martedì 11 giugno 2019

Ballottaggi. Pari e patta tra Lega e Pd

Alla fine di questa tornata elettorale nei ballottaggi per i consigli comunali di una quindicina di capoluoghi si può parlare di un pari e patta tra “l’ondata leghista” e il “recupero” del Pd. Tra i risultati da segnalare c’è il fatto che dopo 69 anni il Pd perde il governo di Ferrara dove è stato eletto il sindaco leghista Alan Fabbri, mentre il Pd recupera il sindaco a Livorno perso cinque anni nel ballottaggio con il M5S.
La Lega, nella “rossa” Emilia-Romagna si prende anche Forlì, ma il Pd  tiene a Reggio Emilia, Cesena, e poi a Cremona, Prato, Rovigo e Verbania, Avellino (prima governato dal M5S). Il centrodestra, oltre a Ferrara e Forlì, ha vinto a Potenza (per un pelo), Ascoli Piceno, Foggia, Vercelli e Biella, queste ultime due prima governate dal centro-sinistra.
Nei comuni più piccoli la Lega e il centro-destra possono cantare vittoria in Umbria dove il Pd ha perso Orvieto e Foligno, ma si è tenuto Gubbio.
Il Movimento 5 Stelle vince a Campobasso, l’unico capoluogo in cui era riuscito ad arrivare ai ballottaggi. L’affluenza alle urne è stata al di sotto delle previsioni col 52,1%, facendo registrare un crollo del 16% rispetto al primo turno delle amministrative.
Qui di seguito una prima disamina di Franco Astengo sui dati elettorali dei ballottaggi di ieri:
Di seguito qualche prima considerazione sull’esito dei ballottaggi svoltisi il 9 giugno: i dati sono riferiti ai 16 comuni capoluogo di provincia impegnati nei comizi elettorali.
In questi sedici comuni si è verificato il successo dei candidati presentati da coalizioni di centrosinistra in 7 occasioni, altrettante sono state quelle nelle quali è risultato vittorioso un candidato presentato dalla coalizione di centrodestra, un successo per il M5S nell’unico caso in cui questo movimento era pervenuto al ballottaggio, un successo per il candidato di una lista civica.
Grande interesse era rivolto alla partecipazione al voto: come capita in queste occasioni da quando è stato introdotto il meccanismo del ballottaggio si è registrata una diminuzione nell’afflusso di elettrici ed elettori.
La flessione è stata quasi del 14%, però – rispetto ad analoghe situazioni del passato –il totale dei voti validi espressi è rimasto al di sopra del 50% dell’intero corpo elettorale. Hanno espresso, infatti, voto valido nei 16 capoluoghi presi in considerazione 617.409 elettrici ed elettori pari al 51,95% dell’intero corpo elettorale che era composto da 1.188.447 unità.
Dal punto di vista più specificatamente rivolto all’indirizzo politico dell’esito del voto si segnale una tendenziale caduta della coalizione di centro destra.
Nel primo turno, infatti, i candidati pervenuti al ballottaggio come esponenti di coalizioni di centro destra avevano raccolto 295.602 voti, nel secondo turno sono scesi a 285.657 con una flessione di 9.945 suffragi.
In crescita, invece, i candidati esponenti di coalizioni di centro sinistra: da 260.451 voti a 287.228 con una crescita di 26.777 unità.
Nell’unico comune (Campobasso) nel quale il candidato del Movimento 5 stelle era riuscito ad approdare al ballottaggio si è assistito a un raddoppio: da 8.484 voti al primo turno a 16.139 nel secondo, mentre sono anche cresciuti i candidati delle liste civiche (presenti in 2 comuni) saliti da 20.300 voti a 27.755.
Nei 7 comuni nei quali le candidature di centrosinistra hanno prevalso registriamo un aumento di voti per i candidati vincenti a Verbania, Livorno, Cremona, Rovigo e Cesena mentre i Sindaci di Reggio Emilia e Prato sono stati eletti perdendo voti tra il primo e il secondo turno.
I candidati sconfitti presentati dal centro destra hanno fatto registrare un incremento di voti a Prato, Livorno e Cesena mentre sono arretrati a Verbania, Reggio Emilia, Cremona e Rovigo
Dalla parte dei 7 successi fatti registrare dal centro destra, a parte la situazione di Biella nella quale entrambe le candidature appartenevano a quello schieramento l’unica situazione in crescita è stata Ascoli Piceno. In calo le candidature pur alla fine vincenti a Vercelli, Ferrara, Forlì, Foggia e Potenza.
Per i candidati battuti nel centro sinistra aumento a Vercelli, Ferrara, Ascoli Piceno. In diminuzione Foggia.
Già segnalato il raddoppio del M5S a Campobasso, resta da segnalare l’aumento del candidato della Lista Civica a Potenza (pur alla fine sconfitto) e il successo in crescita di una candidatura da Lista Civica ad Avellino.
Tra il 1° e il 2°turno si sono effettuati questi sorpassi: a Verbania a favore del centro sinistra, a Rovigo a favore del centro sinistra, a Campobasso a favore del M5S, ad Avellino a favore della Lista Civica.
Da segnalare, infine, il caso di Potenza: al primo turno, infatti, il candidato del centrodestra Guarente disponeva di un vantaggio sul candidato Tramutoli (Lista civica) di quasi 7.000 voti ridottisi esattamente a 200 (16.248 a 16.048) al ballottaggio.
In sostanza, dalla prima analisi del voto nei 16 comuni capoluogo, si può rilevare un minor crollo nella partecipazione al voto rispetto a quanto poteva essere prevedibile considerata anche la stagione (ricordiamo, in questo senso, passaggi nettamente inferiori al 50%), un’evidente “fatica” nella tenuta tra un turno e l’altro da parte delle coalizioni di centro destra che complessivamente perdono voti in cifra assoluta e un buon impatto, anche se limitato nella capacità di estensione numerica, da parte delle coalizioni di centrosinistra.

lunedì 10 giugno 2019

La Lega e la farsa dei Minibot (Seconda parte)

Abbiamo spiegato, nella prima parte di questo contributo, che l’introduzione di Minibot proposta dalla Lega non sortirebbe gli effetti esplicitamente millantati dai suoi promotori. Presentato come escamotage per sfuggire alle regole di finanza pubblica imposte da Bruxelles, l’eventuale pagamento dei debiti commerciali della pubblica amministrazione a mezzo di titoli di Stato di piccolo taglio porterebbe ad un aumento del debito pubblico.
Per questa semplice ragione contabile solleverebbe quindi i medesimi problemi politici che qualsiasi manovra fiscale espansiva incontra all’interno degli stringenti vincoli europei. Se la Lega volesse davvero dare uno stimolo all’economia non si preoccuperebbe di ingegnarsi con queste trovate, ma piuttosto si impegnerebbe in vere politiche fiscali espansive in barba ai trattati europei.
Eppure, intorno ai Minibot sembra muoversi molto di più di un dibattito sui ritardi nei pagamenti della pubblica amministrazione. In queste ore l’opposizione liberista al Governo prova a convincerci del fatto che quando parliamo di Minibot stiamo, in verità, parlando nientemeno che dell’uscita dell’Italia dall’euro!
Quello che sembrava un noioso dibattito sulla contabilità dei debiti commerciali nasconderebbe dunque il ‘cigno nero’, la temutissima ipotesi di abbandono della moneta unica. Una tesi audace vuole che l’obiettivo del rilancio dell’economia tramite strumenti innovativi di compensazione dei crediti commerciali sia solo uno specchietto per le allodole, e che il vero obiettivo dei Minibot sia porre le basi per la diffusione di una moneta parallela all’euro come preludio all’uscita.
Sarà vero? In quanto segue proveremo a rispondere a questa domanda sotto due punti di vista. Prima cercheremo di capire se effettivamente, cioè dal punto di vista tecnico, i Minibot creano le condizioni per l’uscita dall’euro. Poi, dopo aver chiarito che questa arma segreta dei leghisti sarebbe meno efficace di un’ampolla dell’acqua del sacro Po gettata contro i palazzi di Francoforte, ne indagheremo la dimensione politica, l’aspetto più interessante di tutta la questione.
Ma facciamo un passo indietro. La storia del “Piano B”, cioè dell’opportunità di predisporre le misure tecniche necessarie al disimpegno dall’euro nasce in tutt’altro contesto, sotto la furia della tempesta finanziaria che colpì la Grecia nel 2015, quando il popolo greco elesse una coalizione di sinistra radicale – Syriza – per fermare la rigida applicazione dell’austerità che stava letteralmente distruggendo il Paese.
Poco prima delle elezioni politiche, i vertici di Syriza incaricano il loro economista di riferimento, Yanis Varoufakis, di preparare un piano emergenziale per meglio resistere alle pressioni che la Banca Centrale Europea (BCE) e i mercati avrebbero prevedibilmente esercitato sul nascente governo di sinistra. Come riporta il quotidiano greco Kathimerini, il leader Alexīs Tsipras avrebbe chiesto a Varoufakis “di predisporre un sistema di pagamento operante in euro, ma che avrebbe potuto essere modificato nel giro di una notte per operare in dracma”, la moneta greca in circolazione prima dell’euro. Il timore che muoveva Tsipras era ben fondato, ma per capirlo dobbiamo prima spiegare cosa sia un sistema di pagamento.
L’ordinario funzionamento della nostra economia richiede la continua, rapida e sicura circolazione di quantità gigantesche di denaro, e il denaro – come le persone o le automobili – ha bisogno di strade e infrastrutture per spostarsi agevolmente da un luogo ad un altro. La circolazione del denaro contante, monete e banconote, riveste oggi un ruolo marginale, mentre i maggiori flussi di denaro che scorrono nelle vene dell’economia sono costituiti dalla cosiddetta moneta elettronica: bancomat, carte di credito, bonifici, giroconti, home banking.
Le loro strade e infrastrutture sono quindi reti informatiche complesse. Se alziamo lo sguardo dai nostri affari quotidiani e guardiamo a questi flussi dall’alto, ci rendiamo conto che il processo complessivo è mastodontico: centinaia di migliaia di bonifici e operazioni finanziarie si accumulano nei registri elettronici delle banche che, ogni giorno, si scambiano milioni di euro.
L’infrastruttura tecnica che rende questa circolazione possibile e ordinata è il sistema di pagamento, una rete interbancaria che ha il suo cuore nell’autorità monetaria – la banca centrale. Il sistema di pagamento su cui poggia la nostra economia è oggi quello comune all’area dell’euro: il sistema Target 2 cogestito da Banca d’Italia, Bundesbank e Banque de France. Ogni singola banca si poggia a questa infrastruttura per tutte le transazioni con il resto del sistema finanziario che superano un certo importo, sotto la supervisione della Banca Centrale.
Ogni giorno Target 2 regola in Europa 350.000 pagamenti corrispondenti a circa 1.700 miliardi di euro, ed ogni pagamento, in media, sposta poco meno di 5 milioni di euro in meno di 5 minuti. In Italia sono regolati 34.000 pagamenti al giorno, pari a 68 miliardi di euro che si spostano quotidianamente nel sistema finanziario nazionale per importi medi di 2 milioni di euro a transazione.
Questi numeri possono aiutarci a chiarire l’elevata complessità del processo di circolazione della moneta in un’economia avanzata, una complessità che ha indotto alla prudenza la sinistra radicale greca nel momento in cui si affacciava alle stanze del potere. Come reagire se il sistema bancario e le autorità monetarie voltano le spalle ad un governo in carica, bloccando i meccanismi di creazione e trasferimento della liquidità che regolano ogni giorno l’economia? Questo l’interrogativo, pienamente legittimo, che sembra aver mosso Tsipras e compagni nella fase di ideazione di un “Piano B”.
Quando Tsipras e Varoufakis sono passati dalle parole ai fatti, la questione è rapidamente sfuggita di mano. È lo stesso Varoufakis a raccontare, sempre secondo il giornale greco Kathimerini, di aver avuto fin da subito le mani legate. Il progetto era talmente segreto da dover restare chiuso in una cerchia ristrettissima di persone. L’eccentrico economista greco decide perciò di coinvolgere un suo amico di infanzia con spiccate doti informatiche, oggi docente di Information Technologies alla Columbia University, per hackerare il sistema informatico dell’Agenzia Fiscale e ottenere il controllo della piattaforma.
L’idea è di utilizzare quella semplice ma funzionale infrastruttura elettronica per trasferire il denaro tra i greci in caso di emergenza, come ammette chiaramente Varoufakis: “Immagina i primi momenti in cui le banche vengono chiuse, i Bancomat smettono di funzionare e c’è bisogno di un sistema parallelo di pagamento per tenere in piedi l’economia for a little while (cioè per un pochino di tempo), per dare alla gente la sensazione che lo Stato controlla la situazione e non ci sia panico. […] Questo avrebbe creato un sistema bancario parallelo mentre le banche sono chiuse a causa di un’aggressione della BCE finalizzata a soffocarci”.
Quando Varoufakis diventa Ministro dell’Economia, il suo amico copia il software dell’Agenzia delle Entrate sul suo laptop per hackerarlo ed eventualmente far partire in caso di emergenza “il sistema bancario parallelo”. Come ci racconta Varoufakis, non nuovo ad avventure informatiche: “Eravamo pronti a ricevere il via libera dal Primo Ministro quando le banche sarebbero state chiuse in modo da irrompere nel Segretariato Generale delle Entrate Pubbliche…, collegare il laptop e far partire il sistema.”
Un film, ma la situazione inizia ad assomigliare, più che all’epica della ‘La casa di carta’, a quella scena de ‘La banda degli onesti’, in cui Totò e Peppino sono impegnati a fabbricare casarecce banconote false che nessuno dei falsari avrà poi il coraggio di spendere. Nessuna persona ragionevole, infatti, può pensare di gestire artigianalmente una infrastruttura informatica complessa e pesante come un sistema di pagamento di una nazione.
Neppure Varoufakis, che confessa: “Il progetto era più o meno completo: avevamo un Piano B, ma il problema era passare dalle cinque persone che l’avevano ideato alle mille necessarie ad implementarlo, questione per la quale avrei dovuto ricevere un’autorizzazione che non è mai arrivata”.
Riavvolgiamo il nastro di questa storia per chiarire i termini della questione: al di là del tentativo rapidamente fallito, i vertici di Syriza avevano in mente una situazione di emergenza legata alla chiusura del sistema di pagamento da parte di un’autorità monetaria ostile, nella piena consapevolezza che questo “Piano B” sarebbe stato niente di più di una misura tampone, capace di reggere “for a little while”.
Questo per dire che, nonostante la dimensione comica che la vicenda assume nel racconto dello stesso Varoufakis, il tema del “Piano B” aveva comunque una ragion d’essere tutt’altro che ridicola. Un governo senza sovranità monetaria può infatti essere ricattato dalla banca centrale, visto che quest’ultima tiene le redini del sistema di pagamento necessario all’ordinato funzionamento di un’economia sviluppata.
Ridicola è invece la trasposizione italiana di questa pellicola che ci viene offerta dall’economista della Lega, Claudio Borghi, con la teoria dei Minibot. Ignorando del tutto la natura del problema, cioè il fatto che qualsiasi ritorsione dell’autorità monetaria passerebbe immediatamente per l’architettura informatica del sistema di pagamento, i leghisti sembrano convinti di poter garantire l’ordinario funzionamento dell’economia, in caso di comportamenti ostili della BCE, attraverso la circolazione di biglietti cartacei con stampate le facce della Fallaci e di D’Annunzio: i Minibot, per l’appunto.
Spiega Borghi in un video del 2017: “Nel momento stesso in cui decido di non adoperare più l’euro, o anche soltanto di entrare in una discussione dura per trovare le modalità di smantellamento, e costoro pensassero di attuare delle tattiche ‘alla greca’ per cercare di forzarci la mano e quindi chiudere le banche lasciando la gente senza contanti, senza bancomat: non potrebbe più succedere che la gente si trovi con la paura di non avere il contante perché altrimenti Francoforte non ti fa più vedere l’euro, perché avrebbe già i Minibot in normale circolazione, e quelli non potrebbero essere contingentati da nessuno. E quindi noi avremmo la possibilità di avere questa arma di prosecuzione tranquilla della circolazione del contante, senza dover sottostare agli ordini di qualcuno. Nel momento stesso in cui si decide di uscire, il Minibot diventerà già il contante della nuova moneta, e tutto sarebbe molto più semplice.
Gestire ogni giorno 34.000 pagamenti da 2 milioni di euro ciascuno per masse da 68 miliardi di euro con banconote cartacee non sembra la migliore delle idee. Borghi è convinto che il problema sia garantire la circolazione dei contanti: non sa, forse, che oggi il circolante rappresenta meno del 6% del PIL mentre l’aggregato monetario (in gergo tecnico, M2) che include anche i depositi bancari, i libretti postali e tante altre forme di moneta elettronica che per circolare ha bisogno di una rete interbancaria, supera il 90% del PIL.
Inventare nuove banconote parallele all’euro può dare forse l’illusione ottica che si stia sfuggendo dalla morsa dei vincoli europei, ma non risolverebbe assolutamente il problema che si ponevano Tsipras e Varoufakis, e che Salvini e Borghi – molto probabilmente – non hanno mai seriamente preso in considerazione.
Stendiamo dunque un velo pietoso sull’aspetto tecnico della questione – sulla effettiva praticabilità di un’uscita dall’euro indotta a partire dall’introduzione dei Minibot – e proviamo a concentrarci sul punto politico, che è forse il lato più interessante di tutta questa vicenda.
La strampalata tesi per cui i Minibot siano un primo passo fuori dall’euro, oggi agitata dall’opposizione liberista a questo governo, dal PD alle agenzie di rating, nasce in seno alla Lega, e viene candidamente illustrata da Borghi nel video già menzionato, dove i Minibot sono presentati come “un espediente per uscire in modo ordinato e tutelato” dall’euro.
Il ragionamento di Borghi è il seguente: “Se uno si deve preparare all’uscita, non può pensare di prepararsi all’uscita fuori dalle regole. Devi prepararti dentro alle regole europee, e dopo salutare. Perché sennò altrimenti chiudi tutto e automaticamente fai le tue cose. Invece bisogna pensare a qualcosa che sia in regola e che possa funzionare prima, che mi renda più semplice l’uscita.
Il discorso non ha alcun senso logico, ma proprio per questo rivela chiaramente il senso politico dell’operazione Minibot architettata dalla Lega. Borghi sta dicendo che per uscire dall’euro, cioè prima di uscire dall’euro, devi introdurre una moneta parallela che, al momento giusto, diventa la valuta ufficiale del Paese in barba ai burocrati di Bruxelles. L’economista della Lega pone l’enfasi sulla necessità che questa moneta parallela sia accettata dall’Europa.
Qui sta il non senso: se si riuscisse ad introdurre una moneta parallela “che sia in regola”, cioè accettata dall’Unione Europea, si avrebbe tutto il necessario per realizzare quelle politiche fiscali espansive che i vincoli fiscali e monetari imposti dall’Europa impediscono oggi anche solo di immaginare, e dunque non ci sarebbe più quell’immediato bisogno di uscire. Fosse possibile finanziare spesa sociale, sanità, istruzione, pensioni e perseguire la piena occupazione “dentro alle regole europee”, non vi sarebbe più l’urgente bisogno di rompere la gabbia, semplicemente perché quella è una gabbia nella misura in cui ti impedisce di usare la leva monetaria (ossia la possibilità di finanziare spese pubbliche stampando moneta) per creare nuova occupazione e tutelare i lavoratori già occupati.
Un abisso separa i termini del discorso illustrati da Varoufakis dalla dimensione farsesca del progetto leghista: per i vertici di Syriza il problema era tenere botta davanti ad un’azione ostile dell’autorità monetaria, e non certo realizzare una sorta di ‘uscita dall’euro all’interno dell’euro’, come invece confessa senza vergogna Borghi.
Il “Piano B” deve servire a gestire l’emergenza che si presenta al momento della rottura con la BCE e le altre istituzioni europee, ma non appena la rottura si sia consumata l’unica opzione possibile per gestire la circolazione monetaria di un Paese è prendere possesso del sistema di pagamento ufficiale, ovvero dell’infrastruttura gestita dalla banca centrale. Questo è il cuore del problema politico che la barzelletta dei Minibot ci aiuta a far emergere: il tema del potere.
Se una forza politica ha intenzione di incidere sulla realtà, e dunque si pone tra i suoi obiettivi il governo dell’economia, avrà bisogno di tutte le strutture di potere necessarie a gestire questa complessità, a partire dalla banca centrale. A modo suo, Varoufakis alludeva a questo quando parlava della necessità di passare dalle cinque persone che avevano sognato il romanzesco “Piano B” alle mille occorrenti a realizzarlo.
Rompere con l’Europa significa riprendersi l’autorità monetaria e usarla per creare lavoro e difendere lo Stato sociale. Significa mettere le mani sulla Banca d’Italia, cioè pretendere che operi al servizio del governo e non agli ordini delle istituzioni europee. E Borghi in effetti è sincero: nel video dice chiaramente che lo stratagemma dei Minibot è un’alternativa alla rottura, cioè – per usare le sue parole – al “chiudi tutto e automaticamente fai le tue cose”.
La favoletta dei Minibot è la plastica rappresentazione della mancanza di volontà politica da parte della Lega di mettere in pratica qualsiasi ipotesi di rottura con l’Europa, e della spasmodica ricerca da parte dell’aitante Salvini della massima compatibilità con le regole europee. Perciò, se proprio si deve dare l’impressione di star implementando qualche operazione di rottura, meglio utilizzare, fra tutti, l’espediente più innocuo.
La Lega di Governo si culla dunque in questo equivoco: non ha nessuna volontà di rottura con l’Europa dell’austerità, per la quale lavora alacremente da ormai un anno, ma continua a solleticare a fini strumentali e in maniera truffaldina il mito di una rottura a cui non ha mai creduto. Una mera suggestione buttata lì per alimentare l’idea che la Lega rappresenti un’alternativa al sistema di precarietà, povertà e disoccupazione che impone l’Europa, suggestione tanto più utile quando la Lega è impegnata in prima fila ad amministrare l’austerità per conto di Bruxelles, a suon di tagli alla spesa sociale e aumento delle tasse.
Più l’opposizione sbraita contro un’ipotesi di uscita dall’euro che sarebbe implicita nel varo dei Minibot o in qualsiasi altra sparata dell’attuale governo, più si rafforza quel legame sentimentale tra la Lega e gli elettori, che a quel partito hanno affidato il loro senso di rivalsa contro l’Europa. Un senso di rivalsa pienamente legittimo, una sacrosanta rabbia sociale da cui deve ripartire qualsiasi credibile opzione politica di riscatto dei lavoratori.

venerdì 7 giugno 2019

Trump abbaia, Cina e Russia fanno sul serio

Mentre i leader occidentali si trastullavano con Trump tra Gran Bretagna e Francia per l’ anniversario dello sbarco in Normandia, i capi di Stato di Cina e Russia hanno utilizzato il contemporaneo Forum economico di San Pietroburgo per cementare alleanze e concretizzare accordi economici strategici.
Il Presidente cinese Xi Jinping ieri a Mosca ha incontrato Vladimir Putin ed oggi sarà ospite principale al Forum economico internazionale di San Pietroburgo, un forum boicottato dagli Usa per via delle detenzione in Russia del businessman americano Bayley arrestato per frode. Trump è tornato a minacciare altri dazi contro la Cina su 300 miliardi di dollari di prodotti. “Deciderò nelle prossime due settimane”, ha detto il presidente Usa, “probabilmente dopo il summit del G20 ad Osaka”. Al summit Trump dovrebbe incontrare il leader cinese Xi Jinping: “Vedremo quel che accadrà”, ha aggiunto il presidente Usa.
Ma sul piano delle relazioni internazionali, Cina e Russia appaiono ormai allineati sulla maggior parte dei dossier più contrastanti con gli Usa – Iran, Corea del Nord, Venezuela, Siria – e condividono l’ostilità degli Stati Uniti. Tra Mosca e Washington le relazioni sono al punto più basso dalla fine della Guerra Fredda, mentre Pechino è alle prese con la guerra commerciale scatenata da Trump.

Tra i due giganti osteggiati dagli Usa, l’interscambio commerciale è intanto cresciuto del 25% solo nel 2018 ed è arrivato a 108 miliardi di dollari.
E’ significativo che nel primo giorno della visita di Xi Jinping in Russia, siano stati firmati una serie di accordi: prima di tutti quello tra Huawei e l’operatore telefonico russo Mts che permette al gigante delle telecomunicazioni cinesi (i cui prodotti sono considerati dagli Usa una minaccia alla sicurezza) di sviluppare la rete 5G in Russia.
Poi sono stati firmati accordi tra Alibaba, l’operatore di telefonia mobile Megafon e il gruppo internet Mail.ru per la creazione di una joint-venture dell’e-commerce, la AliExpress, che mira a diventare leader del settore in Russia; e, infine, ci sono gli accordi sui prodotti energetici come quello tra le russe Novatek e Gazprombank con la cinese Sinopec per la vendita di gas in Cina.
Ma sul piatto ci sono anche altre decisioni strategiche. La Banca centrale russa ha infatti confermato la conversione in yuan, euro e oro di buona parte dei propri assets in dollari. Russia e Cina hanno stretto accordi intergovernativi per aumentare l’uso del rublo e dello yuan nelle loro transazioni commerciali mettendo fuori gioco il dollaro. Una scelta che ha conseguenze rilevanti in un altro settore strategico: quello del petrolio. Proponendo alla Cina di rafforzare la collaborazione energetica, Mosca e Pechino, insieme, possono creare insieme nuovi parametri e influenzare i prezzi. Sul petrolio si gioca infatti una partita decisiva e non solo verso gli Stati Uniti.
Putin, all’apertura del Forum Economico di San Pietroburgo ha incontrato i direttori di alcune grandi agenzie di stampa internazionali, ed ha fatto capire che la sintonia fin qui avuto con l’Arabia Saudita potrebbe essere al capolinea. “Abbiamo opinioni diverse riguardo ai prezzi – ha detto Putin, “a noi 60-65 dollari il barile vanno bene”, mentre i sauditi hanno intenzione di mantenere i tagli produttivi, concordati un anno fa anche con la Russia, per spingere i prezzi al rialzo. Le conseguenze si vedranno a fine giugno a Vienna, per il vertice dell’Opec, a cui dovrebbe seguire un vertice dei paesi petroliferi esteso alla Russia.
La sfida sul 5G
L’accordo tra Russia e Cina sul sistema 5G sulle comunicazioni, indica un balzo in avanti destinato a pesare. La Cina giovedi ha ufficialmente approvato i servizi commerciali 5G, segnando l’inizio di una nuova era in quanto l’applicazione della tecnologia wireless superveloce consente di connettere più cose, servizi e operatori del mercato.
Il Ministero dell’Industria e dell’Information Technology (MIIT) ha concesso licenze commerciali 5G per il giovedì alla China Broadcasting Network e ai tre principali operatori di telecomunicazioni del paese: China Telecom, China Mobile e China Unicom. Secondo i primi studi, il 5G può essere circa 100 volte più veloce dell’attuale tecnologia 4G.
In Cina già oggi alcune linee della metropolitana in città come Pechino e Zhengzhou sono coperte dalla rete 5G, mentre i medici di Shanghai e Guangdong utilizzano il 5G per effettuare diagnosi e persino operazioni.
China Mobile ha annunciato di voler offrire servizi 5G in oltre 40 città entro la fine di settembre.
Le potenzialità del business sul 5G appaiono enormi. Secondo un rapporto della China Academy of Information and Communications Technology (CAICT). la commercializzazione della tecnologia potrebbe generare 10,6 trilioni di yuan (circa 1,53 trilioni di dollari USA) di valore nella produzione economica diretta.
Secondo l’agenzia Xinhua le aziende cinesi hanno il record mondiale per il numero di domande di brevetto standard 5G e rappresentano oltre il 30% del totale mondiale.
Diverse multinazionali tra cui Nokia, Ericsson, Qualcomm e Intel sono state profondamente coinvolte nell’esperimento delle tecnologie e il 5G cinese è pronto per l’uso commerciale.

martedì 4 giugno 2019

Governo a pezzi, come e più del Paese

Prima avvertenza ai nostri lettori: questa non è una crisi di governo, ma una crisi di sistema. Che naturalmente investe anche il governo, ma non nasce da lì e anzi ne determina l’evoluzione. E anche la soluzione.
Partiamo con la cronaca, che già conoscete per sommi capi sotto il bombardamento delle tv.
Il presidente del consiglio Giuseppe Conte, dopo settimane alle corde sotto i colpi congiunti e opposti di Lega e Cinque Stelle, ha dato il suo penultimatum:
Non mi presto a vivacchiare, a galleggiare. E sono pronto a rimettere il mio mandato nelle mani del presidente della Repubblica. Alle forze politiche chiedo una risposta chiara e rapida“.
A prima vista sembra soltanto un richiamo ai suoi due presunti vice – in realtà gli azionisti vero dell’esecutivo che lui formalmente dirige – anche grazie ai riferimenti quasi espliciti alle modalità con cui avviene quotidianamente la rissa: “Il mio motto è sobri nelle parole e operosi nelle azioni. Ma se continuiamo nelle provocazioni per mezzo di veline quotidiane, nelle freddure a mezzo social, non possiamo lavorare. I perenni costanti conflitti comunicativi pregiudicano la concentrazione sul lavoro“. E certo si riferiva a Salvini ammonendo “Nessun ministro prevalichi le sfere che gli competono“.

Il voto per le europee ha decisamente rovesciato i rapporti di forza interni, rispetto al 4 marzo 2018. E consente al leghista di pretendere di dettare l’agenda, in modo provocatorio nei toni e nei temi. Pretendere infatti la sospensione per due anni del “codice degli appalti” – con tutte le farraginose procedure, spesso scritte malissimo e fonte di continui rinvii da parte delle amministrazioni pubbliche che devono dare il via a gare e lavori – significa aprire il portone alle aziende in odor di mafia e alle assegnazioni di lavori senza gara, per “amici degli amici” e corruttori di ogni genere.
Può sorprendere che a spianare la strada alle mafie sia un ministro dell’interno, ma Salvini veste questa divisa solo quando gli conviene (contro rom, migranti, antifascisti, opposizione politica vera).
Anche l’altro elemento di scontro immediato – il “decreto crescita” – punta a smontare altri bacini di consenso ai Cinque Stelle, comprendendo il via ai cantieri di molte grandi opere, tra cui la Tav in Valsusa (per cui è stato messo già a gara mezzo miliardo per le sole “opere di cantiere”).
Ma il cuore degli equilibri che sono saltati sta ancora una volta nei rapporti con l’Unione Europea, i suoi vincoli, i suoi trattati, le sue pressioni.
Conte ne ha fatto cenno quasi esplicitamente, ricordando che per evitare procedure d’infrazione da parte dell’Unione europea “serve coesione”, perché “Una procedura ci farebbe molto male“.
Il che va ad impattare direttamente sulla struttura della manovra finanziaria da disegnare con la prossima legge di stabilità: “La prossima manovra dovrà mantenere un equilibrio dei conti perché le regole europee rimangono in vigore finché non riusciremo a cambiarle“.
Come avevamo spiegato subito, al momento della formazione del “tre governi in uno”, le sparate elettorali convergenti dei due azionisti elettorali hanno dovuto fare presto i conti con i limiti imposti da una gabbia impossibile da rompere con le sole chiacchiere, senza disporre di “piani B” al tempo stesso economici e geopolitici.
Con la legge di stabilità 2019 si era visto che le velleità “redistributive” (“quota 100” e reddito di cittadinanza) dovevano essere molto ridimensionate all’atto pratico, fino a risultare quasi impercettibili. Con la prossima, si sa già che – a regole immutate – qualcuno dovrà intestarsi una manovra più sangue che lacrime. Molto poco “popolare”, in termini di consensi.
Il verro leghista, abituato agli scontri di giornata, ha voluto ricordare che “Il voto europeo è stato molto significativo, anche sui vincoli europei. I parametri Ue non sono la Bibbia“. E certamente non lo sono, come sanno bene i nostri lettori.
Ma la speranza di avere, dopo le elezioni europee, un “fronte populista e nazionalista” quasi maggioritario a Strasburgo è risultata assolutamente infondata. Non che un’eventuale maggioranza “sovranista” avrebbe addolcito parametri e trattati (certe maggioranza si accordano facilmente soltanto sul rifiuto di immigrati scuri di pelle – la Polonia, per esempio, ha un milione e mezzo di ucraini rinchiusi in autentici campi di lavoro, anche se sbraita solo contro quelli “negri”).
Ma i risultati che hanno visto sgonfiarsi la “grosse koalition” tra popolari e socialdemocratici hanno fatto emergere però altre due formazioni assolutamente “europeiste” come liberali e verdi.
Dunque un eventuale governo monocolore guidato da Salvini (ma con i voti di chi, senza passare per nuove elezioni?) abbaierebbe alla luna e dovrebbe fare, in condizioni peggiori (lo spread già viaggia intorno ai 300 punti), quel che la Commissione Europea impone.
In effetti, dal suo punto di vista, meglio far saltare tutto, sbarrare la strada soltanto a chiacchiere a un probabilissimo “governo tecnico” e cercare di capitalizzare altri consensi di qui a…
A quando? Per cinque anni questo equilibrio politico europeo non sarà modificabile. I trattati cambieranno, certamente, perché sono manifestamente poco funzionali – per usare un eufemismo – “alla crescita”. Ma il tono e la direzione li daranno Francia e Germania, sempre più interconnesse dopo il trattato di Aquisgrana, non certo l’Italietta leghista.
E qui conviene ricordare la definizione iniziale: questa è una crisi di sistema, per questo paese. Non è soltanto il sistema politico ad essere impazzito dietro la quotidiana caccia al consenso facile. E’ il mondo delle imprese a esser privo di visione alta, strategica, di lungo periodo. La Fiat-Fca si vuol vendere a Renault (che ha lo Stato francese come azionista di controllo!), i colossi del lusso hanno già quasi tutti preso la stessa strada; quel che resta di grandi imprese (Eni, Enel, Finmeccanica, Fincantieri, ecc) regge solo grazie al fatto di essere aziende sostanzialmente pubbliche.
La magistratura ha smesso da tempo di recitare – solo recitare, sia chiaro – la parte della “salvatrice della patria”. Il caso Palamara-Lotti-ecc mostra in piena luce un intreccio di rapporti e di dipendenze tra magistrati e “politica”, con grande partecipazione di faccendieri, professionisti e “imprenditori”, che solo le interconnessioni massoniche possono forse spiegare.
Come abbiamo detto qualche volta, non è il vecchio fascismo quello che bussa alle porte. Con tutta la sua infamia, infatti, il regime del Ventennio traeva forza da una necessità oggettiva – la modernizzazione di un paese che doveva passare da agricolo a industriale – e declinava in modo reazionario e dittatoriale un’esigenza che altrove veniva soddisfatta in senso keynesiano (New Deal roosevetiano) o addirittura rivoluzionario (l’industrializzazione sovietica).
Qui c’è invece da gestire un declino senza fine, con il guinzaglio “europeo” al collo della popolazione, mentre imprenditori e possidenti vendono, delocalizzano, fuggono, seguiti da centinaia di migliaia di giovani con ogni livello di formazione.
Andrà trovato un altro termine, ma può diventare assai più mortifero del fascismo storico. Per ora, diciamolo, è certamente più pezzente…

lunedì 3 giugno 2019

Debito pubblico, alla ricerca di una via di fuga

La discussione mainstream intorno al debito pubblico, lo spread, le “letterine” che partono da Bruxelles e le “rispostine” – corrette in corsa – del ministero dell’economia italiano, soffre da sempre di una distorsione evidente e sempre più faticosamente nascosta.
Se uno legge infatti Repubblica o il Corriere, o peggio ancora ascolta Cottarelli e Giannini in tv, è obbligato a pensare che il debito aumenta perché aumenta la spesa pubblica, con governi che non applicano le indicazioni “sagge” provenienti dall’Unione Europea (e specificamente dalla Commissione, ossia il “governo” Ue).
Chi guarda invece i numeri scopre che la spesa pubblica, negli ultimi venticinque anni è stata costantemente ridotta, al punto che da diversi anni presenta costantemente – e sotto qualsiasi tipo di maggioranza governativa – un consistente avanzo primario. Che significa: lo Stato spende ogni anno meno di quanto incassa con le tasse.
E del resto molti governi degli ultimi anni – ma anche quelli di Berlusconi – hanno obbedito più o meno ferreamente agli ordini provenienti dall’alto. In particolare quello dei ferocissimi Mario Monti ed Elsa Fornero, che sono stati protagonisti anche del più brusco innalzamento del debito pubblico in tempi recenti. Sono infatti entrati a Palazzo Chigi con un fardello pari al 120,1% del Pil e ne sono usciti lasciandocelo a 129% (oggi siamo al 132).
Ci troviamo insomma di fronte a un piccolo mistero: più ci si piega alle prescrizioni inscritte nei trattati europei, ribadite con frequenti bacchettate sulle dita, più peggiora la situazione. Lo stesso, e anche peggio, è accaduto alla martoriata Grecia governata direttamente dalla Troika – con Tsipras a fare la “copertura a sinistra” di politiche ferocemente antipopolari – quindi non si può neppure parlare di anomalia italiana.
Gli scostamenti dal percorso operati dal governo gialloverde – quasi soltanto, e molto limitatamente (come ricorda Tria nella sua contestata lettera a Bruxelles), per “quota 100” e “reddito di cittadinanza” – aggravano un po’ la tendenza, ma senza modificarne eccessivamente la direzione.
Mentre la geniale “opposizione democratica” (ZingaRenzi-Repubblica-Corriere) critica il governo… chiedendo ancora più austerità! Poi si meraviglia di come vanno le elezioni…
Quello che la narrazione mainstream – “europeista”, insomma – nasconde con tanta cura è che la percentuale con cui viene espresso il debito pubblico risulta da un calcolo presentato come semplice, ma economicamente molto complesso, che deve tener conto di molti fattori e alcune distorsioni statistiche. Per la parte tecnica, come spesso facciamo, rimandiamo alla lettura – qui di seguito – dell’ottima analisi di Guido Salerno Aletta, apparsa su Milano Finanza.
Noi ci limitiamo a sottolineare il dato politico: l’insieme di strumenti imposti dai trattati europei – taglio della spesa pubblica, privatizzazioni, liberalizzazioni, facilitazioni per le imprese, taglio delle pensioni e allungamento dell’età pensionabile, precarietà contrattuale, deflazione salariale, ecc – non è efficace per curare quella malattia (il debito pubblico). Anzi l’aggrava. In primo luogo perché la crescita economica (in larga parte dipendente dal contesto internazionale) viene scientemente depressa: meno spesa uguale meno investimenti e reddito circolante, salari più bassi e precari uguale meno consumi (e meno innovazione tecnologica da parte delle imprese), e via così. Una spirale senza fine verso il basso.
In più, ci ricorda Salerno Aletta, c’è una Banca centrale europea che non riesce neppure – per un deficit statutario gravissimo – a dare un minimo contributo alla risalita dell’inflazione verso l’obbiettivo dichiarato (il 2% annuo); il che contribuisce negativamente.
Poi c’è lo spread. Terribile cerbero gestito direttamente dai “mercati”, che fa salire quasi a piacimento il “servizio del debito”, ossia la quota di interessi da pagare annualmente a chi compra i titoli di stato italiani. Una quota che si mangia sistematicamente quel faticato avanzo primario e anche molto di più.
Qui l’Unione Europea è intervenuta a fissare come trattato una scelta suicida operata “spontaneamente” dal governo italiano del 1981, con al Tesoro Nino Andreatta, quando il debito pubblico era abbondantemente al di sotto del 60% poi imposto come parametro nel trattato di Maastricht. Si tratta della “separazione tra Banca d’Italia e Tesoro” (il ministero che emetteva i titoli di stato, oggi assorbito in quello dell’economia), per cui la banca centrale non può più acquistare i titoli di stato, contribuendo così a tenere alto il prezzo e basso il rendimento (ossia gli interessi da pagare, il “servizio del debito”).
Da allora e fino ad oggi, quindi, lo Stato – ed ora ogni stato dell’Unione – deve cercare soltanto “sui mercati” le risorse finanziarie di cui ha bisogno; ed è quindi obbligato ad offrire i tassi di interesse più “appetibili” oppure – il che è lo stesso, ai fini contabili – a vedersi offrire un prezzo molto inferiore di quello nominale per ogni titolo (100 euro, in genere).
In pratica, gli Stati europei sono tutti sotto botta di strozzini professionali molto ben vestiti, in particolare quelli con un debito pubblico più alto, per cui lo spread (il differenziale rispetto ai rendimenti dei titoli di altri Stati) è più elevato, il che contribuisce non poco ad aumentare il debito stesso e a frenare la crescita.
Da questa trappola, a rigor di trattati, non si può e non si deve uscire. E quindi si è condannati, come paese, a una morte lenta, per consunzione, cedendo un pezzo dopo l’altro dei “gioielli di famiglia”, ossia dei pilastri che avevano reso il paese uno dei sette più industrializzati del mondo.
Naturalmente questa agonia non è uguale per tutti. Banche, assicurazioni e imprese riescono comunque a sopravvivere, magari facendosi assorbire da concorrenti più forti basati in paesi “partner”. La popolazione, comprese larghe fasce dell’antico “ceto medio”, no. Le dinamiche elettorali, come sappiamo, riflettono esattamente questo processo, offrendo a poco prezzo consenso al primo pirla che promette il bengodi domattina.
Del resto questo processo rappresenta nient’altro che un gigantesco trasferimento di ricchezza dalla produzione e dai consumi alla rendita finanziaria, ovvero una tesaurizzazione del patrimonio (per chi ce l’ha…) garantita proprio dalla rendita parassitaria sul debito pubblico.
Comunque una via di fuga o di riduzione del danno – senza mettere in discussione nessun trattato – potrebbe anche esistere. Ed è quella proposta dall’amministratore delegato di Banca Intesa, Carlo Messina, che già da qualche mese va suggerendo una “mobilitazione del risparmio privato” utilizzando il patrimonio immobiliare pubblico (anche delle amministrazioni locali).
Le controindicazioni sono evidenti (lo Stato e gli enti locali cedono la proprietà immobiliare a fondi finanziari privati, restando privi di ulteriori margini di compensazione), ma l’effetto sul debito anche. Drastico, radicale, nell’ordine dei 1.000 miliardi sui più dei 2.300 attuali. Quello sullo spread, e sul servizio del debito,  anche.

Al ministero dell’economia cominciano a pensare seriamente e questa possibilità che, se realizzata in maniera efficace (c’è da dubitarne, conoscendo i protagonisti del governo attuale), potrebbe dare qualche anno di fiato alle finanze pubbliche, permettendo investimenti indispensabili senza più infrangere – per un po’ – nessun obbligo europeo. Ovvio che l’effetto sulla crescita economica sarebbe molto diversi a seconda degli investimenti fatti: se “produttivi” (rilevamento di attività industriali a rischio delocalizzazione o svendita, creazione di nuove attività, ecc) sarebbero di lungo periodo, se sulle “grandi opere” per i soliti costruttori, quasi per nulla e solo nell’immediato.

Perché diciamo “per qualche anno”? Perché la gabbia dei trattati, in questo modo, resterebbe assolutamente intatta. E continuerebbe a macinare, ripristinando, prima o poi, la situazione attuale. Dopo, resterebbero da “sacrificare” al dio Baal dei “mercati”solo i conti correnti di ognuno di noi. Se, con i salari e le pensioni attuali, potremo ancora disporne…
*****
Come dribblare lo spread
Guido Salerno Aletta
La questione della riduzione del debito pubblico italiano è tornata alla ribalta. E’ un evergreen. Nella lettera che la Commissione europea ha inviato al Ministro dell’economia Giovanni Tria lo scorso mercoledì 29 maggio, a firma del Commissario agli affari economici Pierre Moscovici e del Vice Presidente Valdis Dombrovskis, si chiedono informazioni sul mancato rispetto nel 2018 delle regole a tal proposito dettate dal Fiscal Compact. Si riavvia così una procedura di infrazione per disavanzo eccessivo, fin qui sospesa tenendo conto degli sforzi sostenuti in passato. E’ una prospettiva assai pericolosa, politicamente e finanziariamente.
Sarebbe l’occasione buona per mettere in luce le incongruenze di fondo del sistema dei parametri europei, che vanno molto al di là della asserita “stupidità” del tetto al rapporto del 3% tra deficit pubblico e pil, che fu inserito sin dal 1992 nel trattato di Maastricht. Ci sono infatti responsabilità anche della politica monetaria, per quanto riguarda l’inflazione, che invece ricadono sui governi, che sarebbero gli unici manchevoli rispetto agli obiettivi posti alle politiche di bilancio.
In ogni caso, invece, è l’occasione per prendere finalmente atto del fallimento della ormai ultra ventennale strategia di risanamento finanziario basata sull’accumulazione di avanzi primari di bilancio. La crescita economica ne risente negativamente, i progressi nella riduzione del debito sono faticosi e malcerti, mentre l’economia rimane pericolosamente esposta agli shock esterni: tutte le crisi, quelle del ’73, dell’80, del ’92, del 2008 e del 2011, sono state di origine esogena.
La Commissione europea, che agisce nell’ambito dell’attività di sorveglianza sulle politiche fiscali, ha rilevato che i dati relativi al 2018 confermano che l’Italia non ha fatto sufficienti progressi per rispettare i criteri per la riduzione del debito. Si accinge dunque a predisporre la relazione prevista dall’art. 126(3) del Trattato ai fini della apertura del procedimento di infrazione per disavanzi pubblici eccessivi.
Nel caso del debito, viene disposta quando il rapporto tra quest’ultimo ed il prodotto interno lordo supera il valore del 60%, “a meno che detto rapporto non si stia riducendo in misura sufficiente e non si avvicini al valore di riferimento con ritmo adeguato”.
Questa clausola di salvaguardia, alquanto generica, fu inserita sin dal Trattato di Maastricht su richiesta dell’allora Ministro del tesoro Guido Carli, come condizione per acconsentire alla adesione dell’Italia. Più di recente, nel Fiscal Compact è stato precisato che cosa si intende per ritmo adeguato di riduzione del debito: lo si riscontra quando “la parte contraente opera una riduzione a un ritmo medio di un ventesimo l’anno”.
Per il calcolo, si applica il Reg. (CE) 1467/97, come modificato dal Reg. (UE) 1177/2011, che considera sia il periodo precedente all’anno di riferimento, sia la prospettiva pianificata. Inoltre, l’articolo 3(2), prevede che “la Commissione tiene in debita ed esplicita considerazione tutti gli altri fattori che, secondo lo Stato membro interessato, sono significativi per valutare complessivamente l’osservanza dei criteri relativi al disavanzo e al debito e che tale Stato membro ha sottoposto al Consiglio e alla Commissione….”.
Occorre ricostruire a questo punto che cosa è successo nel 2018. I punti di partenza sono rappresentati dalla legge di bilancio per il 2018, varata dal governo Gentiloni a fine 2017, e dal successivo Def 2018, presentato alla vigilia delle elezioni, che conteneva la sola versione pluriennale tendenziale. Si lasciava al successivo governo la definizione degli obiettivi programmatici per il 2019. Per il 2018, le due principali grandezze macroeconomiche indicate nel Def erano: pil reale +1,5%, deflatore +1,3%, pil nominale arrotondato al +2,9%. Sempre per il 2018, gli andamento di finanza pubblica, previsti in rapporto al pil, erano: indebitamento -1,6%, saldo primario +1,9%, debito pubblico (lordo sostegni) 130,8%.
Si prevedeva dunque nel 2018 una terza riduzione consecutiva del rapporto debito/pil, rispetto al 132% del 2016 ed al 131,8% del 2017. Fu sulla base di questi risultati e delle previsioni contenuti nel Def, che la Commissione europea decise, già lo scorso anno, di soprassedere all’apertura di una procedura formale di infrazione per debito eccessivo.
I risultati macro del 2018 non sono stati coerenti con le attese: pil reale +0,9% (-0,6% rispetto alle previsioni); deflatore +0,8% (-0,5%). La crescita del pil nominale, consuntivata all’1,7%, è stata complessivamente inferiore dell’1,1% rispetto alle stime del Def, come peraltro si andava già ipotizzando nella Nota di aggiornamento di settembre. Tutti i rapporti delle grandezze della finanza pubblica, misurati rispetto al pil nominale, sono stati conseguentemente diversi: indebitamento -2,1% (-0,5% rispetto alle previsioni); saldo primario +1,6% (-0,3%); debito pubblico 132,1% (+1,3%). Su quest’ultimo dato si è appuntata ora l’attenzione della Commissione.
In realtà, nel 2018, il rapporto indebitamento/pil è comunque migliorato rispetto ai risultati del 2017: -2,1%, a fronte del precedente -2,4%; parimenti, il saldo primario è stato del:+1,6% a fronte del +1,4% dell’anno prima. Il rapporto debito/pil, che nel 2018 è stato pari al 132,1% va più correttamente ragguagliato al 131,3% del consuntivo consolidato del 2017, quale risulta ora dall’Istat, risultando un peggioramento solo dello 0,8%.
Qui sta un nodo dei vincoli europei, che fanno riferimento al pil nominale, e quindi anche sull’andamento dell’inflazione su cui i governi possono incidere ben poco. Basta vedere l’andamento negli ultimi anni del deflatore del pil in Italia: + 1% nel 2014; +0,9% nel 2015; +1,2% nel 2016; +0,4% nel 2017 e +0,8% nel 2017. Sommando gli incrementi, in cinque anni il deflatore è cresciuto del 4,3%: una percentuale molto lontana dall’obiettivo perseguito dalla Bce, di un aumento annuo dei prezzi che sia vicino ma non superiore al 2%. Non è andata meglio con l’indice dei prezzi al consumo per le famiglie (HICP): fatto 100 il livello del 2015, si è passati da 99,9 del 2014 a 102,5 del 2018, con un incremento di appena 2,6 punti in cinque anni.
I valori assoluti dimostrano invece che, tra il 2017 ed il 2018, il controllo sulla finanza pubblica italiana è stato efficace: l’indebitamento è sceso da 41,5 a 37,6 miliardi di euro (-3,9); il saldo primario è aumentato da 24 a 27,3 miliardi (+3,3); il prelievo fiscale è aumentato da 726,9 a 739,6 miliardi (+12,7).
Mentre il pil nominale è cresciuto dai 1.724,2 miliardi di euro del 2017 ai 1.753,9 miliardi del 2018 (+29,7), il debito pubblico è aumentato dai 2,263,5 miliardi di euro del 2017 ai 2.316,7 del 2018 (+53,2), con un incremento quasi doppio all’andamento di quest’ultimo, e comunque ampiamente superiore al fabbisogno delle PA, che si è ridotto nello stesso periodo da 59,2 a 40,4 miliardi (-18,8), mentre le disponibilità liquide del Tesoro aumentavano di 5,8 miliardi. Ci sarebbero dunque, fattori endogeni più complessi che portano ad una crescita ulteriore dello stock del debito dell’ordine di mezzo punto percentuale di pil (7 miliardi).
Se, però, nel 2018, per ragioni di carattere internazionale del tutto al di fuori della capacità di controllo del governo italiano, la crescita non si fosse contratta, passando da una previsione del +1,5% al consuntivato +0,9%, ed il deflatore del pil non fosse stato del +1,3% e non del +0,8%, anche il rapporto debito/pil sarebbe stato centrato.
Al di là, quindi, della risposta tecnica che verrà fornita alla Commissione europea dal Ministero dell’Economia, sul tema del debito occorre assumere una chiara decisione politica. Rappresenta da decenni un problema non solo economico e finanziario, ma soprattutto istituzionale, che condiziona anche le relazioni internazionali.
In periodi di bassa crescita, e soprattutto di inflazione sempre più contenuta rispetto alle rosee previsioni, come accade anche per quelle della Bce, non si può contare soprattutto su quest’ultimo fattore per cercare di rispettare i vincoli europei, come si è fatto in passato. Anche una politica salariale costrittiva, per aumentare la competitività, non aiuta a far salire l’inflazione e quindi il pil nominale. Anche lo strumento tradizionale, l’aumento del saldo primario, contribuisce alla riduzione ulteriore del ritmo di crescita. Per riequilibrare la finanza pubblica e rinvenire lo spazio per nuovi investimenti, occorre ridurre il costo degli interessi sul debito, che assorbono il 3,7% del pil.
Esiste un consistente ammontare di risparmio delle famiglie, spesso depositato a vista o a breve termine presso gli intermediari monetari, che lo impiegano in titoli del debito pubblico, uno strumento caratterizzato da altrettanta elevata liquidità ma anche da una pericolosa volatilità. Esiste di converso, sul versante degli attivi pubblici, un ampio patrimonio immobiliare anche e soprattutto a livello locale, tutto da valorizzare: di questa prospettiva è dichiaratamente convinto uno dei principali banchieri italiani, Carlo Messina, amministratore delegato di Intesa San Paolo. Occorre dunque mobilitare congiuntamente il risparmio privato e questi asset pubblici, agevolando fiscalmente questa operazione.
Bisogna sottrarre l’Italia al ricatto continuo dei mercati ed al giogo delle regole, anch’esse soventemente strumentalizzate. Siamo andati avanti, fin troppo a lungo, con soluzioni che si dimostrano sempre più costose e sempre meno efficaci.

giovedì 30 maggio 2019

Sfruttare l’immigrato sì, ma con il sorriso

Il tema immigrazione è, da ormai molti anni, ostaggio di un pericoloso scontro retorico tra due visioni apparentemente diverse, ma del tutto convergenti nel vedere nello straniero un oggetto, un mero strumento da valutare nel suo impatto sul benessere economico degli italiani.
All’odiosa schiera, sempre più nutrita, degli xenofobi di professione e dei fomentatori di odio, coloro che nello straniero vedono il pericolo principale per la stabilità sociale e l’integrità culturale ed una serissima minaccia per i posti di lavoro degli italiani, rispondono, con numeri e dati sciorinati meticolosamente, coloro secondo i quali senza stranieri il Paese andrebbe a scatafascio, l’economia collasserebbe e lo stato sociale non potrebbe più essere finanziato.
La prima visione semina odio e guerra tra poveri; la seconda, apparentemente conciliante nelle conclusioni, semina in verità un similissimo razzismo strisciante e una mostruosa concezione reificata e strumentale dell’immigrato e di tutti soggetti economici subalterni.
Una recente indagine della UIL e dell’istituto di ricerca EURES, riportata con entusiasmo da diversi periodici di ispirazione liberal-progressista, ha simulato cosa accadrebbe nella regione Lazio se d’un tratto scomparissero tutti i lavoratori stranieri: “Scompaiono colf, babysitter, muratori, infermieri, cuochi, commercianti e imprenditori. Le aule si svuotano, diminuiscono i matrimoni. Tremano le casse dell’Inps. Le città sono in tilt. Cosa accadrebbe se sparissero di colpo tutti gli immigrati in una regione come il Lazio? Il Pil regionale crollerebbe di 19 miliardi di euro, i conti della previdenza registrerebbero un buco milionario, salterebbero 80mila imprese e 300mila occupati”.
Così, con questa serie di numeri e dati da panico collettivo, un articolo di Repubblica introduce la descrizione della ricerca UIL-Eures. Entrando nel merito dello studio, i numeri riportati dimostrerebbero dapprima che interi settori dell’economia regionale subirebbero un drammatico tracollo: in agricoltura con 20.000 posti di lavoro persi; nel lavoro domestico (pulizie e badanti) dove l’84% degli occupati sarebbe costituito da stranieri con conseguenze drammatiche (sic!) sulla vita degli anziani non autosufficienti. Poi viene affermato, con un artificio retorico già usato insistentemente dall’ex presidente dell’INPS Tito Boeri, un inevitabile tracollo del sistema previdenziale dovuto al fatto che i lavoratori stranieri, data la composizione anagrafica, versano molti più contributi di quanti ne ricevano i pensionati stranieri.
Si passa poi alla scuola asserendo che l’ipotetica scomparsa di tutti gli studenti stranieri dalle scuole comporterebbe uno svuotamento delle aule con un esubero di ben 6800 insegnanti. Ed infine, ciliegina conclusiva, crollerebbe persino il numero di matrimoni visto che gli italiani si sposano sempre meno mentre le coppie straniere sempre di più. Insomma grazie agli stranieri la nostra economia e società starebbe evitando quello che, altrimenti, sarebbe un inevitabile collasso!
Sembrerebbe quasi superfluo rimarcare la disarmante banalità e sciattezza di questi dati usati come presunta dimostrazione dell’utilità della popolazione straniera negli equilibri socio-economici del sistema economico italiano. Vale però la pena entrare nel merito del ragionamento di fondo che fa da sfondo all’elencazione dei presunti effetti benefici della presenza degli immigrati nell’economia del paese.
Quando ad esempio si afferma che il settore agricolo o quelli dei servizi di badanti, colf e lavoratori domestici crollerebbero e che i nostri anziani si troverebbero senza possibilità di assistenza si sta commettendo un doppio e gravissimo scivolone: da un lato si dipinge lo straniero come un soggetto stabilmente dedito a determinate attività a bassa qualificazione, una sorta di ruolo eterno che il migrante di turno sarebbe condannato a svolgere adempiendo così a quelle funzioni vitali che il lavoratore italiano non vorrebbe più compiere; inoltre si rappresenta l’economia come un sistema di relazioni cristallizzate, in cui i salari sono dati, le condizioni di lavoro sono date e, di conseguenza, l’ipotetica sparizione della popolazione straniera farebbe automaticamente fallire l’intera agricoltura italiana, dando per scontato che un italiano quel lavoro non lo svolgerebbe mai perché mal pagato e massacrante.
Un pregiudizio economico e culturale che parte dal doppio assunto che un’ora di lavoro agricolo o domestico venga pagata con salari da fame immutabili e che esistano lavori che, in quanto tali, nei paesi più sviluppati vengano a priori scartati dai lavoratori locali e che uno Stato non possa intervenire nell’economia per fornire servizi (ad esempio alla popolazione anziana oggi presa in cura dal sistema dei badanti stranieri).
Il secondo spauracchio agitato è quello dei conti pensionistici che finirebbero inesorabilmente in rosso senza lavoratori stranieri. Anche qui si mischiano numerosi pregiudizi e credenze tipiche dell’ideologia dominante.  Da un lato il consueto terrorismo infondato sull’insostenibilità strutturale dei sistemi pensionistici nei paesi a demografia declinante come l’Italia; dall’altro l’idea secondo cui l’immigrato è e sempre sarà un oggetto itinerante destinato a non radicarsi, a lavorare come schiavo per qualche anno per far funzionare la macchina economica del paese versando anche contributi previdenziali, per poi ritirarsi altrove senza percepire la pensione avendo così un’eterna posizione di contribuente netto.
Infine, la boutade conclusiva sulle scuole, per cui si perderebbero 6800 posti di lavoro tra gli insegnanti, è totalmente priva di senso. La scuola italiana ha un disperato bisogno di personale e di manutenzione. Classi-pollaio, evasione scolastica, aule sporche e strutture pericolanti sono problemi che poco hanno a che fare con la platea di studenti iscritti e molto con i vincoli imposti alla finanza pubblica. Non è certo dalla prolificità degli immigrati, ancora una volta ridotti a strumento (stavolta per l’occupabilità degli insegnanti) che dobbiamo aspettarci un aumento degli investimenti in istruzione, un miglioramento del sistema scolastico, un dimensionamento adeguato del corpo docenti. Questi dovrebbero essere obiettivi delle politiche pubbliche indipendentemente dalla questione migratoria.
In definitiva, i risultati della ricerca UIL ed EURES forniscono il tipico quadro ad uso e consumo di chi nell’immigrato lavoratore vede uno strumento usa e getta di valorizzazione del profitto dei capitalisti, ma copre ideologicamente questa funzione asserendo improbabili teoremi sul ruolo imprescindibile dei lavoratori stranieri come strumenti irrinunciabili per il funzionamento del sistema economico.
Un teorema costruito su deleteri pregiudizi culturali, su una visione segregante della società, sprezzante nei confronti tanto dell’immigrato quanto del lavoratore autoctono, nonché su una lettura liberista del sistema economico.
Una concezione del mondo in cui l’immigrato è e deve restare l’ultima ruota del carro, costretto a svolgere lavori temporanei, dequalificati e mal pagati e a supplire alle inevitabili carenze di uno stato sociale ormai a brandelli.
Una narrazione in cui il lavoratore italiano è invece il “privilegiato” che non vorrebbe mai fare quei lavori, come se i livelli salariali fossero una variabile indifferente.
Una concezione in cui la distribuzione del reddito e la produzione di beni e servizi sono determinate dal mercato e in cui lo Stato non è capace di determinare i livelli occupazionali, offrire servizi e garantire il funzionamento del sistema pensionistico.
Se questi fossero davvero i miseri argomenti economici e culturali per arginare il razzismo dilagante, non ci sarebbero allora speranze.  Il razzismo buonista del mito dello straniero che salva un’economia altrimenti insostenibile non fa altro che incrementare esponenzialmente il razzismo cattivista di reazione di chi nello straniero individua un capro espiatorio per spiegare la propria condizione di subalternità, in una spirale senza fine.
Soltanto una concezione radicalmente diversa del sistema economico e del ruolo dei lavoratori, tutti, nella loro dignità di classe sociale e di persone, può ribaltare ogni pregiudizio razzista e classista, arginando l’onda del pensiero segregante che sta devastando il tessuto sociale del paese e rilanciando la lotta di classe.

lunedì 27 maggio 2019

Parte il risiko europeo nel settore auto: Fca vuol sposare Renault

Mentre il clamore si concentra su elezioni e umori, il capitale vero – quello multinazionale – non dorme mai…
Da tempo il fumo usciva dai piani alti della Fca ex Fiat, segnata dalla morte di colui che l’aveva salvata dalla morte e condotta alla conquista dell’America. O meglio, a esser conquistata da un partner statunitense messo ancora peggio e resuscitato solo dai finanziamenti governativi garantiti da Barack Obama (anche se sotto la forma del prestito da restituire, e restituito; lassù sui soldi pubblici non si scherza come in Italia, dove Fiat ha scavato negli anni fosse molto più profonde di tutti in tangentisti messi insieme).
Al fumo è seguito il più scontato degli arrosti: una proposta di fusione cone Renault, al 50%. Sembra un gioco partitario, ma non può esserlo. Con tutti i problemi sorti o venuti al pettine con l’arresto in Giappone di Carlos Ghosn, ex amministratore delegato con fama di mago, Renault è infatti già partner di un’alleanza mondiale con Nissan e Mitsubishi.
Dunque la fusione fifty-fifty sarebbe soltanto sul lato europeo della triangolazione, mentre l’addentellato americano e quelli nipponici vanno a delineare un player globale “occidentale”, contrapposto in primo luogo ai rampanti produttori cinesi. Né si può far finta di non sapere che il gruppo francese ha come primo azionista – non “di controllo” nel senso usuale, ma sicuramente sì dal punto di vista politico e nazionalistico – proprio lo Stato.
Certamente il gruppo nascente – se nascerà – può coprire tutti i segmenti di mercato, dalle city car al lusso (Fca si porta dietro Ferrari e Maserati), con uno sguardo sulle auto elettriche meno distante di quello fin qui tenuto dalla sola Fiat.
E proprio il passaggio dell’intero settore auto alla trazione elettrica sembra alla base del furioso moltiplicarsi di ipotesi di fusione che attraversano tutto il pianeta come risposta ad una crisi ormai prossima dei modelli tradizionali (motori a combustione). Pochi giorni fa, per esempio, Ford ha annunciato un taglio da 7.000 dipendenti (il 10% del totale), svelando l’inconsistenza della strategia immaginata da Trump per riportare il lavoro negli States.
DI sicuro, il tentativo Fca si propone come un deciso passo in direzione della “costruzione dei campioni europei”, ossia di colossi multinazionali con il “cuore” inserito in un sistema economico-politico altamente competitivo verso l’esterno e sempre più concentrato – tendenzialmente monopolistico – all’interno. Con buona pace della concorrenza e delle regole antitrust (di cui non a caso le varie Confindustria continentali chiedono l’abrogazione, insieme alla legalizzazione degli “aiuti di Stato” alle imprese; e solo a loro, sia chiaro…).
Gli investimenti necessari per la riconversione del settore dalla trazione a idrocarburi verso quella ad “energie alternative” sono del resto fuori dimensione per qualsiasi “campioncino nazionale”. A meno di non essere, per l’appunto, cinesi…
Ed anche i tagli occupazionali giganteschi derivanti dall’incrocio tra eliminazione delle “sovrapposizioni merceologiche” (Fca e Renault, per capirci, hanno modelli concorrenti praticamente in ogni segmento di massa, da Panda-Twingo fino ai modelli top e soprattutto nel “segmento C”) e sviluppo dell’automazione sulle linee di montaggio, potranno essere affrontati soltanto da un “governo europeo”.
Ovviamente gli amministratori di Fca si sono preoccupati di “garantire” che resteranno aperti tutti gli stabilimenti italiani e che non ci saranno ricadute occupazionali negative… Le stesse cose dette a suo tempo dal maestro Sergio Marchionne su Pomgliano, Mirafiori o Termini Imerese.
Sappiamo tutti com’è andata poi e come sta andando ora.