Abbiamo
dovuto aspettare lunghi mesi, è vero. Ci sono stati momenti di
sconforto, perché i Paesi cattivi e frugali del nord Europa sembravano
poter mettere a repentaglio il sogno di un Europa solidale e benevola.
Ma poi, proprio quando sembrava tutto finito, quando la speranza si
stava affievolendo anche nei più ben disposti, ecco il colpo di scena.
L’Europa s’è desta. O no?
Abbiamo
tutti letto, nella settimana appena trascorsa, cronache entusiaste,
storie di riscatto, racconti di fiumi di denaro in arrivo, mezzi di
informazione – o presunti tali – che già iniziavano a fare i conti su
come spenderlo.
La realtà dei fatti, purtroppo, è anche questa volta drammaticamente diversa. Proviamo a fare un po’ di ordine.
Il 27 maggio la presidentessa della Commissione Europea, Ursula von der Leyen, ha finalmente annunciato la proposta per il rilancio delle economie europee colpite dalla crisi da COVID-19, il tante volte vagheggiato Recovery fund, ora rinominato Next Generation EU.
Si tratterebbe di un programma temporaneo e transitorio – che, a scanso
di equivoci, si trova ancora ad uno stadio di proposta scritta su un
pezzo di carta – e che passerà ora al vaglio del Parlamento e del
Consiglio Europeo, invitati ad esaminare la proposta per poter
raggiungere un eventuale accordo entro l’estate 2020, secondo le stime
più ottimistiche.
L’ammontare
di risorse che saranno effettivamente messe in campo è ancora incerto,
poiché la misura dell’intervento sarà nei prossimi mesi oggetto di
contrattazioni serrate tra i Paesi membri. In ogni caso, nella sua
formulazione attuale, il Next Generation EU permetterebbe alla
Commissione Europea di indebitarsi sui mercati per raccogliere fino a un massimo di 750 miliardi di euro.
Di
questi, 500 dovrebbero essere trasferiti ai singoli Paesi dell’Unione a
fondo perduto, mentre i restanti 250 sotto forma di prestiti. Tali
risorse sarebbero disponibili per i Paesi membri solo a partire da
aprile 2021 e lo resterebbero fino al 31 dicembre 2024. La Commissione
si impegnerebbe poi a rimborsare i creditori, restituendo i soldi presi a
prestito nell’arco di un trentennio, tra il 2028 e il 2058.
Una
prima obiezione sorge già spontanea: la crisi economica c’è ora e non
ha intenzione di aspettare i tempi di approvazione del piano europeo.
Fino ad allora, sarebbero disponibili esclusivamente circa 11,5
miliardi di euro da dividere tra tutti i Paesi membri, da attingere
all’attuale budget europeo 2014-2020.
I
contorni della proposta non sono ancora completamente a fuoco. Secondo
stime autorevoli e semi-ufficiali, all’Italia spetterebbe una quota
sostanziosa dei teorici 750 miliardi; circa 90 miliardi sarebbero
prestiti, i restanti 80 sarebbero trasferimenti.
Per
quanto riguarda i primi, si tratterebbe di soldi che l’Italia dovrebbe
restituire direttamente alla Commissione, giovandosi però, ci raccontano
i mezzi di informazione, di robusti risparmi in termini di interessi da
pagare rispetto al raccogliere gli stessi soldi sui mercati attraverso
l’emissione di ordinario debito pubblico. A
ndando a grattare la patina della propaganda, scopriamo però che questo risparmio, secondo stime dell’economista liberista Roberto Perotti,
ammonterebbe a circa un miliardo l’anno, a fronte dei circa 70 miliardi
di euro che ogni anno il nostro Paese paga in interessi sul proprio
debito pubblico. Sempre meglio di niente, si potrebbe obiettare.
E
poi ci sono sempre gli 80 miliardi che ci verrebbero sostanzialmente
regalati, giusto? Anche qui, le cose luccicano un po’ di meno non appena
si considera che il fatto, a fronte dei teorici 80 miliardi che
riceveremmo, l’Italia apporta comunque al bilancio comunitario proprie
risorse. Siamo di nuovo su un terreno incerto e sfocato, poiché mancano
ancora dettagli ufficiali.
Il
beneficio netto, cioè la differenza tra quanto l’Italia riceverebbe e
quanto l’Italia apporta, varia a seconda di chi fa i calcoli, ma ci
muoviamo comunque tra i 32 miliardi stimati dal Fondo Algebris e i circa 20 miliardi stimati
da Perotti. Cifre da spalmare su quattro anni, provenienti da due fonti
al di sopra di ogni sospetto di euro-scetticismo, e che ammonterebbero
ad uno stimolo quantificabile in termini di zero-punto-qualcosa punti
percentuali di PIL all’anno.
Giusto per dare un termine di paragone, i sotto molti aspetti criticabili Cura Italia e Decreto Rilancio hanno messo in campo risorse equivalenti al 4% del PIL italiano.
Un quadro a tinte ancora più fosche emerge dalle simulazioni presenti in alcuni documenti ufficiali rilasciati dalla Commissione Europea (Tabella
A.1, pagina 52 del documento). Calcolando la differenza tra sussidi a
fondo perduto ricevuti – i quali sarebbero solo una parte dei miliardi
destinati all’Italia che si possono leggere nella tabella – e i
contributi versati, si rischierebbe di andare in territorio negativo.
Fin
qui le aride cifre, che purtroppo non rappresentano neanche il cuore
del problema. Nelle ore successive alla presentazione della proposta
della Commissione, il commissario all’economia Paolo Gentiloni e il
vicepresidente Valdis Dombrovskis hanno inscenato una delle pantomime
più vecchie del mondo.
Il poliziotto buono Gentiloni assicurava:
niente condizionalità, niente Troika, l’importante sarà usare i soldi
in maniera costruttiva, impegnarsi nella modernizzazione delle economie
dei Paesi membri e nella transizione verde (solo pochi giorni prima
avevamo scritto sull’uso infido delle tematiche ambientali per ridipingere di verde l’austerità).
Ma mentre tutti guardavano il dito, molti perdevano di vista la luna. Il poliziotto cattivo Dombrovskis aggiungeva infatti un tassello mancante: i fondi del Next Generation EU arriveranno sotto forma di rate, le quali saranno legate ad obiettivi e riforme che gli Stati europei dovranno dettagliare in piani annuali.
Durante
il quadriennio 2021-2024, a maggio di ogni anno, la Commissione
valuterà se i piani presentati dagli Stati membri saranno in linea con
‘le sfide individuate dal semestre europeo’. Coloro che non rispetteranno gli obiettivi prestabiliti, coloro che non faranno le riforme, non riceveranno la rata.
Gentiloni
e Dombrovskis facevano i vaghi, parlando della necessità di ‘rafforzare
crescita, resilienza e coesione’, di ‘transizione verde e digitale’. Le
parole ‘riforme’ e ‘semestre europeo’ rimanevano così sullo sfondo,
come concetti astratti e impalpabili.
Tuttavia, i documenti ufficiali della Commissione Europea non sono così astratti, ma dimostrano idee molto chiare. In una comunicazione del 26 febbraio,
la Commissione analizza ed evidenzia le criticità per ogni Paese
membro, alla luce delle famose sfide del “semestre europeo”, laddove
quest’ultimo identifica un insieme di politiche attraverso cui gli stati
membri allineano le politiche economiche e di bilancio nazionali agli
obiettivi stabiliti a livello europeo.
Quali sono quindi le riforme che il semestre europeo chiede all’Italia? Nessuna sorpresa: notando che il debito pubblico non è sceso al ritmo richiesto, la Commissione sentenzia: è necessario ‘un
processo repentino di riduzione del debito, cambiando le priorità di
spesa in maniera tale da fare spazio a investimento addizionale’.
Un
condensato perfetto di austerità alla vecchia maniera, che richiede
tagli su tagli, infarcito del mito della scarsità delle risorse, per il
quale è necessario ridurre la spesa altrove per poter fare investimenti.
E non finisce qui. Il documento individua un nemico pericoloso per le
sorti future dell’Italia nell’eccessiva spesa pensionistica, da tagliare per dimostrare di essere in linea con le raccomandazioni europee.
Niente di nuovo sotto il sole: austerità, rigore di bilancio e stretta condizionalità – nonostante quanto millantato da Gentiloni – per accedere ad ogni forma di aiuto. O si è in linea con ‘le sfide individuate dal semestre europeo’, o si perde l’accesso ai fondi del Next Generation EU.
Anche questa volta l’Europa la salviamo la prossima volta.
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