Il ventennale della strage di Via D’Amelio, dopo i giorni delle accuse, degli attacchi, delle delegittimazioni istituzionali ai magistrati di Palermo che conducono l’inchiesta sulla trattativa Stato-Cosa Nostra, non poteva essere “celebrato” in modo più inimmaginabile: e cioè con il decreto sul conflitto di attribuzione stilato da Napolitano nei confronti della procura palermitana.
Secondo il ministro della Giustizia si tratta del
percorso più lineare che poteva essere intrapreso dal Capo dello Stato e
di un’occasione per chiarire ed integrare da parte della Corte Costituzionale
una disciplina giuridica “lacunosa” in materia materia di
intercettazioni indirette, quando a sollevare la cornetta sia un’alta
carica dello Stato.
Può darsi che sotto il profilo tecnico ed in un’ottica di
giurisprudenza costituzionale sticto sensu, si tratti di un’occasione di
chiarimento.
Ma sotto il profilo politico e del rapporto, mai così compromesso tra
cittadini ed istituzioni, la mossa della presidenza della Repubblica,
motivata dall’intento dichiarato di tenere “la facoltà immune da qualsiasi incrinatura” nello spirito di Einaudi, suona come la rivendicazione esibita di assoluto arbitrio ed intangibilità.
L’articolo 90 della Costituzione a cui fa riferimento esplicito il decreto sul conflitto
di attribuzione tra poteri dello Stato contro il presunto abuso della
procura di Palermo, rea di non aver interrotto e/o distrutto
immediatamente le intercettazioni intercorse tra Nicola Mancino ed il Quirinale, stabilisce che “Il
presidente della Repubblica non è responsabile degli atti compiuti
nell’esercizio delle sue funzioni, tranne che per alto tradimento o per
attentato alla Costituzione”.
Sembrerebbe lecito e pertinente domandarsi se, accanto e
parallelamente alla rete di telefonate intercorse tra il consigliere
giuridico del Quirinale e Mancino tutte tese a rassicurare l’indagato per falsa testimonianza
e ad attivarsi in tal senso, anche le due dirette tra l’ex ministro ed
il presidente della Repubblica debbano essere considerate tra “gli atti compiuti nell’esercizio delle sue funzioni”.
A prescindere del fatto fondamentale che si tratta di intercettazioni “casuali ed indirette” è un delitto di lesa maestà
chiedersi se nelle funzioni del capo dello Stato, tra l’altro garante
della Costituzione e presidente dell’organo di autogoverno dei
magistrati, rientrino le cure e gli imput per tutelare un ex ministro
che da testimone stava (consapevolmente) diventando imputato per false
dichiarazioni ai Pm?
Sulla attendibilità delle dichiarazioni di Nicola Mancino si
pronunceranno i magistrati; però noi possiamo intanto
liberamente valutare secondo il nostro buon senso se quello che va
dicendo in TV o in contesti pubblici in merito alla trattativa, o come
la si voglia chiamare, ha un fondamento o una parvenza di verità.
Nicola Mancino ha ribadito che non ha incontrato privatamente Paolo Borsellino il 1 luglio
del ’92, appena insediato al Viminale, che non si sono parlati e che
comunque non lo ricorda dato che non sapeva che faccia avesse il
magistrato più famoso d’Italia, dopo Giovanni Falcone. E a seguire ha
negato di aver mai incontrato il generale Dalla Chiesa, di “essersi sempre sentito lontano dalla Sicilia” , di aver incontrato Calogero Mannino, massimo esponente siciliano della sinistra Dc di cui Mancino faceva parte, una sola una volta in Translatantico.
Senza fare esercizio spericolato di fantasia e di dietrologia è
quantomeno possibile identificare il perimetro degli argomenti che
possono aver toccato l’ex ministro ed ex potente democristiano, ora
semplice cittadino imputato, ed il Capo dello Stato nei momenti più
calienti dell’inchiesta in quelle telefonate top secret.
Se come ha rivendicato Napolitano, elevando un conflitto di
attribuzione con la magistratura, che non ha precedenti nella storia
repubblicana (altra cosa quello con il ministro della giustizia in
materia di grazia risolto con sentenza costituzionale n.200/2006), il
bene tutelato sarebbe quello di tenere “la facoltà immune da qualsiasi incrinatura”, la strada maestra era quella di lasciar “piangere il telefono” o in subordine di dare in qualche modo conto ai cittadini del contenuto di quelle conversazioni.
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