Il marzo scorso è stato il più caldo da quando si è iniziato a
misurare la temperatura. Se ciò non bastasse nel trentennale del
disastro di Cernobyl e a poche ore dalla cerimonia di firma dell’Accordo
di Parigi, avvenuta il 22 aprile scorso, la Nasa ha informato che le
emissioni di gas serra provocheranno un aumento della temperatura oltre i
1,5 gradi, soglia più o meno definita nell’Accordo adottato alla Cop 21
del dicembre scorso.Benvenuti nell’era dell’Antropocene, una realtà di
siccità, sconvolgimenti dei cicli della Terra, perdita di terra,
biodiversità, cibo, acqua e rifugio.
Una situazione che
imporrebbe – attraverso una visione «decolonizzata» non certo
«catastrofista» – di mettersi dalla parte di chi subisce gli effetti
del climate change, considerando queste comunità e popoli non come
vittime, ma come portatori di diritti fondamentali, alla sopravvivenza
ed alla vita.Tuttavia a Parigi i governi hanno solo riconosciuto
ufficiosamente la relazione tra clima e diritti umani lasciando aperto
un fronte di lavoro ed iniziativa urgente per evitare che gli ingenti
flussi di risorse finanziarie che verranno stanziati per programmi di
adattamento e mitigazione non finiscano per aggravare ulteriormente la
già tragica situazione di milioni di persone. Basti pensare
all’espansione della palma da olio per biodiesel. O al Beccs (Bioenergy
Energy Carbon Capture and Storage), «escamotage» per aumentare la
capacità di assorbimento di carbonio della Terra coltivando biomasse per
la produzione di bioenergia con capacità di stoccaggio e cattura di
carbonio.
Il Beccs aprirebbe una nuova ondata di landgrabbing su
almeno 700 milioni di ettari di terra. Il paradigma economico di mercato
entra così nuovamente in collisione con quello basato sui diritti
umani, delle comunità e della Madre Terra.Un’incompatibilità che
caratterizzerà i prossimi anni fino al 2020 quando l’Accordo di Parigi
entrerà in vigore. Eppoi, chi implementerà gli accordi , e come? Parigi
ha sancito il ruolo centrale del Fondo Verde per il Clima (Green Climate
Fund) istituzione che assicura un ruolo cardine per imprese, banche
pubbliche e private nell’attuazione delle politiche climatiche. E tra
queste, banche quali l’Hsbc (che dal 2010 ha erogato almeno 5.4 miliardi
di dollari solo nel settore carbonifero) o istituzioni come la Banca
Mondiale. Ai paesi ed alle comunità resta il compito di disegnare la
cornice nella quale spendere tali fondi, o accontentarsi delle briciole.
Per dare un’iniezione di fiducia alla comunità internazionale,
quest’anno il Fondo spenderà circa 2,5 miliardi di dollari, con una
crescita esponenziale rispetto allo scorso anno, senza disporre di
strutture adeguate per la valutazione del possibile impatto
socio-ambientale dei progetti, né di politiche vincolanti sui diritti
umani o sul diritto alla terra. Per chi conosce la storia di una delle
più grandi Banche Multilaterali di Sviluppo, la Banca mondiale, questa
«pressione all’esborso» è stata foriera di grandi disastri e di un
altrettanto grave perdita di credibilità. Tra i prossimi progetti a
rischio del Fondo molti saranno nelle foreste tropicali o in aree
contigue. Non è un caso, visto che Parigi ha sottolineato con enfasi il
ruolo delle foreste nella mitigazione ai cambiamenti climatici, e
l’urgenza di rilanciare programmi di riduzione di emissioni da
deforestazione, e immissione nei mercati globali di certificati di
carbonio.
Così il Fondo Verde, su pressione di alcuni tra i
principali donatori quali la Norvegia, ansiosa di poter neutralizzare le
proprie emissioni da combustibili fossili, potrebbe finanziare prima
della Cop22 di Marrakech del dicembre prossimo – progetti forestali al
fine di produrre certificati di carbonio per compensare le emissioni
altrui. Evidente il rischio di alimentare nuove bolle speculative sui
mercati di carbonio, proprio quando arriva la notizia di una nuova
imminente bolla speculativa collegata alle attività di fracking e la
produzione di gas e petrolio di scisto.È questo il lato oscuro che la
vulgata mainstream sul cambiamento climatico decide di occultare o
sfumare secondo convenienza, e che i movimenti globali per la giustizia
climatica intendono portare alla luce del sole, non solo opponendosi
all’estrazione di gas e petrolio, ma anche denunciando forme di nuovo
colonialismo.
Quello del carbonio, che ridisegna geografie di
inclusione ed esclusione, decide che territori e comunità già impattate
dai cambiamenti climatici vengano subordinate agli interessi delle
imprese e dei vari Nord del mondo. La strada verso la giustizia
climatica e l’equità, il riconoscimento dei diritti dei popoli e della
Madre Terra resta lunga. L’altra, quella delle ipotetiche buone
intenzioni, rischia di portarci dritto all’inferno.
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