venerdì 6 maggio 2016

Re Giorgio non ha (ancora) abdicato

Il vecchio è meglio del nuovo. Sempre che il vecchio non si appollai sulla negligenza del nuovo, e non ne approfitti per trarre vantaggi tramite l’autorevolezza – spesso mal declinata in “Autorità” – dell’esperienza. Ed ammesso che il nuovo non soffra della peggiore patologia del lassismo, permettendo le peggiori turpitudini all’ingordigia mai doma del vecchio. La dialettica è presto composta, e il proscenio si infanga di menzogne e cialtronerie, nel magma di un’Italia preda dell’allucinazione dell’onnipotenza soggettiva. Quella dottrina de “L’uomo solo al comando” tanto cara ai cerimonieri del cerchiobottismo, pronti a criminalizzare e a bandire l’oppositore, a prescindere dalla bontà delle sue tesi.
Giorgio Napolitano è l’esegeta massimo della fenomenologia del mitomane, e Matteo Renzi è un diligente allievo. Le ingerenze del Giorgione nazionale nelle cronache politiche dell’ultimo anno sono la propaggine della fallacia dei contenuti che ha sfoggiato nella sua (esageratamente prolungata) carriera istituzionale. Dal costante e partigiano supporto all’esecutivo da lui indetto, alla propaganda della presidenza del semestre europeo, dove ogni singola esternazione di Renzi – a parere di Re Giorgio – si contornava di un’aurea messianica. Senza dimenticare i trascorsi al Quirinale. Napolitano è stato il detrattore principale del nazifascismo e dei consequenziali spargimenti di sangue dell’alleanza italo-tedesca del 1939, salvo poi brindare con Togliatti, nell’ottobre del ’56, sulla carneficina sovietica a Budapest; si è distinto per la rigida ed incontrovertibile agenda di sovranazionalizzazione dello Stato italiano, nonostante decenni di militanza in un partito fermamente coinvolto nella promozione della socializzazione; ha sorretto con dichiarazioni e proclami la svendita dell’autodeterminazione politica, economia, sociale, e culturale, dello Stivale, malgrado le battaglie all’americanizzazione del ’60-’70.
Sino ad arrivare alle sferzate alle questioni referendarie – passate e future -, che si interpongono fra le scipite rughe di un potere gerontocratico che non cessa di sfoggiare la sua influenza. Una sottesa forma di regime, ove un Presidente della Repubblica emerito – dall’alto della sua dannosa longevità politica – ostenta pensieri formalmente oggettivi, ma surrettiziamente filo-renziani. Nei quali il 17 aprile incentiva a boicottare la democrazia, mentre oggi, in previsione della riforma costituzionale, esorta a rispettarla, e a sostenere un Governo a cui dobbiamo il continuo appiattimento della nostra identità e il completo svuotamento della nostra sovranità. Ecco: più che formalmente emerito, intellettualmente indegno.”

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