L’incarico a Mario Draghi ha sparigliato le carte della politica italiana, costringendo tutti a un riposizionamento complicato e rapidissimo. L’idea di fondo era semplice e drastica: mettiamo un pezzo da novanta, capace di fare da interfaccia con tutti quei poteri sovranazionali che ci dettano la linea, e azzeriamo la vecchia classe politica, incapace di pensare prima di aprire bocca.
In fondo Draghi è uno dei principali “pensatori” del capitalismo multinazionale, in grado di essere ascoltato con attenzione e rispetto a Washington, Bruxelles e Berlino, mentre “i politici” da quelle parti sollevano soltanto sorrisetti di compatimento.
Per essere ancora più espliciti, facciamo una maggioranza “totale”, da cui teniamo fuori – con il loro consenso – soltanto i fascisti al seguito della Meloni e casomai Fratoianni senza più colleghi. L’”opposizione” formalmente resta, ma tutti i partiti “seri” stanno dentro il solco “europeista”, pro-austerità e a favore della ristrutturazione economico-sociale del Paese.
Il funzionamento del piano è però concretamente un po’ più complicato. Per quanto esclusi dai ministeri-chiave per la gestione del Recovery Fund, quei partiti inutili debbono comunque disegnarsi una ragion d’essere che tenga insieme il voto per Draghi e la differenza rispetto ai “colleghi”. E dunque sono obbligati ad usare i ministeri che hanno avuto come rampa di lancio per un protagonismo di secondo piano, su questioni ritenute a Palazzo Chigi “non essenziali”.
Il caso degli impianti invernali diventa “dirompente” – sui media di regime, non certo nella realtà del Paese – solo a causa di quella necessità di “distinguersi” pur stando in un governo di secondo livello, con zero possibilità decisionali.
Il problema è però che questo strepitio di cornacchie rischia – a breve termine – di far percepire questo esecutivo come “il solito” governo da trent’anni a questa parte.
E dunque pone l’”angosciante quesito” se Draghi faccia bene a tacere o se non sarebbe meglio una sua “precisazione” su quello o altri problemi che già si vano delineando. Se, per dare consigli di comunicazione a Draghi, sono arrivati a scomodare persino Casalino (sfruttando la sua ansia di promuovere un “libro di memorie”), si vede che il problema dev’essere davvero “grave”. Cioè risibile.
Delle
istituzioni serie si usa dire che “parlano attraverso gli atti”, ossia
che il loro pensiero va derivato dalle decisioni che prendono. Al
massimo, visto che siamo nella società della comunicazione, si possono
fare delle conferenze stampa di accompagnamento delle decisioni, in cui
sgomberare il campo dagli equivoci (pochi) e dalle incomprensioni
(molte, stante il basso livello del giornalista medio). Ma prima si
lavora, poi si parla.
Dunque Draghi parlerà intanto domani e giovedì, ripetendo due volte il discorso con cui chiederà al Parlamento la fiducia. Le indiscrezioni del mainstream più “draghista” (Repubblica e Corriere, naturalmente) danno per assodato un discorso “breve”.
Giustamente, più vengono tenute coperte le carte, meno problemi si sollevano. In fondo, quali “riforme” andranno messe in cantiere, e che di tipo, secondo quanto “ci chiede l’Europa” anche con le condizionalità del Recovery Fund, sono note a tutto il circuito mediatico e partitico. Meglio dare soltanto “i titoli”, senza dilungarsi nei dettagli. Perché tanto l’approvazione parlamentare, su quei temi, va data ormai a scatola chiusa. In quella materia, questi ridicoli partitucoli, non possono e debbono dire più niente.
Tacendo e facendo, insomma, Draghi e la sua squad di tecnici evitano di diventare come gli altri componenti dell’esecutivo, avanzi di nomenklatura riesumata col manuale Cencelli.
Questo però non cancella i rischi. Dal punto di vista della “comunicazione oggettiva”, ministri che si randellano reciprocamente in pubblico – nello stile da osteria abituale da quelle parti – finiscono per restituire l’idea che non molto sia cambiato rispetto a prima di Draghi.
I “risultati” delle decisioni strategiche si vedranno a lungo termine – non certo da qui all’estate – e con tutta probabilità saranno alquanto impopolari; mentre su tutte le questioni immediate, come la gestione della pandemia e la campagna vaccinale, il caos resta la cifra fondamentale.
Ma se il “protagonismo elettorale” dei partitucoli dovesse prendere il sopravvento – e con le amministrative nelle prime cinque città italiane non è affatto da escludere – diventerà poi alquanto difficile far risaltare “i risultati” ascrivibili allo stesso Draghi.
E si potrebbe arrivare a capire che “gestire i mercati”, fondati su attese razionali di profitto, è più semplice che controllare le dinamiche e gli interessi sparsi di un Paese senza più baricentro.
Non va infatti dimenticato che quegli orrendi partitucoli – tutti, dal Pd alla Lega, dai Cinque Stelle ai berluscones (chi l’avrebbe mai detto, al governo insieme) – rappresentano frazioni diverse della borghesia “nazionale”, quelle senza proiezione e visione internazionale.
Quelle
che hanno fin qui annacquato le scelte miranti alla “ristrutturazione”
economico-sociale, spezzettandosi e ricomponendosi cento volte in
diverse configurazioni politiche. Alcune di quelle frazioni, nella
ristrutturazione, dovranno essere semi-eliminate. E lo sanno. E urlano “fate fuori lui, non me!“.
O pensate che quella prevalenza di “settentrionali” nel governo sia soltanto un caso curioso?
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