La crisi del modo di produzione capitalistico è un fatto acclarato. Allo stesso tempo lo è la sempre più aspra competizione che genera tra i tre maggiori blocchi politico-economici: USA, UE e Cina.
Questa crisi è stata aggravata dalle conseguenze particolarmente rilevanti della Pandemia a causa dell’incapacità strutturale di affrontarla da parte di due sistemi sociali come quello statunitense e quello “europeo”.
Se la crisi è un tratto comune a tutti gli attori dell’attuale economia-mondo, differenti sono le risposte che si stanno attuando per superarla.
Va detto subito che la Cina sembra essere la potenza più attrezzata per superare le storture relative a quegli aspetti della propria economia, che aveva in parte mutuato dal modello di sviluppo del capitalismo occidentale.
USA e UE ricorrono invece a formule che sembrano destinate a generare maggiori mali di quelli che si vorrebbero curare, con ricette solo parzialmente di rottura.
Partiamo dalla semplice considerazione del fallimento empirico delle soluzioni proposte dopo la crisi innescata dai mutui “sub-prime”, poco meno di quindici anni fa o, come afferma l’autore dell’articolo che abbiamo qui tradotto:
“Nel decennio successivo a quella crisi, l’economia statunitense, insieme a quasi tutte le altre economie avanzate, non è riuscita a tornare sul percorso della produzione pre-crisi.”
La pandemia poi ha reso evidente che le oligarchie statunitensi ed europee non sono andate oltre alla logica del cane che si mangia la coda.
“Convivere con il virus” per non contrarre ulteriormente l’economia e stare al passo con gli altri competitor, oltre ad una strage di vite umane, non ha minimamente fermato la corsa verso l’abisso di sistemi economici già stressati ma ha senz’altro avviato un ciclo di ristrutturazione su amplissima scala, dai ritmi piuttosto scadenzati in un ampia gamma di settori.
Noi ci troviamo quindi dentro questo ciclo di ristrutturazione del capitale monopolistico per il rilancio dell’economia nella fase post-pandemica, in un passaggio di fase che comunque vada ri-configurerà la società nel suo complesso, compresa quella cosa chiamata politica.
Lo vediamo anche nel nostro ridotto nazionale, dove la crisi politica che ha portato alla fine del Conte-bis ha aperto la strada al commissariamento di fatto del nostro Paese da parte della UE con Draghi, che sarà prima capo dell’esecutivo e poi Presidente della Repubblica, ed tutto il ceto politico costretto ad un aut-aut secco: o mangi questa minestra, o salti dalla finestra.
La fine della transizione politica in USA ed il commissariamento del nostro Paese sono due fenomeni contemporanei ed in parte intrecciati.
Per focalizzarci sugli USA, che è l’oggetto dell’articolo qui tradotto, è necessario chiarire subito che le formule adottate da Biden sono in netta continuità con le politiche fin qui perseguite attraverso indebitamento, immissione di liquidità ed un costo del denaro irrisorio.
Per essere realizzate, il dollaro dovrà essere in grado di conservare la sua rendita di posizione internazionale, scaricando i costi dello sperato rilancio economico USA – che ha importanti aspetti di sviluppo in settori strategici dell’economia – sul resto del mondo, mantenendo inalterata l’appetibilità dei propri mercati finanziari e dei propri differenti titoli pubblici.
Intanto ha proceduto ad una manovra di stimolo economico con dimensioni da New Deal che, se si sommano i provvedimenti presi dalla precedente amministrazione Trump e dell’entrante Biden, ammontano addirittura al 14% del PIL. La differenza sta appunto nell’ordine di grandezza.
Il dibattito economico è acceso, e l’unica paura dei pezzi da Novanta del pensiero economico sembra essere la possibile crescita dell’inflazione. Uno spauracchio per chi ha fin qui sostenuto la deflazione salariale senza se e senza ma e quindi il contenimento del potere d’acquisto delle classi subalterne, surrogato da un maggiore accesso al credito su cui si costruivano i castelli di carta dell’economia finanziaria.
L’Unione Europea sembra seguire a rimorchio, costretta a fare salti in avanti epocali per cercare di reggere la competizione, senza avere però né la rendita di posizione della valuta statunitense, né la sua potenza militare, né tanto meno i livelli di centralizzazione del potere politico. Dispone però comunque di alcuni punti di forza.
Deve adeguarsi ed in fretta ed impedire che le sue fragilità strutturali diventino il ventre molle in cui i competitor affondano i propri artigli.
Riprendiamo il discorso del Financial Times.
“Tra coloro che guardano con invidia oltre l’Atlantico ci sono gli europei, che temono che l’eurozona sarà ancora una volta inferiore agli Stati Uniti in termini di azione politica e risultati. Erik Nielsen, capo economista di UniCredit, afferma che con il sostegno fiscale dell’UE pari a circa la metà di quello degli Stati Uniti, l’Europa è ora ‘congelata dalla paura’, il che probabilmente porterà a ‘altri tre o cinque anni di sotto-performance della crescita europea rispetto agli Stati Uniti'”.
L’UE tutta dovrebbe quindi fare un salto di qualità – whatever it takes, potremmo dire – pena il fatto che le oligarchie europee vengano derubricate ad attori regionali in conflitto con altre potenze regionali (Turchia, Russia e petromonarchie del Golfo) nei suoi tradizionali territori di penetrazione, dal Medio-Oriente all’Africa trans-sahariana passando per i Balcani, ma rinunciando ad assumere un qualche ruolo di leadership globale ed una reale autonomia strategica.
Una potenza periferica a livello sub-regionale, insomma, che i concorrenti si mangiano pezzo dopo pezzo; una specie di Impero Ottomano del XXI Secolo.
“Se continua lungo le linee esistenti e non segue gli Stati Uniti, dice: ‘L’Europa avrà una ripetizione della lenta ripresa dopo la crisi finanziaria'”, afferma Robin Brooks.
Senza comprendere questo “grande gioco” a cui l’aspirante polo imperialista europeo è chiamato in un clima da nuova guerra fredda, è impossibile capire sia 1) le convulsioni di un vecchio ceto politico da rottamare, che 2) l’urgenza della sfida della rappresentanza politica per le classi sociali subalterne ed il ceto medio-impoverito.
Sinceramente, come diceva qualcuno, tutto il resto è noia.
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L’enorme scommessa di Biden, le conseguenze economiche dell’“agire in grande”
La strategia di Biden per l’economia statunitense è la più radicale virata dalle precedenti politiche dalle riforme di liberalizzazione del mercato di Ronald Reagan, quarant’anni fa. Con piani per prestiti pubblici e un regime di spesa su una scala mai vista dopo la Seconda Guerra Mondiale, l’amministrazione sta portando avanti un enorme esperimento fiscale. Il mondo intero sta a guardare.
Se i piani di recupero dal coronavirus di Biden funzioneranno, dimostreranno che è possibile “ricostruire meglio” dopo la pandemia e che le economie avanzate sono state troppo ossessionate dall’inflazione negli ultimi 30 anni. Riporterà i governi al cuore di una gestione economica giorno per giorno.
Se il piano funzionerà, mostrerà che l’inutile timidezza negli ultimi decenni ha fatto sì che milioni di persone siano rimaste disoccupate senza motivo, molte opportunità per migliorare la qualità della vita siano state lasciate cadere e hanno contribuito ad ampliare le disuguaglianze.
Se la strategia fallisce, finirà con un’altissima inflazione, l’instabilità finanziaria, e l’economia tornerà ai livelli degli anni 70.
L’esperimento Usa del 2021 sarà ricordato come uno dei più grandi obiettivi di politica economica dopo la fallita “reflazione” di François Mitterrand, in Francia, nel 1981.
I prestiti e i piani di spesa per 1.9 trilioni di dollari di Biden non sono stati sognati nelle università, ma sono il risultato di un delicato equilibrio politico in un congresso diviso. Qualsiasi nuova cifra di stimolo di molto inferiore a quella prevista, pari al 9 per cento del PIL, rischia di far perdere più voti ai Democratici di quanti ne guadagnerebbero i Repubblicani.
“Questo è ciò che si può fare quando c’è una maggioranza sottile come il filo di un rasoio“, afferma il professor Kenneth Rogoff dell’Università di Harvard.
La nuova amministrazione sostiene che il piano di stimolo è un’estensione dell’'”economia ad alta pressione” sostenuta da Janet Yellen nel 2016, quando presiedeva la Federal Reserve, che fu la risposta alla ripresa debole dopo la crisi finanziaria.
L’amministrazione ritiene che questo sia il modo migliore per garantire un pieno recupero dalla crisi del Covid-19, con poche cicatrici durature. Ora, con Yellen come Segretaria al Tesoro, “agire in grande” è il nuovo slogan e l’establishment della politica economica statunitense è d’accordo.
Jay Powell, l’attuale presidente della Fed, ha sottolineato la scorsa settimana la necessità di una politica monetaria “pazientemente accomodante“, segnalando che la banca centrale degli Stati Uniti non è dell’umore giusto per “chiudere il bar” alzando i tassi di interesse prima che la festa inizi.
Aspettative di crescita
I piani hanno lasciato gli analisti economici in imbarazzo. Il FMI e l’OCSE hanno raccomandato una politica fiscale più flessibile per aiutare la ripresa, ma finora non nella scala pianificata dagli Stati Uniti.
Le previsioni apartitiche del Congressional Budget Office, che nelle ultime previsioni includevano solo lo stimolo finale di Trump, si aspettavano già che l’economia statunitense crescesse abbastanza velocemente quest’anno, per riguadagnare il livello di produzione pre-pandemia entro l’estate.
Si prevedeva inoltre che l’economia statunitense recuperasse tutto il terreno perso dalla pandemia di Covid-19 entro il 2025, senza cicatrici permanenti. Se i piani di stimolo dell’ex presidente Donald Trump fossero sufficienti per recuperare il terreno perduto, la domanda è: cosa otterrà uno stimolo aggiuntivo del 9 per cento del reddito nazionale?
Il CBO non ha ancora espresso il suo punto di vista, ma gli accademici e gli economisti del settore privato stanno prendendo sempre più una posizione. Consensus Economics riporta positivamente che i analisti indipendenti hanno aumentato le loro aspettative di crescita economica degli Stati Uniti per il 2021 e il 2022, con giusto un po’ di inflazione aggiuntiva.
Ellen Zentner, economista capo di Morgan Stanley, sostiene che l’economia ad alta pressione aumenterà la produzione statunitense entro la fine del prossimo anno di quasi il 3% al di sopra del livello che aveva stabilito prima della crisi del coronavirus. Presume che la Fed non cercherà di frenare i rapidi tassi di crescita.
Il contrasto con la crisi finanziaria del 2008-2009 è sorprendente. Nel decennio successivo a quella crisi, l’economia statunitense, insieme a quasi tutte le altre economie avanzate, non è riuscita a tornare sul percorso della produzione pre-crisi.
Nelle stanze dell’accademia, la vasta scala dell’esperimento statunitense è vista molto più controversa e ha creato cambiamenti nelle alleanze all’interno della professione economica, che pochi avrebbero potuto prevedere anche un mese fa.
Non c’è da stupirsi che Paul Krugman, premio Nobel per l’economia, abbia sostenuto il piano Biden, sostenendo che c’erano solo prove deboli per la teoria secondo cui i bassi tassi di disoccupazione aumentano i salari e quindi l’inflazione. Questa visione, ha detto, era “per lo più sbagliata“, portando la politica a essere eccessivamente “vincolata dalla paura di una ripetizione degli anni ’70“.
Ma il suo sostegno al piano Biden è eguagliato quasi altrettanto pienamente da Rogoff, diventato famoso durante la crisi finanziaria globale per aver avvertito dei pericoli degli alti livelli di debito pubblico. Dice “oggi siamo in un mondo diverso“, con tassi di interesse molto più bassi e una politica fortemente partigiana.
“Sono molto solidale con quello che sta facendo Biden“, aggiunge Rogoff, anche se c’era un costo a lungo termine per il debito pubblico aggiuntivo e un rischio di maggiore inflazione. “Sì, c’è qualche rischio di instabilità economica lungo la strada, ma ora abbiamo instabilità politica“.
Voci scettiche
Tra coloro che guardano con invidia oltre l’Atlantico ci sono gli europei, che temono che l’eurozona sarà ancora una volta inferiore agli Stati Uniti in termini di azione politica e risultati.
Erik Nielsen, capo economista di UniCredit, afferma che con il sostegno fiscale dell’UE pari a circa la metà di quello degli Stati Uniti, l’Europa è ora “congelata dalla paura“, il che probabilmente porterà a “altri tre o cinque anni di sotto-performance della crescita europea rispetto agli Stati Uniti”.
Dall’altra parte della discussione sono allineati diversi economisti, che finora sono stati i più accesi sostenitori del prestito e della spesa pubblica. Larry Summers, ex segretario al Tesoro che è stato uno dei principali consiglieri economici di Barack Obama all’indomani della crisi finanziaria, ha trascorso gran parte dell’ultimo decennio a mettere in guardia sulla “stagnazione secolare“, l’opinione che le economie avanzate fossero bloccate in un stallo semi-permanente e avessero dunque bisogno di più stimoli.
Ma ora che lo stimolo è sulle carte, ha avvertito che ci si è spinti troppo oltre e si rischia di innescare “pressioni inflazionistiche di un tipo che non vediamo da una generazione“, che limiterebbero anche lo “spazio per investimenti pubblici profondamente importanti“.
Olivier Blanchard, ex capo economista del FMI, che ha acceso il dibattito sugli stimoli fiscali globali nel 2019 con il suo discorso presidenziale all’American Economics Association, accetta di essere noto per essere a favore di un debito pubblico più elevato. Tuttavia, avverte che il programma di Biden “da 1,9 trilioni di dollari potrebbe surriscaldare l’economia in modo così grave da essere controproducente“.
Alcuni economisti temono che queste voci scettiche dissuaderanno l’Europa dall’adottare lo stimolo fiscale che ritengono necessario per riprendersi completamente dalla pandemia.
Adam Posen, capo del Peterson Institute for International Economics, teme che i “conservatori” del fisco in Europa coglieranno qualsiasi aumento dell’inflazione o segnali di spreco nel programma. “La fornitura di buoni risultati non genera la stessa ondata di un avvertimento prudente“, afferma. “Non vorrei che [il piano Biden] si facesse una cattiva reputazione all’estero“.
I sostenitori del piano, soprattutto quelli che lo guardano da una prospettiva internazionale, hanno lavorato duramente per giustificare la portata dello stimolo fiscale.
Il nucleo dell’argomento per “diventare grandi” è la prova vista nell’ultimo decennio, che i paesi hanno molto più spazio per la crescita economica e la disoccupazione più bassa prima che ci sia qualsiasi pressione inflazionistica.
Negli Stati Uniti, il tasso di disoccupazione è sceso al 3,5 per cento all’inizio del 2020 prima della pandemia, il minimo degli ultimi 50 anni, senza alcun segno di aumento dell’inflazione.
La Banca centrale europea ha lottato per mantenere l’inflazione vicino al suo obiettivo del 2%, portando molti a pensare che ci sia stato uno stimolo fiscale insufficiente. Ciò suggerisce che gli economisti e i responsabili politici hanno costantemente sottovalutato l’output gap, il concetto economico che stima il grado in cui le economie funzionano al di sotto di un livello che manterrebbe l’inflazione stabile.
Robin Brooks, capo economista presso l’Institute of International Finance, che rappresenta le più grandi istituzioni finanziarie del mondo, ha condotto una campagna su ciò che chiama gli “output gap senza senso“, specialmente nell’Europa meridionale, stimati dall’FMI e da altri.
Secondo lui, c’è sempre stato più spazio per politiche fiscali espansive senza inflazione e le stime sul basso output gap hanno impedito la crescita e la prosperità, minando ulteriormente le finanze pubbliche dei paesi.
“I divari in uscita sono un fattore chiave per stabilire se e quanto surriscaldamento dell’economia potremmo ottenere“, afferma. Sebbene ritenga che il dibattito negli Stati Uniti sul surriscaldamento sia appropriato, l’Europa può permettersi molti più stimoli senza inflazione. Se continua lungo le linee esistenti e non segue gli Stati Uniti, dice: “L’Europa avrà una ripetizione della lenta ripresa dopo la crisi finanziaria“.
Oltre alla possibilità di più ampi output gap, un altro argomento in favore di un grande finanziamento in deficit è che la spesa pubblica, in particolare per i progetti di investimento, può essa stessa aumentare la velocità delle economie prima che generino inflazione.
Se il piano Biden dimostrerà di aver generato tassi di crescita futuri più alti e più “verdi”, quello sarebbe il Santo Graal dell’intervento del governo, afferma Mariana Mazzucato, professoressa di economia all’University College di Londra. Se è fatto bene, dice, “ci sono enormi vantaggi disponibili“.
“Non stai solo inondando il sistema di liquidità, ma stai raggiungendo l’economia reale e creando una base industriale più forte“, afferma. “Questo è il tipo di cose che vogliamo vedere: espandere la capacità e prevenire l’inflazione“.
Gli argomenti a favore del piano di stimolo Biden non sono contestati dalla maggior parte di coloro che hanno espresso preoccupazione, ma considerano la sua dimensione fino al 14 per cento del prodotto interno lordo, comprendendo anche lo stimolo previsto da Trump a dicembre, semplicemente ingiustificata; e che potrebbe minare l’argomento per l’utilizzo della politica fiscale per aiutare le economie a riprendersi dalla pandemia.
Jason Furman, ex presidente del consiglio dei consulenti economici di Obama, afferma che la nuova amministrazione è del tutto giustificata nel cercare di testare il livello dell’output gap e un livello potenziale del PIL che non generi inflazione. “L’idea di testare il potenziale anno dopo anno, gettando legna nel fuoco, è incredibilmente avvincente, ma non è la stessa cosa che spendere oltre il 10% del PIL in un anno“, afferma.
Pochi si preoccuperebbero di un aumento dell’inflazione al 3% o anche temporaneamente un po’ più alto, aggiunge, ma la Fed dovrebbe reagire se si verificasse un periodo di inflazione prolungato.
Un pericolo citato da molti economisti è che se l’inflazione si radica in un’economia può essere difficile e dolorosa da sradicare, con le banche centrali che devono aumentare i tassi di interesse e causare recessione e disoccupazione per riportarla al ribasso.
Se Krugman ha ragione sul fatto che il legame tra disoccupazione e inflazione si è indebolito, c’è il timore che qualsiasi azione della banca centrale per abbassare l’inflazione richiederà molta più disoccupazione rispetto agli anni ’80 e ’90 per abbatterla.
Scarsamente mirato
Mentre un po’ di inflazione è certamente visto come un vantaggio della riforma, perché contribuisce a ingrassare le ruote di un’economia moderna, c’è anche un dibattito sul fatto se l’inflazione sia, in ogni caso, in procinto di aumentare.
Manoj Pradhan, fondatore di Talking Heads Macroeconomics, è preoccupato che le dinamiche inflazionistiche a breve termine del piano Biden si combinino con pressioni al rialzo a lungo termine sui prezzi che proverranno da una popolazione che invecchia, consuma di più e produce di meno.
“Anche prima [che Biden annunciasse il suo piano], gli Stati Uniti sembravano comunque un paese con inflazione“, dice Pradhan. E ciò che accade negli Stati Uniti tende ad essere esportato, aggiunge. “La politica fiscale ha guidato lo stimolo e se l’inflazione diventa accettabile negli Stati Uniti, dà il via libera al resto del mondo“.
Economisti di tutte le convinzioni temono anche che il piano Biden, con la sua forte enfasi sull’invio di assegni alle famiglie, sia scarsamente mirato e non così focalizzato sul miglioramento del potenziale di crescita futura come vorrebbero.
Randall Kroszner, ex governatore della Federal Reserve e ora vice decano della business school dell’Università di Chicago, dice che il pesante stimolo fiscale in risposta alla pandemia è appropriato, ma il debito creato ha un costo.
“Deve essere ripagato dalle generazioni future, quindi è molto importante assicurarsi che ci sia un ritorno a quella spesa“, dice.
Se ciò non fosse già abbastanza difficile, altri avvertono che l’Europa non può semplicemente imitare ciò che l’America sta facendo, in parte perché non ha lo stesso accesso ai finanziamenti, in parte perché c’è più scetticismo sul fatto che sia possibile semplicemente “ricostruire meglio” attraverso prestiti e spesa.
Robert Chote, il capo dell’Ufficio per la responsabilità di bilancio del Regno Unito, recentemente scomparso, affermava che le prospettive per la politica fiscale al di fuori degli Stati Uniti si concentreranno probabilmente meno sul dibattito sugli stimoli e più “sulla gravità di qualsiasi sfregio a lungo termine dell’economia – che è difficile da stimare con una certa sicurezza”.
Aggiunge che le finanze pubbliche sono più complicate del solo pensare agli stimoli. I governi, ad esempio, dovrebbero presto considerare di aumentare le tasse, soprattutto se “sentono il bisogno di spendere una quota permanentemente maggiore del reddito nazionale per l’assistenza sanitaria e sociale dopo la pandemia rispetto a prima, per costruire più resilienza nel sistema“. Queste questioni di finanza pubblica strutturale non scompariranno facilmente una volta che le economie si saranno riprese.
Per ora, tuttavia, tutti gli occhi sono puntati sull’enorme numero di stimoli provenienti dagli Stati Uniti. Il nuovo governo ha in programma di fare prestiti e spendere e Yellen ha invitato il resto del G7 a seguire l’esempio. Come dice Rogoff, è probabile che l’esperimento sia globale. “Se va male per gli Stati Uniti, va male per tutti.“
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