali e persino dei figli e nipotini di imprenditori mafiosi. Siamo (e parlo di quelli che conosco personalmente nella piccola realtà di paese dove vivo) contadini e contadine, commesse di piccoli supermercati, operai e operaie agricole, operai di piccole industrie, impiegati, un medico, qualche pensionato, una insegnante. Gente così.

Abbiamo anche noi un salotto o un salottino ma devo dire che li usiamo poco. Quando ci ritroviamo per una riunione a casa di qualcuno di noi, preferiamo sederci intorno al tavolo di cucina, perché ci permette di stare vicini, di consumare più agevolmente un caffè o una tisana o un bicchiere di vino (biologici e il caffè equo e solidale, bisogna precisare a chi non sa), di prendere qualche appunto se necessario. Paghiamo di tasca nostra, noi ambientalisti piudicucinachedisalotto, la stampa dei volantini e dei manifesti e locandine che facciamo per le nostre iniziative, e dunque non abbiamo tante risorse.

Tuttavia, noi ambientalisti piudicucinachedisalotto, coi nostri scarsi mezzi, siamo evidentemente un osso duro da masticare per speculatori e arraffatori, e sono certa che dopo questo disastro saremo un osso ancora più duro, sul quale si spezzeranno i denti. 

venerdì 9 novembre 2018

L'uguaglianza nell'ignoranza

Un’elevata ricchezza nazionale non è sinonimo di una elevata uguaglianza. Anche nei paesi più ricchi del mondo esiste un’inequità educativa. Anche nei quarantuno paesi ad alto e medio reddito membri dell’OCSE o dell’UE. Per fattori che sono fuori dal controllo dei bambini - visto che alcune cause possono risalire a prima della loro nascita - i quali, per questo, partono svantaggiati.

Per esempio, per la condizione economica famigliare che genera disparità che si manifestano presto e che tendono a persistere. Anche il genere e il luogo di nascita possono essere determinanti quali fonti di disuguaglianza, comprese (o escluse) le politiche e le pratiche del sistema educativo che, volendo, possono assumere un ruolo di livellamento tra le condizioni di partenza dei bambini o accentuarne le diversità (quando, addirittura, non crearne di nuove).

E’ il caso di Lettonia e della Lituania – i paesi più poveri fra quelli presi in considerazione dal Report Card 15 di Unicef, Partire svantaggiati – che si distinguono per l’accesso pressoché universale all’apprendimento prescolare e riescono a contenere le disuguaglianze delle prestazioni degli studenti più efficacemente rispetto a paesi che dispongono di maggiori risorse. Come, a esempio, Australia, Nuova Zelanda e Slovacchia che occupano la parte più bassa della classifica contro Finlandia e Portogallo che hanno i sistemi educativi più equi.

Però, se i nuclei familiari hanno un reddito basso, i bambini sopra i tre anni hanno meno probabilità di frequentare la scuola dell’infanzia, passaggio fondamentale per conseguire risultati duraturi nel percorso scolastico futuro. Fase che potrebbe essere preclusa, anche, ai bambini abitanti nelle zone rurali per l’assenza prossima di servizi: in Polonia, infatti, vi accede meno di un bambino su due e in Croazia uno su tre. A conferma del fatto che le circostanze in cui i bambini crescono incidono sul rendimento scolastico, i dati del report indicano che le differenze nell’occupazione dei genitori spiegano fino a un terzo del divario nel rendimento dei minori in lettura: ai bambini con almeno un genitore professionista corrispondono punteggi in lettura significativamente più alti rispetto ai figli di non professionisti, dai ventotto punti in Finlandia ai sessantasei in Bulgaria.

Incidono, pure, la lingua parlata a casa - avere un genitore con un vocabolario povero mette i ragazzi in una condizione di svantaggio, indipendentemente dal contesto sociale generale della famiglia - l’ubicazione della scuola e le sue caratteristiche, vedi i metodi di selezione che vanno da valutazioni basate sull’abilità accademica o sull’affiliazione religiosa fino alla selezione economica (con l’imposizione di rette elevate): in Germania, Cile, Israele, Lituania, Nuova Zelanda, Slovacchia e Ungheria, tutto ciò influisce per almeno il 25 per cento (sulla disuguaglianza).

Anche l’Italia registra una variazione di rendimento diseguale tra istituti scolastici e, soprattutto, a livello della scuola secondaria (rispetto alla primaria) e laddove gli studenti sono suddivisi in gruppi diversi all’interno dei plessi o frequentano istituti diversi in base al rendimento, quelli provenienti da famiglie meno privilegiate tendono a essere sovrarappresentati nei percorsi di livello inferiore, che offrono meno opportunità per il futuro.

giovedì 8 novembre 2018

Povertà in Italia: lo stato dell’arte

Nel quadro del confronto sulla manovra per il 2019, le promesse del M5s in relazione all’introduzione del reddito di cittadinanza hanno contribuito a riaccendere i riflettori sul tema della povertà. Nonostante la (timida) ripresa economica, l’incidenza della povertà più severa non solo non si è ridotta nel nostro Paese, ma è in aumento. Secondo i dati diffusi dall’Istat a fine giugno, le persone in povertà assoluta -coloro che non hanno risorse sufficienti per acquistare un paniere di beni e servizi ritenuto essenziale, tenendo conto della composizione del nucleo familiare e del costo della vita nell’area di residenza- hanno superato i 5 milioni, il dato più alto registrato da metà anni Duemila, quando sono iniziate le rilevazioni.
L’incidenza nel 2017 è stata infatti dell’8,4%, con 3,3 milioni di persone in più rispetto allo scenario pre-crisi. Sebbene via sia forte variabilità fra gli Stati, la povertà è un fenomeno che riguarda anche gli altri Paesi dell’Unione europea, con indicatori sensibilmente in crescita durante gli anni della crisi.
Non a caso, la lotta alla povertà, e più in generale il contrasto all’esclusione sociale, è stata posta fra i principali obiettivi che l’Unione europea si era data nel 2010 per il decennio in corso. Attraverso la Strategia “Europa 2020” (Eu2020), l’Ue si proponeva infatti di favorire una crescita che fosse al contempo “intelligente, sostenibile e inclusiva”, integrando cinque diversi obiettivi, in materia di occupazione, ricerca e sviluppo, cambiamenti climatici ed efficienza energetica, istruzione e contrasto alla povertà.
Su quest’ultimo fronte, l’impegno era di ridurre di almeno 20 milioni il numero di persone in situazione di povertà o esclusione sociale entro il 2020. Come illustrato nel volume “Fighting Poverty and Social Exclusion in the EU. A Chance in Europe 2020” (Matteo Jessoula e Ilaria Madama, 2018, London/New York: Routledge), a due anni dal termine della strategia, in uno scenario ancora segnato dalle conseguenze della Grande recessione e dalla crisi dell’euro, l’obiettivo appare sempre più lontano.
Dal 2008, anno di riferimento su cui valutare i progressi, le persone a rischio povertà ed esclusione sociale anziché diminuire sono aumentate. Il picco negativo si è raggiunto nel 2012, con oltre 123 milioni (24,8%). I dati più recenti segnalano un lieve miglioramento, ma restano oltre 118 milioni di persone (23,5%) in condizione di povertà o esclusione sociale nell’Ue, circa 800mila individui in più rispetto al 2008.
1.208.000 i bambini e i ragazzi fino a 17 anni che vivono in condizioni di grave indigenza in Italia, con un’incidenza quasi quadruplicatasi nell’ultimo decennio (12.1% nel 2017, 3.1% nel 2007)
Nel quadro della strategia Eu2020, l’Italia si era impegnata a contribuire al target comune con una riduzione di 2,2 milioni delle persone a rischio povertà o esclusione sociale, obiettivo decisamente fuori portata se si considera che nel 2016 -in controtendenza rispetto al dato europeo- il numero di persone in tale condizione ha raggiunto la soglia più alta (18,1 milioni, pari al 30%), per poi ridursi leggermente nel 2017 (17,4 milioni). Con circa 2,4 milioni in più, anziché in meno, rispetto al 2008, il trend appare dunque opposto a quello atteso e sperato. Dal 1 luglio è in vigore il nuovo Reddito di Inclusione (REI), una misura volta a garantire sostegno economico alle persone in condizione di povertà severa, associata a progetti di inclusione. Sebbene ancora sotto-finanziato e perfettibile, il REI rappresenta la riforma più rilevante e promettente in questo ambito nella storia del nostro Paese. Un impegno sul fronte del contrasto alla povertà dovrebbe partire da una riflessione su come rafforzare ciò che faticosamente è stato, da poco, messo in campo.

mercoledì 7 novembre 2018

Mentre arriva il 5G, un libro spiega come difendersi dall’elettrosmog

La compagnia assicurativa Lloyd’s di Londra esclude coperture per danni alla salute umana derivati dall’irradiazione elettromagnetica da radiofrequenze/microonde emesse da smartphone, smart meter, wi-fi e sistemi wireless usati in abitazioni, scuole e uffici. Così pure la Swiss Re, la famosa compagnia svizzera di assicurazione, che in un rapporto di 37 pagine sostiene già dal lontano 1996 come “i ricercatori hanno già trovato troppe evidenze scientifiche e quindi non si possono ignorare i rischi per la salute legati all’esposizione a Radiofrequenze/Microonde”. E che in Italia c’è il primo caso al mondo di una sentenza passata in giudicato (Cassazione 2012) sul nesso causale telefonino=cancro, lo sapevate? E che sono centinaia e centinaia gli studi medico-scientifici validati che attestano effetti biologici da irradiazione elettromagnetica?
Una mole enorme di autorevoli studi, infatti, evidenzia il rischio d’insorgenza tumori, malattie neurodegenerative come Azheimer e SLA (Sclerosi laterale amiotrofica), alterazioni del sistema immunitario e cardiocircolatorio, disturbi cognitivi della memoria e dell’apprendimento, insonnia, alterata attività cerebrale ed elettrosensibilità, l’invisibile malattia dell’Era Elettromagnetica che colpisce sempre più persone anche in Italia.
Se tutto questo ancora non lo sapete e con disinvoltura continuate a ritenete innocue le strumentazioni tecnologiche che vi circondano, fareste bene a leggere il nuovo libro d’inchiesta del giornalista Maurizio Martucci, autore del “Manuale di autodifesa per elettrosensibili, come sopravvivere all’elettrosmog di Smartphone, Wi-Fi e antenne di telefonia mobile. Mentre arrivano 5G e Wi-Fi dallo spazio” (Terra Nuova Edizioni), tanto più che nell’imminente arrivo del 5G, dal 2019 saremo immersi da un vero e proprio tsunami di microonde millimetriche con milioni di mini-antenne posizionate sui lampioni della luce LED riconvertiti in wireless.
I Governi ignorano gli appelli precauzionali della comunità medico-scientifica, mentre la tecnologia corre più velocemente della ricerca, costretta al rimorchio tra gli insidiosi conflitti d’interesse che spesso macchiano l’onorabilità degli organismi sanitari mondiali che, invece di nascondere il pericolo, senza tentennare dovrebbero difendere la salute pubblica dallo spauracchio elettrosmog. E’ questo il cuore delle pagine di Martucci, il primo libro italiano che, investigando su un tema scivoloso, tenta di far luce sull’estrema attualità Smart, l’intelligenza artificiale di quinta generazione spesso macchiato che sembra partire con evidenti zone grigie e ambiguità, considerato l’impressionante business che muove le telecomunicazioni.
“Ma la salute viene prima di tutto”, afferma l’autore nelle sue pagine ricche di dati, ricerche e studi che, a fronte dell’impennata di casi tumori e malattie neurodegenerative, meritano un’urgente riesame, visto che proprio nel 2019 l’Organizzazione Mondiale della Sanità potrebbe rivedere la classificazione delle cancerogenesi dell’elettrosmog.
Nel libro “Manuale di autodifesa per elettrosensibili” c’è il racconto dello strazio patito dagli ammalati di elettrosensibilità, persone che attraverso un meccanismo metabolico tipo allergico, non riescono a sopportare l’irradiazione dei campi elettromagnetici nemmeno a bassissima intensità. Oltre i malati, i più esposti al rischio sono poi i bambini e il Moby Kids (come spiega il libro sul più grande studio al mondo sui tumori in età pediatrico-adolescenziale) sarà chiamato a far luce sui troppi casi di patologie di minori che potrebbero avere un legame con l’esposizione elettromagnetica.

martedì 6 novembre 2018

L’Italia e l’eurozona si scoprono fragili

Indice manifatturiero ai minimi da 46 mesi, sotto la soglia dei 50 punti che rimarca espansione o recessione, crescita nulla del Pil nel terzo trimestre, forte calo degli ordinativi interni. L’Italia, che ha puntato sul modello tedesco basato sul mercantilismo a bassi salari dove l’unica valvola di sfogo è l’export, si riscopre nuovamente fragile.
Ecco come inquadra la questione Carlo Bonomi di Assolombarda ieri su La Repubblica: “In Germania gli ordinativi sono in forte calo, e per la manifattura italiana, che ha intrecci produttivi strettissimi con le filiere industriali tedesche, è una pessima notizia. La domanda estera è in forte calo, quella interna non è mai di fatto ripartita”. Il classico pianto del subfornitore italiano.
Ecco che l’Italia, che ha costruito negli ultimi 25 anni, a seguito dello smantellamento degli oligopoli pubblici, una vasta rete di subfornitura italiana al servizio dei colossi tedeschi e che ha puntato dal 2011 sulla domanda estera massacrando quella interna, si scopre senza appigli, senza uno sfogo di domanda pagante a cui aggrapparsi.
Ma è l’intera eurozona che è messa così: il rapporto domanda estera/pil della zona euro è pari al 44%, in Usa al 18,4%, in Cina al 17,8%. L’eurozona è senza domanda interna, avendola massacrata da Maastricht in poi, e di cui in questi giorni si “festeggiano” i 25 anni.
In un’editoriale apparso ieri su Milano Finanza dal titolo L’italia nel pantano, l’economista Guido Salerno Aletta così inquadra la questione: “Alla lunga, il conflitto sui dazi intrapreso dagli Usa nei confronti della Cina nono potrà non riguardare anche l’eurozona, che concorre ampiamente al deficit americano. Puntare ancora sulla crescita trainata dalle esportazioni nei confronti degli Usa o anche verso la Cina, potrebbe rivelarsi un errore strategico: una volta incorporate le tecnologie di punta occidentali, dopo aver comprato per anni macchinari per accelerare lo sviluppo produttivo, la Cina tenderà a sviluppare il mercato interno limitando le importazioni alle sole materie prime energetiche, ai minerali e ai prodotti agricoli e alimentari. L’import cinese dall’Europa verrebbe fortemente ridimensionato, soprattutto nel settori della meccanica e dell’auto. Anche in un eventuale appeasement commerciale tra Usa e Cina. il ruolo dell’Europa sarebbe marginalizzato”.
In futuro vince chi ha la domanda interna. L’Europa costruita da Maastricht non ce l’ha più da tempo.
Non si tratta di governi, è proprio il modello che è privo di razionalità. Il modello del mercantilismo adottato in Italia ha comportato negli ultimi 25 anni la marginalizzazione del meridione, la scomparsa del ruolo trainante di Roma e un nord in balia dei venti industriali del nord Europa, a sua volta dipendente della domanda mondiale.
E’ così scomparsa la domanda interna europea e italiana. si sono moltiplicati i marginalizzati del mercato capitalistico, più che domanda pagante salariata. E da che mondo è mondo il modo di produzione capitalistico ha necessità di domanda pagante. Per qualche decennio la si è trovata fuori dal contesto europeo, ma nel frattempo non pochi paesi si sono industrializzati.
E così il modello tedesco scopre le corde. Ma a rimanere impigliati saranno i salariati europei, ancora una volta.

lunedì 5 novembre 2018

La povertà in Italia. Ciò che deve preoccupare è quella “relativa

Il dibattito e le misure sulla povertà in Italia sono falsate da un dato che è diventato fisiologico ormai dagli anni ‘80. Era il 1983 quando come Radio Proletaria conducemmo una prima inchiesta sulla nuova povertà nel nostro paese, intuendo che si stava consolidando uno “zoccolo duro” di persone imbrigliate in una marginalità di cui non si intravedevano vie d’uscita senza un forte intervento pubblico, soprattutto nel Meridione e nelle realtà metropolitane più che nelle province.
Questo zoccolo duro è cresciuto con il manifestarsi dell’immigrazione alla fine degli anni ‘80 (prima era fenomeno limitatissimo relativo a immigrati filippini, maghrebini e capoverdiani) ma si è sostanzialmente mantenuto quantitativamente limitato, anche dentro una struttura sociale “a due/terzi” (con il corpaccione centrale rappresentato dai ceti medi) poi demolita dalla fortissima polarizzazione sociale avviata dagli anni ’90 con le misure liberiste e antipopolari imposte dal Trattato di Maastricht.

L’Istat ha diffuso pochi mesi fa una nota nella quale di conferma come la povertà assoluta coinvolga cinque milioni di persone su una popolazione di sessanta milioni. Ma, giustamente, nella stessa nota si segnala come la povertà relativa sia cresciuta molto di più di quella assoluta coinvolgendo 9milioni e 368mila persone. La prima (quella assoluta) è aumentata dello 0,6% nel 2017 rispetto al 2016; la seconda è aumentata dell’1,7% -tre volte tanto – rispetto al 2016, e tra questi “poveri” ci sono soprattutto “operai ed assimilati” e disoccupati (tra cui si assiste ad un aumento del 6% della povertà rispetto al 2016). Il dato comune a tutte le penalizzazioni sono i nuclei familiari numerosi.
E’ evidente il nesso tra l’aumento della povertà relativa e, ad esempio, i bassi e bassissimi salari dovuti alla sterminata platea di contratti di lavoro precari. Si lavora ma si percepisca una retribuzione talmente bassa che tiene anche i lavoratori e le lavoratrici inchiodate dentro la fascia di povertà.
Qualche settimana in televisione, una giornalista anche brava, segnalava come l’eventuale reddito di cittadinanza sarebbe stato di poco inferiore allo stipendio di una cassiere o di un banchista della grande distribuzione. Purtroppo non ha colto che lo scandalo doveva essere gridato non sulla quantità del reddito di cittadinanza quanto sull’infamia delle vergognose e bassissime retribuzioni di chi già lavora. Introdurre infatti un reddito sociale minimo per i disoccupati (cosa diversa dal reddito di cittadinanza messo in cantiere dal governo), indubbiamente sarebbe uno strumento di pressione e di cessazione del ricatto dei padroni sui bassissimi salari con cui oggi retribuiscono le loro lavoratrici e lavoratori. Ed è sulla rottura di questo meccanismo di ricatto che va ragionata una seria proposta di reddito sociale minimo da introdurre nel paese.
Il dato che dunque va preso di petto, è sì la povertà assoluta rispetto al quale le prestazioni sociali messe in campo non offrono alcuna possibilità di fuoriuscita, ma al centro dello scontro politico va messo l’aumento della povertà relativa, perché questo è l’indicatore più netto e drammatico del boom delle disuguaglianze sociali, dell’aumento dei working poor e di una polarizzazione sociale che sta producendo danni sociali enormi. E su questo terreno non è solo un problema di welfare, è un cambio di rotta sui meccanismi della totale deregulation del mercato del lavoro realizzati dal 1998 a oggi (dal pacchetto Treu alla Legge Biagi al Jobs Act).


Qui di seguito ripubblichiamo il report diffuso a giugno dall’Istat sulla povertà in Italia:
Le stime diffuse in questo report si riferiscono a due distinte misure della povertà: assoluta e relativa, che derivano da due diverse definizioni e sono elaborate con metodologie diverse, utilizzando i dati dell’indagine campionaria sulle spese per consumi delle famiglie.
Nel 2017 si stimano in povertà assoluta 1 milione e 778 mila famiglie residenti in cui vivono 5 milioni e 58 mila individui; rispetto al 2016 la povertà assoluta cresce in termini sia di famiglie sia di individui.
L’incidenza di povertà assoluta è pari al 6,9% per le famiglie (da 6,3% nel 2016) e all’8,4% per gli individui (da 7,9%). Due decimi di punto della crescita rispetto al 2016 sia per le famiglie sia per gli individui si devono all’inflazione registrata nel 2017. Entrambi i valori sono i più alti della serie storica, che prende avvio dal 2005.
Nel 2017 l’incidenza della povertà assoluta fra i minori permane elevata e pari al 12,1% (1 milione 208 mila, 12,5% nel 2016); si attesta quindi al 10,5% tra le famiglie dove è presente almeno un figlio minore, rimanendo molto diffusa tra quelle con tre o più figli minori (20,9%).
L’incidenza della povertà assoluta aumenta prevalentemente nel Mezzogiorno sia per le famiglie (da 8,5% del 2016 al 10,3%) sia per gli individui (da 9,8% a 11,4%), soprattutto per il peggioramento registrato nei comuni Centro di area metropolitana (da 5,8% a 10,1%) e nei comuni più piccoli fino a 50mila abitanti (da 7,8% del 2016 a 9,8%). La povertà aumenta anche nei centri e nelle periferie delle aree metropolitane del Nord.
L’incidenza della povertà assoluta diminuisce all’aumentare dell’età della persona di riferimento. Il valore minimo, pari a 4,6%, si registra infatti tra le famiglie con persona di riferimento ultra sessantaquattrenne, quello massimo tra le famiglie con persona di riferimento sotto i 35 anni (9,6%).
A testimonianza del ruolo centrale del lavoro e della posizione professionale, la povertà assoluta diminuisce tra gli occupati (sia dipendenti sia indipendenti) e aumenta tra i non occupati; nelle famiglie con persona di riferimento operaio, l’incidenza della povertà assoluta (11,8%) è più che doppia rispetto a quella delle famiglie con persona di riferimento ritirata dal lavoro (4,2%).
Cresce rispetto al 2016 l’incidenza della povertà assoluta per le famiglie con persona di riferimento che ha conseguito al massimo la licenza elementare: dall’8,2% del 2016 si porta al 10,7%. Le famiglie con persona di riferimento almeno diplomata, mostrano valori dell’incidenza molto più contenuti, pari al 3,6%.
Anche la povertà relativa cresce rispetto al 2016. Nel 2017 riguarda 3 milioni 171 mila famiglie residenti (12,3%, contro 10,6% nel 2016), e 9 milioni 368 mila individui (15,6% contro 14,0% dell’anno precedente).
Come la povertà assoluta, la povertà relativa è più diffusa tra le famiglie con 4 componenti (19,8%) o 5 componenti e più (30,2%), soprattutto tra quelle giovani: raggiunge il 16,3% se la persona di riferimento è un under35, mentre scende al 10,0% nel caso di un ultra sessantaquattrenne.
L’incidenza di povertà relativa si mantiene elevata per le famiglie di operai e assimilati (19,5%) e per quelle con persona di riferimento in cerca di occupazione (37,0%), queste ultime in peggioramento rispetto al 31,0% del 2016.
Si confermano le difficoltà per le famiglie di soli stranieri: l’incidenza raggiunge il 34,5%, con forti differenziazioni sul territorio (29,3% al Centro, 59,6% nel Mezzogiorno).