Ogni giorno ha la sua pena, anche nel lavoro giornalistico. Quella di oggi è districarsi nel reticolo delle infinite supposizioni su “cosa farà Draghi”. Come avvertiva ieri il nostro giornale, il modo migliore di non capirci nulla è cercare di indovinare seguendo il chiacchiericcio dei talk show, da 30 esperti di gossip politico ma a digiuno dei fondamentali. Sia della politica che dell’economia.
I titoli di oggi, sui quotidiani mainstream, rendono bene l’idea. Il Corriere della Sera prova a fare la sua anticipazione, garantendo di avere “fonti” ben addentro al giro di consultazioni (banalmente: le delegazioni entrate ieri e qualche portavoce in vena di “narrazioni”): “Draghi, i cinque punti per il rilancio”.
Quelli di Fiat-Repubblica, che lavorano esattamente nello stesso modo, fa una sintesi numerica diversa: “Draghi, subito tre riforme per rispondere all’Europa”. Si vede che a Molinari sta a cuore ricordare la dipendenza assoluta di questo esecutivo da Bruxelles. Non a torto, del resto…
L’altrettanto Fiat-La Stampa riduce a soltanto due i nodi centrali, “Istruzione e fisco, l’agenda Draghi”.
Il Giornale è sulla stessa linea, con un più sobrio “Il piano di Draghi”. Mentre l’altrettanto destrorso Libero prova a interpretare l’oggi con gli occhiali di ieri, o di “ricondurre l’ignoto al noto”, buttandola sull’orgia politica cui sono abituati gli italici: “Draghi assediato dai postulanti. Vince chi leccherà di più”.
Un po’ più furbo, almeno, Il Foglio, che avverte come stia cambiando lo scenario; “Lo show di un reset chiamato Draghi”. Un reset, un ricominciare da capo, da altre basi.
Il cul de sac grillino è ben sintetizzato infine da Il Fatto Quotidiano, che già piange per la constatazione che le manette non saranno più il criterio base per definire bene e male: “Torni la prescrizione, aboliamo Bonafede”. Che è forse l’unica buona notizia della nuova era…
La domanda “cosa farà Draghi”, nel concreto, resta come si vede inevasa. O perlomeno la risposta viene annegata in qualche dettaglio, senza respiro e senza visione. Come del resto sono da sempre la piccola classe politica italiana e l’ancor più infima “classe giornalistica” che l’accompagna ogni giorno.
Per questo, alla fine di questo articolo, vi proponiamo la traduzione dell’intervista data da Mario Draghi al ben più serio Financial Times quasi un anno fa (il 25 marzo). In quel momento “il monarca” che dovrà governarci per i prossimi otto anni – salvo sorprese di cui la Storia è sempre ricca – era un privato cittadino, ed espone “quel che va fatto” in tutta Europa (di conseguenza, anche in Italia, con le dovute differenze).
Come si può leggere da soli, è un programma molto impegnativo e sicuramente al di sopra del livello del dibattito nelle redazioni italiche.
Non è un programma classicamente “lacrime e sangue”, come magari in quei giorni passava per la testa al “collega” Jens Weidmann, alla guida della Bundebank tedesca.
La logica è molto più selettiva. Ciò che è morto – settori produttivi, imprese zombie, e lavoratori al seguito – va abbandonato a se stesso. Ma va soprattutto fatto “debito pubblico buono” per sostenere le imprese dei settori innovativi. Che hanno il pregio di assicurare sviluppo e ottimi profitti, anche se con il difetto di occupare relativamente poco personale.
Non manca la preoccupazione per la coesione sociale, perché ci si rende conto che masse sterminate di disoccupati – specie in paesi come l’Italia, con importanti “imprese illegali” come mafia, camorra, ‘ndrangheta – possono diventare un problema difficile da gestire.
Per quello, come detto in altre occasioni, secondo lui si deve andare – dunque si andrà, una volta varato l’esecutivo – verso il “modello tedesco”, quello disegnato dalle leggi Hartz IV. Niente sussidi, ma “piccolo salario” per mini-job da accettare obbligatoriamente. Pena la fame assoluta.
Ma sarebbe riduttivo comunque anche limitarsi a indicare il prossimo governo Draghi come una tecnocrazia che farà gli interessi delle imprese (non tutte, come detto) e precarizzerà ulteriormente il mercato del lavoro.
L’ex presidente della Bce ha dimostrato diverse volte di essere in grado di tirar fuori diversi conigli dal suo cappello (primo fra tutti il quantitative easing che “ha salvato l’euro”, alla faccia dell’opposizione di Weidmann e Schaeuble), e quindi è salutare attendersi qualche “sorpresa”. Abbiamo a che fare con un “pragmatico”, non con un ideologo…
Quello che proprio non bisogna attendersi è “qualcosa di keynesiano”. Ossia delle politiche di sostegno alla domanda, che implicano una capacità di spesa – e dunque reddito disponibile – per le classi popolari.
La logica strategica che Draghi descrive nella sua intervista a FT, infatti, è una logica di ristrutturazione del modello produttivo e sociale su scala europea. La parte che toccherà all’Italia, e alle sue varie classi, è stata pensata in quel quadro.
E’ un progetto strategico che cala dall’alto, che cerca ovviamente “complici” a livello nazionale (sia tra le imprese che nella “politica”), ma che non è “mediabile”. Ciò che resta dei partiti dopo il loro definitivo fallimento nel corrispondere a quel compito non è in condizioni di “contrattare” nulla. Perché l’unica alternativa che potrebbero opporre – far fallire il governo Draghi, facendogli mancare la maggioranza pressoché unanime del Parlamento – sarebbe una catastrofe organizzata dai “mercati”: spread a 600 punti in pochi giorni, fuga di capitali, sanzioni da Bruxelles, impossibilità di finanziarsi, ecc.
Per capire ancora meglio la qualità e la dimensione del “quadro strategico” cui Draghi & co. vanno collaborando è bene riguardarsi un’altra intervista, quella al ministro dell’economia francese Bruno Le Maire, che definisce l’insieme come un progetto di Impero europeo.
Sembra scontato – ma non lo è per chi si abbevera ai talk show – che la “provincia italiana”, per quanto indispensabile, viste le dimensioni economiche, di know how e di popolazione, non sarà il “cuore pensate” dell’Impero in costruzione. E neanche lo sarà per i suoi “sudditi”.
Anche questo lo spiega chiaramente un economista “non ortodosso” di alto livello come Yanis Varoufakis, che con Draghi ha incorociato più volte il ferro nei pochi mesi incui è stato ministro dell’economia per la Grecia. In un’intervista a Radio Popolare (un’emittente ormai di “area Pd”) ha probabilmente shokkato la redazione con giudizi assai poco lusinghieri sul nuovo premier.
“Draghi è al servizio dell’ordine finanziario, penso che ogni democratico in Italia debba opporsi al suo governo”. Un giudizio fondato su atti, non una critica ideologia, perché “Ricordo bene quando Draghi (all’epoca presidente della Bce, ndr) fu decisivo nella chiusura dei bancomat in Grecia, così da impedire che il popolo greco decidesse liberamente nel referendum in cui si decideva la posizione da tenere nei confronti di Bruxelles”.
Varoufakis riconosce che è “tecnicamente molto capace”, pronto ad adattarsi alle circostanze avverse: “ha mostrato grandi capacità di capire cosa va bene e cosa no nella logica del servizio all’ordine finanziario e all’establishment”.
Ma proprio per questo “è il premier ideale per l’Italia, se quello che voi veramente volete è implementare le politiche di Bruxelles e Berlino”.
Non confortante neanche il suo giudizio sul Recovery Fund, agiograficamente descritto dai media come un nuovo “piano Marshall”: “Non è altro che un pacchetto di debiti”, finalizzati a finanziare quella maxi-ristrutturazione continentale di cui sopra.
In sintesi, “Indubbiamente Draghi è intelligente e molto competente, molto bravo a raggiungere i suoi obiettivi. La grande tragedia del popolo italiano è che i suoi obiettivi sono nemici degli interessi della grande maggioranza degli italiani”.
E “la grande maggioranza” di un popolo, com’è noto, è fatta di lavoratori, pensionati, disoccupati, precari, studenti, ecc.
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“Siamo in guerra contro il coronavirus, dobbiamo agire di conseguenza”
25 marzo 2020
La pandemia del coronavirus è una tragedia umana di proporzioni potenzialmente bibliche. Oggi molti temono per la loro vita o piangono i loro cari scomparsi. Le misure varate dai governi per impedire il collasso delle strutture sanitarie sono state coraggiose e necessarie, e meritano tutto il nostro sostegno.
Ma queste azioni sono accompagnate da un costo economico elevatissimo, e inevitabile. E se molti temono la perdita della vita, molti di più dovranno affrontare la perdita dei mezzi di sostentamento.
L’economia lancia segnali preoccupanti giorno dopo giorno. Le aziende di ogni settore devono far fronte alla perdita di introiti, e molte di esse stanno già riducendo la loro operatività e licenziando i lavoratori. Una profonda recessione è inevitabile.
La sfida che ci si pone davanti è come intervenire con la necessaria forza e rapidità per impedire che la recessione si trasformi in una depressione duratura, resa ancor più grave da un’infinità di fallimenti che causeranno danni irreversibili.
È ormai chiaro che la nostra reazione porterà un ulteriore aumento importante del debito pubblico.
La perdita di reddito a cui va incontro il settore privato, e l’indebitamento necessario per colmare il divario, dovrà prima o poi essere assorbita, interamente o in parte, dal bilancio dello Stato e quindi dai cittadini .
Livelli molto più alti di debito pubblico diventeranno una caratteristica permanente delle nostre economie e dovranno essere accompagnati dalla cancellazione del debito privato.
Il ruolo appropriato dello Stato sta nel mettere in campo il suo bilancio per proteggere i cittadini e l’economia contro scossoni di cui il settore privato non ha alcuna colpa, e che non è in grado di assorbire.
Tutti gli stati hanno fatto ricorso a questa strategia nell’affrontare le emergenze nazionali. Le guerre, il più significativo precedente della crisi in atto, si finanziavano attingendo al debito pubblico. Durante la prima guerra mondiale, in Italia e in Germania solo una quota fra il 6 e il 15% delle spese militari in termini reali fu finanziata dalle tasse, mentre nell’Impero austro-ungarico, in Russia e in Francia, i costi correnti del conflitto non furono finanziati affatto dalle entrate fiscali.
Ma inevitabilmente, in tutti i paesi, la base fiscale venne drammaticamente indebolita dai danni provocati dalla guerra e dall’arruolamento. Oggi, ciò è causato dalle sofferenze umane per la pandemia e dalla chiusura forzosa delle attività economiche.
La questione chiave non è il se, ma come lo Stato debba utilizzare al meglio il suo bilancio. La priorità non è solo fornire un reddito di base a tutti coloro che hanno perso il lavoro, ma innanzitutto tutelare i lavoratori dalla perdita del lavoro.
Se non agiremo in questo senso, usciremo da questa crisi con tassi e capacità di occupazione ridotti, mentre famiglie e aziende riusciranno a fatica a rimettere in sesto i loro bilanci e a ricostruire il loro attivo netto.
Il sostegno all’occupazione e alla disoccupazione e il posticipo delle imposte rappresentano passi importanti che sono già stati introdotti da molti governi. Ma per proteggere l’occupazione e la capacità produttiva in un periodo di grave perdita di reddito è indispensabile introdurre un sostegno immediato alla liquidità.
Questo è essenziale per consentire a tutte le aziende di coprire i loro costi operativi durante la crisi, che si tratti di multinazionali o di piccole e medie imprese, oppure di imprenditori autonomi.
Molti governi hanno già introdotto misure idonee a incanalare la liquidità verso le aziende in difficoltà. Tuttavia, si rende necessario un approccio su scala assai più vasta.
Pur disponendo i diversi paesi europei di strutture industriali e finanziarie proprie, l’unica strada efficace per raggiungere ogni piega dell’economia è quella di mobilitare in ogni modo l’intero sistema finanziario:
il mercato obbligazionario, soprattutto per le società finanziarie più grandi, e per tutti gli altri le reti bancarie, e in alcuni paesi anche il sistema postale. Ma questo intervento va fatto immediatamente, evitando le lungaggini burocratiche. Le banche, in particolare, raggiungono ogni angolo del sistema economico e sono in grado di creare liquidità all’istante, concedendo scoperti oppure agevolando le aperture di credito.
Le banche devono prestare rapidamente a costo zero alle aziende disponibili a salvaguardare i posti di lavoro. E poiché in questo modo esse si trasformano in vettori degli interventi pubblici, il capitale necessario per portare a termine il loro compito sarà fornito dal governo, sotto forma di garanzie di stato su prestiti e scoperti aggiuntivi.
Regolamenti e normative collaterali non dovranno ostacolare in nessun modo la creazione delle opportunità necessarie a questo scopo nei bilanci bancari. Inoltre, il costo di queste garanzie non dovrà essere calcolato sul rischio creditizio dell’azienda che le riceve, ma dovrà essere pari a zero, a prescindere dal costo del finanziamento del governo che le emette.“<span style=”font-family: Liberation Serif, serif;”><span style=”font-size: large;”><b>
Le aziende, dal canto loro, non preleveranno questa liquidità di sostegno semplicemente perché i prestiti sono a buon mercato. In alcuni casi, pensiamo alle aziende con ordini inevasi, le perdite potrebbero essere recuperabili e a quel punto le aziende saranno in grado di ripianare i debiti. In altri settori, questo probabilmente non sarà possibile.
Tali aziende forse saranno in grado di assorbire la crisi per un breve periodo di tempo e indebitarsi ulteriormente per mantenere salvi i posti di lavoro. Tuttavia, le perdite accumulate potrebbero mettere a repentaglio la loro capacità di successivi investimenti. E se la pandemia e la chiusura delle attività economiche dovessero protrarsi, queste aziende resterebbero attive, realisticamente, solo se i debiti contratti per mantenere i livelli occupazionali durante quel periodo verranno alla fine cancellati.
O i governi risarciranno i debitori per le spese sostenute, oppure questi debitori falliranno, e la garanzia verrà onorata dal governo. Se si riuscirà a contenere il “rischio morale”, la prima soluzione è quella migliore per l’economia. La seconda appare meno onerosa per i conti dello stato.
In entrambi i casi, tuttavia, il governo sarà costretto ad assorbire una larga quota della perdita di reddito causato dalla chiusura delle attività economiche, se si vorrà proteggere occupazione e capacità produttiva.
I livelli di debito pubblico dovranno essere incrementati.
Ma l’alternativa – la distruzione permanente della capacità produttiva, e pertanto della base fiscale – sarebbe molto più dannosa per l’economia e, in ultima analisi, per la fiducia nel governo.
Dobbiamo inoltre ricordare che in base ai tassi di interesse presenti e probabilmente futuri, l’aumento previsto del debito pubblico non andrà a sommarsi ai suoi costi di gestione.
Per alcuni aspetti, l’Europa è ben attrezzata per affrontare questo shock fuori del comune, in quanto dispone di una struttura finanziaria capillare, capace di convogliare finanziamenti verso ogni angolo dell’economia, a seconda delle necessità.
L’Europa dispone inoltre di un forte settore pubblico, in grado di coordinare una rapida risposta a livello normativo e la rapidità sarà assolutamente cruciale per garantire l’efficacia delle sue azioni.
Davanti a circostanze imprevedibili, per affrontare questa crisi occorre un cambio di mentalità, come accade in tempo di guerra. Gli sconvolgimenti che stiamo affrontando non sono ciclici. La perdita di reddito non è colpa di coloro che ne sono vittima. E il costo dell’esitazione potrebbe essere fatale. Il ricordo delle sofferenze degli europei negli anni Venti ci sia di avvertimento.
La velocità del tracollo dei bilanci delle aziende private, provocate da una chiusura economica al contempo doverosa e inevitabile, dovrà essere contrastata con pari celerità dal dispiegamento degli interventi del governo, dalla mobilitazione delle banche e, in quanto europei, dal sostegno reciproco per quella che è innegabilmente una causa comune.
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