La
pubblicazione dei dati sulla pandemia relativi al 15 giugno ha
spaventato i cittadini lombardi, poiché su 303 nuovi casi dichiarati ben
259 sono stati in Lombardia, con una percentuale del 85% sul dato
nazionale. Ancor più impressionante se si considera che i tamponi
effettuati sono stati ancora una volta meno che nei giorni precedenti.
In pratica, la percentuale di casi della Lombardia diventa sempre più
importante, percentualmente, sul totale nazionale.
Cifre
che indurrebbero qualsiasi amministratore regionale di buone intenzioni
a dimettersi, e a liberare della sua presenza i dieci milioni di
abitanti della Lombardia che sono praticamente ostaggio di una giunta
tecnicamente incapace ma che soprattutto non vuole uscire dal solco
politico venticinquennale tracciato da Formigoni, Maroni e Fontana.
Fatto confermato anche dalla nomina a direttore generale della sanità
Lombarda di Marco Trivelli, già manager del periodo formigoniano, in cui
il binomio tra Comunione e Liberazione e Sanità lombarda divenne quasi
proverbiale arrivando sino a oggi. .
Le
cause della disastrosa situazione della Lombardia sono remote e anche
più recenti. Su quelle remote siamo già intervenuti più volte:
privatizzazioni, distruzione delle strutture territoriali e preventive
e, dall’inizio dell’epidemia, troppe attività produttive mai interrotte
né dal governo né dalla Regione per far piacere a Confindustria. Queste
scelte stanno rendendo il virus endemico in Lombardia e difficile
arrivare ai casi “zero”.
Tutto ciò avrebbe sconsigliato una “riapertura” della Lombardia uguale a
quella delle altre regioni, ma il potere economico ha avuto ancora il
soppravvento sulla salute dei cittadini.
A queste cause se ne aggiungono altre, più recenti, come la non
effettuazione dei test sierologici e dei tamponi. Ciò rende impossibile
tenere sotto controllo la diffusione del virus e dei nuovi casi e
qualunque attività di “tracciamento”. La campagna di test sierologici
era partita, ma è stata bloccata dalle Ats poiché, in caso di
positività, il cittadino deve sottoporsi al tampone, per il quale
mancano i reagenti. Quindi la campagna di screening sierologico è
ferma, poiché, come si è già verificato, i positivi dovrebbero restare
confinati a casa a tempo indeterminato in attesa del tampone.
Singolare
anche il caso di coloro che, avvertiti via SMS di essere stati inclusi
nel campione dei 150.000 cittadini a cui sarebbe stato effettuato il
test sierologico, non ricevono ulteriori notizie da due settimane.
Naturalmente, per chi vuole effettuare privatamente test sierologico e
tampone esistono gli immancabili laboratori privati che li offrono a
pagamento per cifre che vanno rispettivamente, da 35 a 70€ e da 70 a
110€.
Le
ragioni per le quali la Regione Lombardia non ha reagenti per i tamponi
sono almeno due. La prima è che, a differenza di altre regioni, non si è
pensato a farne una scorta adeguata nei primi momenti dell’epidemia,
quando l’assessore Gallera farneticava di “strategie diverse”, poi
rivelatesi inesistenti. A ciò consegue che oggi esiste una concorrenza
per l’acquisto dei reagenti tra pubblico e privato, che prevale
nell’accaparrarsi i reagenti poiché ha maggiore agilità decisionale,
mentre la Regione deve passare attraverso la sua Agenzia per gli
acquisti “Aria”.
Ma
soprattutto, i privati hanno la possibilità di acquistare i reagenti a
qualunque prezzo, anche alto, e quindi remunerativo per le case
farmaceutiche, scaricando poi il prezzo dell’acquisto sul singolo
paziente.
La
situazione è complicata dal sistema del “circuito chiuso”, imposto
dalle case farmaceutiche in spregio al tanto esaltato “libero mercato” e
alla “concorrenza”. Tale sistema prevede che ogni macchina per
l’effettuazione dei tamponi possa lavorare solo con i reagenti forniti
dalla casa produttrice. Dato che pubblico e privato utilizzano gli
stessi macchinari, entrano forzatamente in competizione e le case
farmaceutiche scelgono il cliente che paga di più.
Singolare
poi il caso della ditta Roche, che ha deciso di non partecipare
all’ultimo bando indetto dalla Regione Lombardia, forse ritenendolo poco
remunerativo, con il risultato che i laboratori che hanno macchine
Roche non possono effettuare tamponi. E’ il capitalismo, ragazzi.
Alla
situazione dei tamponi, si aggiunge quella dei test. E’ noto che la
regione ha scelto, a inizio aprile, di acquistare senza gara 500.000
test sierologici dalla Diasorin ancor prima che fossero validati, come
era previsto, dall’ospedale San Matteo di Pavia, che avrebbe percepito
una percentuale dell’1% sul fatturato. Il TAR ha annullato questo
accordo e ha inviato gli atti alla Corte dei Conti per un’indagine su un
possibile danno erariale.
Da
segnalare che dopo l’acquisto di quei 500.000 test, l’agenzia regionale
ha indetto una gara per l’acquisto di test sierologici attraverso la
quale si è potuto prendere atto che i test Diasorin costano oltre il
doppio di quelli prodotti da altre ditte, per cui la Regione avrebbe
potuto realizzare un risparmio significativo e realizzare più test. Per
la precisione, in quella gara la Diasorin è giunta quinta, quindi altre
quattro aziende hanno fatto proposte più convenienti.
Infine,
resta misterioso il perché la Regione Lombardia abbia escluso
totalmente la possibilità di effettuare i test rapidi, i cosiddetti
“pungi dito”. Tali test, che hanno un livello di attendibilità di poco
inferiore a quello dei test sierologici da prelievo, sono i più adatti
alla mappatura epidemiologica. Inoltre, costano poco e sono facilmente
ripetibili, quindi particolarmente adatti allo screening nelle organizzazioni e nelle scuole.
Le
altre regioni hanno acquistato a milioni tali test proprio per tenere
sotto controllo le scuole e le zone dove si presentano focolai. Non
solo, ma secondo Salvatore Cincotti, amministratore delegato della
Techogenetics, l’assessore Gallera ha rifiutato anche 20.000 test che
tale ditta avrebbe offerto gratuitamente alla regione Lombardia.
In pratica, in Lombardia, in questo momento, l’amministrazione regionale è ferma, non fa test, fa pochissimi tamponi e non fa nulla per la prevenzione.
Tutto è affidato alla buona volontà dei singoli cittadini e al loro
portafoglio, per chi può permetterselo. Il tutto nella regione più
colpita al mondo dal Covid. Peraltro, senza creare allarmismi, il fatto
che in Lombardia si continuino a verificare centinaia di casi al giorno,
è la migliore incubazione per un’eventuale ripresa violenta della
pandemia, rispetto alla quale non ci si sta preparando affatto.
La soluzione politica
del problema sarebbe, evidentemente, l’immediato commissariamento della
Regione, ma in prospettiva è necessario ripensare a tutto il ”modello
Lombardia”, letteralmente cancellando la parola “azienda” da tutto ciò
che ha a che vedere con la sanità, ma anche con la scuola e i trasporti.
E ritornando, per la sanità, a un modello unico nazionale e
non regionale, ponendo una pietra tombale sui progetti di “autonomia
differenziata”, cavallo di battaglia della Lega che tuttavia hanno anche
trovato il consenso di numerosi esponenti del PD, come un nutrito
gruppo di sindaci lombardi capeggiato dal milanese Sala e dal bergamasco
Gori o il presidente emiliano Bonaccini.
Vale
la pena ricordare che Sala e Gori votarono a favore dell’autonomia
differenziata nel referendum regionale indetto dall’allora presidente
Maroni.
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