“Un popolo di poeti, di artisti, di eroi, di santi, di pensatori, di
scienziati, di navigatori, di trasmigratori”. Questo, teoricamente
saremmo noi, italiani.
E’ giunta una nuova epoca, nella quale torniamo ad essere trasmigratori. Sebbene la stampa italiana faccia di tutto per presentare come positiva la “grande invasione” degli italiani all’estero, il nostro Paese sembra retrocesso di almeno cent’anni.
Precisamente, all’età giolittiana, quando lo statista Giovanni Giolitti, varie volte Presidente del Consiglio, sceglieva agli inizi del ‘900, per pareggiare il bilancio dello Stato un metodo del tutto originale. Incoraggiava gli italiani ad emigrare, pagava loro il passaporto, e tramite le loro rimesse, pareggiava il bilancio dello Stato. In pratica, l’Italia “grande proletaria” veniva incentivata a partire. Si legga il poemetto “Italy” di Giovanni Pascoli, per capire, seppur a grandi linee, le condizioni miserrime, povere, degradanti dei nostri antenati cent’anni fa.
Oggi come allora, lo Stato Italiano, incita, come soluzione ai problemi interni, i suoi cittadini alla fuga. Si può certamente obiettare che le condizioni siano totalmente cambiate: se prima i nostri avi scappavano per la povertà, ora il nostro Paese, dopo due guerre mondiali, si trova tra i più avanzati al mondo, e certamente non si fugge per espletare il bisogno primario della fame. E allora, cosa succede, per quale motivo siamo tornati ad essere un popolo di emigranti?
In primo luogo, lo dice l’ANSA stessa, gli emigranti attuali sono giovani. Ciò che dovrebbe essere il fiore all’occhiello, la nuova classe dirigente, non trova alcuno spazio, né per crearsi un futuro, né per avere prospettive solide per un’indipendenza. Abbiamo analizzato poco tempo fa quali cause abbiano generato il lavoro precario, da circa una ventina d’anni a questa parte. Le leggi liberiste hanno minato il tessuto sociale nel profondo. I contratti precari non garantiscono continuità lavorativa, e pertanto indipendenza dal nucleo famigliare, creazione di una famiglia, nascita di nuovi figli.
La crisi economica che ci attanaglia dal 2008 ha cancellato migliaia di posti di lavoro, in particolar modo nel nord post – industriale. L’ingresso nel mondo del lavoro di migliaia di giovani è stato talmente rapido, da esserne usciti con altrettanta celerità.
Come se non bastasse, il mondo baronale, ingrigito, gerontocratico delle Università e dei posti di ricerca (e comando) in Italia, non ha mai gradito l’accesso ai “non addetti” ai lavori. Per capirci, alcuni libri di indagini in tal senso (basti citare il Londra Italia di Enrico Franceschini, corrispondente di Repubblica) hanno rilevato la massiccia presenza di Professori e scienziati italiani all’estero, i quali sono stati costretti a fuggire da un Paese che non li ha accettati o li ha ridotti al precariato eterno.
In secundis, il cambiamento di mentalità. I media mainstream, hanno inculcato da tempo l’idea che emigrare sia una cosa di tendenza. La figura del cittadino globale, che può essere a casa propria a Roma come a Budapest, a Parigi come a Berlino, con mete imprescindibili come Barcellona e Londra sempre pronte, è stata narrata, propagandata fino allo spasmo. Il modello “Generazione Erasmus”, dello studente libero, bello e ribelle, è ciò che tuttora gli universitari italiani sognano dal primo giorno in facoltà. Poco importa se si tratta di una realtà falsa e ovattata, creata ad arte dai vari Beppe Severgnini i quali sono arrivati a scrivere addirittura che il progetto Erasmus è stata una benedizione perché l’incontro tra giovani europei aveva generato….. diversi bebé.
La grave colpa che si può attribuire ai giovani attuali è il non avere tentato di lottare in casa propria, cedendo alle lusinghe di questa falsa propaganda, secondo la quale, tentare di cambiare il proprio paese è impossibile, e allora, giocoforza, si deve emigrare. Il coraggio, le potenzialità, l’unione di determinate menti avrebbe sicuramente aiutato la nostra società, desiderosa di svecchiamento, ed invece, questi talenti sono stati assorbiti da Londra, Parigi, Berlino o qualunque altra città offrisse quelle certezze di cui i nostri giovani abbisognano(-vano).
In terzis, i Governi. Non si può, in nessun modo, ragionare in base ad un debito pubblico insaldabile, e rendere le generazioni future schiave dello stesso. I Governi hanno il dovere morale di pensare alle generazioni attuali e future. Hanno il compito di risolvere questa crisi, facendo in modo che i vari italiani fuggiti possano tornare, e mettere a disposizione il loro capitale e le loro conoscenze in questo nuovo contesto socio – economico. Non ottemperare a questo ruolo, evitare di affrontare la questione invocando la strada giolittiana di cent’anni fa, implica scenari catastrofici. Non solo per l’invecchiamento progressivo della società, composta sempre più da immigrati inseriti nel contesto in maniera forzosa e problematica. Si tratta di una auto – amputazione, rivolta però, a chi deve garantire il futuro. E fin quando i nostri giovani (e meno), saranno costretti a partire, le parole crescita, ripartenza, sviluppo, si svuotano di ogni significato. La crisi, è proprio questa.
E’ giunta una nuova epoca, nella quale torniamo ad essere trasmigratori. Sebbene la stampa italiana faccia di tutto per presentare come positiva la “grande invasione” degli italiani all’estero, il nostro Paese sembra retrocesso di almeno cent’anni.
Precisamente, all’età giolittiana, quando lo statista Giovanni Giolitti, varie volte Presidente del Consiglio, sceglieva agli inizi del ‘900, per pareggiare il bilancio dello Stato un metodo del tutto originale. Incoraggiava gli italiani ad emigrare, pagava loro il passaporto, e tramite le loro rimesse, pareggiava il bilancio dello Stato. In pratica, l’Italia “grande proletaria” veniva incentivata a partire. Si legga il poemetto “Italy” di Giovanni Pascoli, per capire, seppur a grandi linee, le condizioni miserrime, povere, degradanti dei nostri antenati cent’anni fa.
Oggi come allora, lo Stato Italiano, incita, come soluzione ai problemi interni, i suoi cittadini alla fuga. Si può certamente obiettare che le condizioni siano totalmente cambiate: se prima i nostri avi scappavano per la povertà, ora il nostro Paese, dopo due guerre mondiali, si trova tra i più avanzati al mondo, e certamente non si fugge per espletare il bisogno primario della fame. E allora, cosa succede, per quale motivo siamo tornati ad essere un popolo di emigranti?
In primo luogo, lo dice l’ANSA stessa, gli emigranti attuali sono giovani. Ciò che dovrebbe essere il fiore all’occhiello, la nuova classe dirigente, non trova alcuno spazio, né per crearsi un futuro, né per avere prospettive solide per un’indipendenza. Abbiamo analizzato poco tempo fa quali cause abbiano generato il lavoro precario, da circa una ventina d’anni a questa parte. Le leggi liberiste hanno minato il tessuto sociale nel profondo. I contratti precari non garantiscono continuità lavorativa, e pertanto indipendenza dal nucleo famigliare, creazione di una famiglia, nascita di nuovi figli.
La crisi economica che ci attanaglia dal 2008 ha cancellato migliaia di posti di lavoro, in particolar modo nel nord post – industriale. L’ingresso nel mondo del lavoro di migliaia di giovani è stato talmente rapido, da esserne usciti con altrettanta celerità.
Come se non bastasse, il mondo baronale, ingrigito, gerontocratico delle Università e dei posti di ricerca (e comando) in Italia, non ha mai gradito l’accesso ai “non addetti” ai lavori. Per capirci, alcuni libri di indagini in tal senso (basti citare il Londra Italia di Enrico Franceschini, corrispondente di Repubblica) hanno rilevato la massiccia presenza di Professori e scienziati italiani all’estero, i quali sono stati costretti a fuggire da un Paese che non li ha accettati o li ha ridotti al precariato eterno.
In secundis, il cambiamento di mentalità. I media mainstream, hanno inculcato da tempo l’idea che emigrare sia una cosa di tendenza. La figura del cittadino globale, che può essere a casa propria a Roma come a Budapest, a Parigi come a Berlino, con mete imprescindibili come Barcellona e Londra sempre pronte, è stata narrata, propagandata fino allo spasmo. Il modello “Generazione Erasmus”, dello studente libero, bello e ribelle, è ciò che tuttora gli universitari italiani sognano dal primo giorno in facoltà. Poco importa se si tratta di una realtà falsa e ovattata, creata ad arte dai vari Beppe Severgnini i quali sono arrivati a scrivere addirittura che il progetto Erasmus è stata una benedizione perché l’incontro tra giovani europei aveva generato….. diversi bebé.
La grave colpa che si può attribuire ai giovani attuali è il non avere tentato di lottare in casa propria, cedendo alle lusinghe di questa falsa propaganda, secondo la quale, tentare di cambiare il proprio paese è impossibile, e allora, giocoforza, si deve emigrare. Il coraggio, le potenzialità, l’unione di determinate menti avrebbe sicuramente aiutato la nostra società, desiderosa di svecchiamento, ed invece, questi talenti sono stati assorbiti da Londra, Parigi, Berlino o qualunque altra città offrisse quelle certezze di cui i nostri giovani abbisognano(-vano).
In terzis, i Governi. Non si può, in nessun modo, ragionare in base ad un debito pubblico insaldabile, e rendere le generazioni future schiave dello stesso. I Governi hanno il dovere morale di pensare alle generazioni attuali e future. Hanno il compito di risolvere questa crisi, facendo in modo che i vari italiani fuggiti possano tornare, e mettere a disposizione il loro capitale e le loro conoscenze in questo nuovo contesto socio – economico. Non ottemperare a questo ruolo, evitare di affrontare la questione invocando la strada giolittiana di cent’anni fa, implica scenari catastrofici. Non solo per l’invecchiamento progressivo della società, composta sempre più da immigrati inseriti nel contesto in maniera forzosa e problematica. Si tratta di una auto – amputazione, rivolta però, a chi deve garantire il futuro. E fin quando i nostri giovani (e meno), saranno costretti a partire, le parole crescita, ripartenza, sviluppo, si svuotano di ogni significato. La crisi, è proprio questa.
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