venerdì 14 agosto 2015

L'Italia è piena di vuoti

Consonno è una frazione del Comune di Olginate, in provincia di Lecco. A partire dai primi anni Sessanta un “conte” di nome Bagno decise di realizzarci quella che sarebbe diventata la “città dei balocchi”. Una speculazione edilizia fatta di archi, mosaici e minareto che richiese lo spianamento dei pendii (18.500 metri cubi di terra asportata), la distruzione degli appezzamenti agricoli e la cancellazione di ogni traccia del borgo antico preesistente (41mila metri cubi). La sua sfavillante esperienza durò poco più di quindici anni, fino al 1980. Poi intervenne l’abbandono -interrotto da qualche festa improvvisata- che ha fatto di Consonno -e dei suoi 48mila metri cubi di edificato- una celeberrima “città fantasma”, destinata alla rovina.
Alla fine dello scorso anno il presentatore televisivo Francesco Facchinetti -conosciuto come dj Francesco- lancia una proposta per restituire linfa al complesso, sostenendo d’esser disposto a realizzare -insieme a “finanziatori europei ed extraeuropei”- una non ben precisata “città dei giovani”.
Qualche mese e la campagna mediatica si sfalda: dopo sparuti sopralluoghi, l’uomo di spettacolo si ritira. La nuova frontiera imprenditoriale -riferiscono le cronache- è uno smartphone di ultima generazione, si chiamerà Stonex One. I riflettori nazionali si spengono e Consonno ritorna alla polvere, in attesa di una nuova sparata. Ma la “bolla Facchinetti” ha impedito di guardare a chi, come l’Associazione Monte di Brianza, un’idea di recupero e riuso di quegli spazi dimenticati l’aveva -e continua ad averla- tra le mani. Tanto d’aver lanciato nel febbraio 2015 un “manifesto” per la sua rigenerazione, fondato su un progetto che ha preso il nome di “Parco delle rovine”. Due laureandi del Politecnico di Milano -oggi architetti, Fabio Marino e Davide Traina- hanno dedicato a Consonno la tesi, puntando a restituire vita al borgo a partire dalle rovine del progetto di cinquant’anni fa.
Il primo passo è l’acquisto dell’area dagli eredi di Bagno, attraverso un azionariato popolare (“Buone azioni”), com’è già stato fatto altrove nel Paese. I proprietari dell’area nicchiano e il Comune di Olginate -nonostante abbia aderito nel maggio 2014 alla nascita del Parco locale d’interesse sovracomunale Monte di Brianza dove ricadono anche le rovine- sembra avere altri progetti di “sviluppo” urbanistico. Stando al Piano di governo del territorio, infatti, al posto delle rovine potrebbero precipitare insediamenti residenziali (villette) per 250 persone.
Ma il tema del riuso e del riutilizzo (anche e soprattutto temporaneo, cui Altreconomia edizioni ha dedicato il manuale per il riuso temporaneo di spazi in abbandono, in Italia, “Temporiuso”) degli spazi abbandonati va ben oltre i confini del piccolo ed emblematico borgo di Consonno, allargandosi a tutto il Paese. Lo sa Giovanni Campagnoli, docente di Economia dai Salesiani del Don Bosco di Novara, che in merito ha scritto un libro intitolato “Riusiamo l’Italia” (Gruppo24Ore). Scorrendone le pagine si incontra un Paese “pieno di spazi vuoti”, con un patrimonio di oltre 6 milioni di beni inutilizzati o sottoutilizzati (“significa più di due volte la città di Roma, vuota”, sostiene Campagnoli) tra abitazioni e immobili pubblici e privati. “Lì c’è nuova occupazione” è il ragionamento di Campagnoli che si basa sulla raccolta e analisi di decine di esperienze di recupero e rilancio di immobili o spazi più o meno derelitti: start up creative, ambienti di co-working, incubatori di imprese e così via. “L’osservazione diretta di un centinaio di esperienze verificate in Italia di questo tipo -è la tesi di Campagnoli- conferma come realistico l’obiettivo che in ciascuno spazio si possano creare in media 3 posti di lavoro nel primo anno di attività, che raddoppiano nel terzo anno per arrivare (in alcuni casi) anche a 10 nel giro di cinque anni”.
Ipotizzando dunque che siano già idonei 21mila capannoni e 5mila negozi, “significa, nei primi anni, occupare già tra le 73mila e le 156mila persone”. Il portale riusiamolitalia.it mette in rete diverse buone pratiche: dal “Farm cultural park” di Agrigento al centro culturale Interzona di Verona, passando per lo spazio Grisù di Ferrara (spaziogrisu.org) -sorto nei 4mila metri quadrati di una ex caserma dei Vigili del fuoco- e l’Officina Lieve (officinalieve.it) di Borgo San Lorenzo (nel Mugello), che in un capannone industriale privato e dismesso di 220 metri quadrati ha realizzato uno spazio dove tenere corsi per l’autocostruzione e il co-working. A fine maggio ha lanciato una campagna di finanziamento diffuso che si propone tra le altre cose l’acquisto di una segheria mobile -come racconta Pierpaolo Di Carlo-: “Ci troviamo in una zona a forte vocazione forestale, e l’obiettivo è quello del recupero degli alberi caduti e la loro trasformazione in ‘legno urbano’”.
A metà maggio Campagnoli ha presentato il libro “Riusiamo l’Italia” presso l’Agenzia del Demanio, a Roma, insieme all’attuale presidente della struttura, Roberto Reggi (ex sindaco di Piacenza): “Per l’occasione ho portato con me l’elenco degli strumenti normativi a sostegno di percorsi di riutilizzo e riuso che già esistono, e che derivano da un importante articolo della nostra Costituzione che in pochi ricordano: il 118”. Al quarto comma si legge: “Stato, Regioni, Città metropolitane, Province e Comuni favoriscono l’autonoma iniziativa dei cittadini, singoli e associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale, sulla base del principio di sussidiarietà”. Ecco da dove deriva da ultimo -secondo Campagnoli- un articolo della legge Sblocca-Italia, e precisamente il 24 (“Misure di agevolazione della partecipazione delle comunità locali in materia di tutela e valorizzazione del territorio”). “Quella parte del provvedimento -prosegue l’autore di ‘Riusiamo l’Italia’- ha sancito che spetta ai Comuni individuare i criteri in base ai quali cittadini singoli o associati possono presentare progetti con finalità di interesse generale. Ed è un risultato importante, soprattutto perché prevede la possibilità di agire con riduzioni o esenzioni di tributi”.
Qualche ente locale, in realtà, aveva già iniziato a muoversi anche prima del presunto incentivo contenuto nella legge. E ha potuto farlo anche grazie al “Regolamento sulla collaborazione tra cittadini e amministrazione per la cura e la rigenerazione dei beni comuni urbani” messo a punto da Labsus (Laboratorio della sussidiarietà, www.labsus.org). Trentasei articoli -dall’individuazione degli edifici alla rendicontazione, misurazione e valutazione delle attività di collaborazione- che 37 Comuni italiani hanno già deliberato di adottare (da Bologna a Ivrea, da Terni a Casal di Principe), mentre altri 71 (al 18 maggio 2015) stanno portando avanti la procedura per l’approvazione.
Il protagonismo degli enti locali, però, non è la norma. Chi in questi anni ha sostituito i Comuni in un’attività centrale per il riuso degli spazi com’è quella della mappatura sono coloro che l’edizione 2015 del report Wwf “Riutilizziamo l’Italia” ha di nuovo chiamato “abilitatori” (enablers). Uno è noto a chi legge Altreconomia: si tratta di Temporiuso.net (temporiuso.org), associazione milanese impegnata nella “riattivazione” di spazi aperti vuoti e che come detto ha curato l’omonimo “manuale per il riuso temporaneo”. Daniela Galvani, invece, fa parte di “[im]possibile living” (www.impossibleliving.com), un’altra realtà milanese che dopo l’esperienza dalla componente più sociale della mappatura ha intrapreso una via commerciale dando vita alla piattaforma “What a space” (whataspace.it, “Affitta spazi temporanei e crea esperienze indimenticabili”), “l’Airbnb degli spazi in disuso”, come spiega Galvani (in effetti la homepage è identica).
In Romagna è attiva dal 2009 l’associazione “Spazi indecisi” (spaziindecisi.it), che da Riccione a Faenza, da Ravenna a Forlì ha messo in rete quasi 150 “indecisioni” (colonie, discoteche, cave, capannoni industriali), ricostruendone la biografia -in collaborazione tra gli altri con il Comune di Forlì, la Provincia e la Regione-.
E poi c’è l’esperienza veronese di A.G.I.L.E. (associazioneagile.wordpress.com), nata a metà del 2012 grazie a un gruppo di architetti, un sociologo e un organizzatore di eventi. Tra i primi passi degli animatori di A.G.I.L.E. c’è stata la riqualificazione di un sottopassaggio pedonale di Verona chiuso da vent’anni. Eventi, concerti, cineforum, appuntamenti di socialità: in due anni -dal 2013 all’aprile 2015- il tunnel ha ripreso vita e riaperto i battenti, sebbene l’amministrazione comunale l’abbia frettolosamente inaugurato, installandovi semplicemente telecamere di sicurezza, senza praticamente avvisare chi per 700 giorni si era preoccupato di organizzare la sua rinascita. Ma Michele De Mori e gli altri membri del gruppo non si sono persi d’animo, dando così vita a un nuovo progetto chiamato “Oltre il vuoto. Mappatura dei luoghi in disuso e strategie di riciclo urbano”. “Tra il febbraio 2013 e il febbraio 2014 -spiega De Mori- abbiamo condotto un’operazione analitica di mappatura dei luoghi abbandonati della città di Verona. Volevamo quantificare in maniera precisa il fenomeno e dunque fotografarlo. E per questo è stato fondamentale l’aiuto fornito dagli ordini professionali”. Il risultato è impressionante: “Abbiamo censito 555 spazi e luoghi per una superficie complessiva di 2.636.570 metri quadrati -prosegue Michele-. Si tratta esclusivamente di ‘spazi completi’: terra-cielo (ovvero palazzine intere) oppure luoghi e piazzali con un chiaro utilizzo scomparso con il trascorrere del tempo. Non ci siamo soffermati quindi sugli spazi sfitti o gli appartamenti vuoti ‘isolati’, che avrebbero fatto schizzare la cifra totale verso le migliaia di unità”. Pubblico, privato, residenziale, commerciale, tutto è incluso. A.G.I.L.E. non l’ha solo schedato ma anche “graficizzato” e reso fruibile attraverso una mappa web con punti geolocalizzati. Circoscrizione per circoscrizione, con foto, indirizzo e informazioni. Conclusa quella che Michele De Mori chiama la “fase I” ecco il passo ulteriore: “Una volta identificati i luoghi andavano individuati i proprietari, per provare a portare avanti qualche progetto di recupero. Questo percorso però ad oggi non ha avuto ancora una traduzione concreta. Nella realtà quotidiana ci siamo trovati con gli edifici più interessanti bloccati per cause legali, liquidazione, eredità o precarie condizioni statiche”. Perché, citando Campagnoli, siamo “pieni di vuoti”? “Il problema di base -ragiona De Mori- è che una società immobiliare continua ad avere dei vantaggi a non operare. Anche qui a Verona abbiamo casi di grandi superfici inutilizzate. Si tolgono gli infissi, si lasciano degradare gli ambienti in attesa di tempi migliori, non pagando così l’Imu, e poi si decide di abbattere”.
Le superfici inutilizzate mappate dall’associazione non bloccano la proliferazione dei centri commerciali su aree libere la cui realizzazione è prevista nei piani urbanistici: “Il viale che collega la città al casello di Verona Sud potrebbe accogliere fino a 5 centri commerciali nell’arco di due chilometri -racconta De Mori- ma fino ad ora nessun imprenditore ha fatto una mossa. Ma le previsioni ci sono”. La Regione sostiene percorsi di recupero edilizio? “Sì -risponde l’animatore di A.G.I.L.E.-, ma dipende come. Recentemente è stato approvato un piano di recupero edilizio che in caso di abbattimento e ricostruzione ex novo riconosce all’operatore l’80% in più della cubatura, il che mi lascia perplesso”. Per la sola mappatura di Verona, il gruppo di A.G.I.L.E. ha investito -con il contributo di una ditta privata che si occupa di illuminazione- “meno di mille euro”. Se tutti i Comuni prendessero esempio dal “caso veronese”, eseguendo l’operazione in proprio o incaricando qualche volitiva associazione del territorio, il “problema” della mappatura potrebbe essere risolto facilmente. Iniziando a recuperare l’esistente, davvero.

mercoledì 12 agosto 2015

L'industria della felicità

I padroni non vogliono dai loro subalterni solo quello che riescono a estorcere con il lavoro, ne pretendono anche l'anima. Poco importa se le condizioni lavorative stanno ormai retrocedendo a forme ottocentesche.
Le scienze sociali, arruolate alle esigenze dell'impresa, da tempo rilevano come in tempi di crisi sia necessario che i lavoratori e i consumatori vendano la propria anima – e non solo la forza lavoro e i loro redditi - al mercato. Si chiama Happyness Industry, l'industria della felicità.
Diffondere ottimismo nella società e sentimenti positivi dentro le imprese, sta diventando uno strumento indispensabile per far ripartire l'economia in quei paesi a capitalismo avanzato che hanno subìto più duramente le torsioni dell'ultima fase della crisi capitalistica.
E' interessante quanto riporta su questo tema un ampio servizio de La Repubblica, che pure è un giornale di prima linea dentro questo meccanismo.
Il saggio del sociologo britannico William Davis, descrive come “le aziende oggi stanno investendo così tante risorse nel renderci felici che chi non si mostra entusiasta di tutto ciò viene visto come un sabotatore da tenere d'occhio”. In alcune selezioni aziendali, ad esempio, se ne colpisce uno per educarne nove a mostrarsi felici del lavoro chiamati a svolgere. Chi fa il musone viene licenziato o non assunto. Non solo. E' stata istituita la figura dirigenziale dell'addetto alla felicità dei dipendenti – lo Chief Happyness Officer - uno che deve saper fare squadra, mettere il naso nella loro vita privata e assicurare che il clima aziendale non accumuli in modo pericoloso focolai di malumore che possono diventare altro.
Questa ennesima diavoleria di derivazione anglosassone, è stata importata anche in Italia. Prima come forma della pubblicità e adesso come modello di governance da parte di Renzi e del suo stuolo di ladylike e goldenboys.
A fare dell'ottimismo un veicolo pubblicitario, non a caso, è uno dei “prenditori amici” più ascoltati da Renzi: Oscar Farinetti. Suo era stato l'uso dello scrittore romagnolo Tonino Guerra per la pubblicità della sua Unieuro all'insegna dell'ottimismo. Ereditata dal padre Paolo Farinetti, la catena di elettrodomestici Unieuro è stata gestita dal figlio, Oscar appunto, dal 1978 al 2003. Poi fu venduta ad una società britannica. Gli slogan e gli spot sull'ottimismo iniziano nel 2001.
Una volta che Renzi “è stato messo lì”, come ebbe a dire Marchionne, Farinetti è diventato quasi una musa ispiratrice del premier, il quale infatti se la prende con i gufi, i piagnoni, i pessimisti mentre lui ostenta con fare da piazzista risultati positivi smentiti dai fatti. In compenso realizza la tabella di marcia voluta da Confindustria e banche su ogni aspetto: dall'abolizione dell'art.18 alla aziendalizzazione della scuola, dal decreto sblocca Italia alla destrutturazione dell'amministrazione pubblica.
Declinare in ogni conferenza stampa, twitter o dichiarazione che “le cose stanno andando bene, cieco è solo chi non le vede” - potendo contare su un servilismo dei mass media che fa rimpiangere Berlusconi – è un modo di “fare produttività”. O almeno di comunicare che la produttività c'è anche se non si può vedere.
Ma se poi la gente non ci crede perchè non vede? Scatta allora la demonizzazione e la malevolenza pubblica che addita chi osa dire le cose come stanno: disfattista, gufo, antitaliano. Un linguaggio che somiglia sempre più a quello del regime fascista. La felicità e l'ottimismo non devono più essere categoria dell'anima, ma comportamenti da omologare. Il bicchiere deve essere sempre visto come mezzo pieno, anche quando è quasi completamente vuoto.
Vengono in mente le parole di una canzone resa nota da Dario Fo ed Enzo Iannacci:
“e sempre allegri bisogna stare
che il nostro piangere fa male al re
fa male al ricco e al cardinale
diventan tristi se noi piangiam!”
Oggi, purtroppo, molte lavoratrici e molti lavoratori resistono a questa arroganza padronale e governativa che non ha precedenti nel dopoguerra solo con lo “sciopero del cuore”. Accettano la situazione e, nella migliore delle ipotesi ricorrono alla “egreferenza”, cioè alla negazione della deferenza verso il padrone e i suoi pagliacci. Questi ultimi se ne sono accorti e sanno bene che quando si accumulano sentimenti ostili, anche se non manifesti, prima o poi possono ridiventare odio di classe e allora finisce la (loro) festa. Per questo hanno messo in moto gli scienziati sociali per imprigionare anche l'anima e non solo le condizioni di vita delle classi subalterne.
La felicità, quando diventa fenomeno genuino e collettivo, non può essere messa in vendita come una merce, neanche nei divertimentifici artificiali o nelle politiche aziendali.
Il rumore di fondo che ancora non diventa rabbia organizzata tra la nostra gente va coltivato e ben orientato.
Dilatare questa contraddizione, trasformare lo sciopero del cuore in conflitto sociale, connetterlo e coordinarlo, rimane la convinta ragione di esistenza di questo giornale.

martedì 11 agosto 2015

Stati Uniti. E’ emergenza bambini poveri

Secondo un'indagine peraltro risalente al 2014 negli Stati Uniti ci sarebbero oltre due milioni e mezzo di bambini senza casa. Non sono propriamente numeri che fanno onore all’ “American Dream”, ma sembra che a nessuno interessi che le sacche di estrema povertà in Nord America sono aumentate notevolmente, così come la forbice tra ricchissimi e poverissimi. 
Spesso la nostra visione delle cose può variare a seconda dell’angolazione dalla quale le guardiamo. Così qualcuno può parlarci degli Stati Uniti come della terre delle opportunità e delle libertà, altri invece possono raccontarci di uno stato di polizia dove se sei afroamericano rischi la vita a ogni controllo di polizia e dove ci sono oltre due milioni e mezzo di bambini “Homeless”. Sembrerebbero numeri da Terzo Mondo, eppure stiamo parlando degli opulenti Stati Uniti che dovrebbero, almeno secondo la retorica di Hollywood, essere il miglior paese del mondo. Le sacche di povertà invece in tutti gli Stati Uniti sono in netto aumento e negli ultimi anni ad aumentare oltre alla povertà è stata anche la forbice tra molto ricchi e molto poveri. Il National Center on Family Homelessness nel 2014 ha lanciato un vero e proprio campanello d’allarme parlando del problema del degrado e dell’estrema povertà come di una vera piaga per gli Stati Uniti. Il numero dei bambini senza casa sarebbe aumentato in modo netto nel 2013, e la situazione sembra in peggioramento dato che la povertà infantile è aumentata dell’8% in un solo anno.
Nonostante i Tg ci parlino di economia americana in netta ripresa la realtà nel Paese soprattutto per le fasce più povere sembra essere molto diversa. Come sottolineato tra gli altri anche da riviste come “Panorama” infatti, molte famiglie americane si sono trovate senza reddito e senza casa da un mese all’altro andando a ingrossare gli enormi quartieri di case in lamiera e roulottes ai margini delle grandi città. Altre famiglie sono state costrette a trovarsi un altro lavoro quasi sempre meno pagato del precedente, e così facendo possono sopravvivere ma non più permettersi un affitto. E il degrado porta anche a violenze commesse dai genitori ai danni dei minori, un problema crescente che non viene adeguatamente sottolineato dai media, che preferiscono propagandare il “Sogno Americano” in modo acritico.
E il bello è che la povertà coinvolge l’America da Est a Ovest, da New York fino all’Alabama, anche se lo stato più segnato dal problema del degrado è la California. Qui infatti ci sono ricchi davvero ricchi ma anche poveri così poveri che sono costretti a vivere in rifugi assieme ai loro bambini, il tutto nella pressochè totale indifferenza. Pesanti le accuse formulate già un anno fa dal National Center on Family Homelessness secondo cui il governo federale finora si è sostanzialmente preoccupato solo di aiutare i veterani di guerra in difficoltà, ignorando famiglie e bambini. Peraltro oltre a essere privi di una casa questi bambini non riusciranno nemmeno ad avere accesso alle cure mediche e soprattutto all’istruzione, di conseguenza andranno ad aumentare quasi certamente quella porzione di persone prive di istruzione, lavoro e casa. Senza vere politiche di assistenza con le autorità che forniscano abitazioni a prezzi ribassati la sensazione è che il problema peggiorerà ancora, ancor più che sono tantissimi quelli che pur avendo un lavoro non guadagnano abbastanza per affittare un appartamento. Chiaramente non dovrebbe trattarsi della situazione di un paese considerato “civile” in quanto i minori non dovrebbero mai venire abbandonati, ma evidentemente negli Stati Uniti questo problema non è poi così sentito. E i nostri media preferiscono accanirsi contro paesi considerati canaglia come la Russia, evitando di prendere in considerazione ciò che non va negli “amati” States.

lunedì 10 agosto 2015

Roma, la vecchia faccia della nuova mafia

Per capire quello che sta avvenendo a Roma sia sul piano giudiziario che su quello politico e istituzionale è necessario capire da subito che il fenomeno criminale di Mafia Capitale non solo era prevedibile, ma che si è costruito in decenni di imperdonabile disattenzione e spesso, come emerge dalle carte della Procura di Roma, di complicità.
In molti ci hanno raccontato che la Banda della Magliana era finita con la morte di Enrico De Pedis nel 1990 e che con lei si fosse chiusa la possibilità che si costituisse nella Capitale un’organizzazione criminale di matrice mafiosa. Altri addirittura datavano la fine della Banda con l’arresto nell’85 di Pippo Calò. Perfino la preziosissima relazione della Commissione Antimafia presieduta da Gerardo Chiaromonte e pubblicata nel 1992 sposava questa tesi. Purtroppo in troppi ci hanno creduto. Di conseguenza questa narrazione ci ha portato oggi, davanti al progressivo svelamento dell’organizzazione criminale che farebbe capo all’ex terrorista dei Nar e uomo della Banda Massimo Carminati, ad affrontare, capire e interpretare il fenomeno del potere mafioso nella Capitale con almeno 20 anni di ritardo. Mafia Capitale (questo il nome dato dagli inquirenti a questa quinta mafia alla matriciana) è figlia della Banda, del mondo dell’eversione nera e in particolare dei Nar e degli intrecci consolidati in almeno quarant’anni fra “romani” e Cosa nostra, ‘ndrangheta e camorra.
La Banda della Magliana non è mai morta, ma si è inabissata esattamente come ha fatto Cosa nostra dopo le stragi del ‘92 e ‘93 e con il tempo si è trasformata, diluita e infine riorganizzata in altro. Gli enormi capitali che i membri dell’organizzazione avevano accumulato sono rimasti pressoché intoccati. Molti membri di quella organizzazione sono tornati in libertà. A fine pena non si sono certo rassegnati alla vita da pensionati. Inoltre il ruolo di raccordo e mediazione fra tutte le organizzazioni criminali presenti sul territorio - ottenuto spesso con la violenza dell’intimidazione o delle armi - si è riproposto in chiave più moderna con l’organizzazione di Carminati. Tutti, in un modo o nell’altro, a Roma hanno dovuto fare i conti prima con la Banda e poi con “er cecato” - il soprannome di Carminati che ha perso un occhio in uno scontro a fuoco con i carabinieri -, anche chi a Roma c’era già a partire dai primi anni ‘70 come tutte le organizzazioni mafiose del Paese si erano radicate e avevano avviato una serie di relazioni di collaborazione con ambienti della destra eversiva, con pezzi deviati dello Stato e dei servizi e con la politica nazionale e locale.
In nessun’altra città italiana si è arrivati a una forma organizzativa e imprenditoriale della criminalità come a Roma. Qui la definizione di Mafie spa trova conferma. Anzi, per capire quale è la forma del potere criminale che ha in pugno la Capitale d’Italia sarebbe più corretto parlare di una Associazione Temporanea d’Impresa. Con mediatore e broker Massimo Carmianti.

domenica 9 agosto 2015

Nel 2015 sono morti nel Mediterraneo 2.000 migranti

Sono più di 2.000 i migranti morti nel tentativo di attraversare il Mediterraneo ed arrivare in Europa. Questa rotta si conferma così come la più pericolosa per chi rischia la vita alla ricerca di un futuro migliore. L’anno scorso, nel medesimo periodo, i decessi in mare erano stati 1.607; 3.279 alla fine del 2014.
La maggior parte dei migranti ha perso la vita nel Canale di Sicilia, lungo la rotta centrale del Mediterraneo che collega la Libia all’Italia: è proprio in questo tratto di mare che le imbarcazioni usate dai trafficanti, in pessime condizioni già al momento di partire, rischiano di naufragare. I dati raccolti dall’OIM suggeriscono che la rotta del Canale di Sicilia sia sproporzionatamente più pericolosa delle altre.
Nonostante l’Italia e la Grecia siano entrambe interessate da flussi migratori molto significativi (rispettivamente circa 97.000 e 90.500), i tassi di mortalità sono molto diversi: sono stati circa 1.930 i migranti morti nel tentativo di arrivare in Italia, mentre sono stati circa 60 i migranti morti sulla rotta verso la Grecia.
Nel corso dell’ultima settimana sono stati circa 20 i morti in mare. Le salme di 14 di loro, appartenenti a un gruppo più grande di 456, sono stati trovati in acque internazionali dalla nave della marina irlandese LÉ Niamh e portati al porto di Messina il 29 luglio. Lo staff dell’OIM presente nel sud Italia ha parlato con alcuni dei sopravvissuti: secondo le testimonianze dei migranti, il motore della barca si è surriscaldato durante la traversata. Per raffredarlo, hanno dovuto usare l’acqua potabile a bordo ma 14 di loro non ce l’anno fatta a causa della sete e del caldo.
“E’ inaccettabile che nel XXI secolo le persone in fuga da conflitti, persecuzioni, miseria e degrado ambientale debbano debbano patire tali terribili esperienze nei loro paesi, per non dire quello che sopportano durante il viaggio e poi morire alle porte dell’Europa”, ha detto il Direttore Generale dell’OIM William Lacy Swing.
Nonostante queste tragedie, l’OIM riconosce gli sforzi straordinari delle forze navali presenti nel Mediterraneo, che continuano a salvare vite umane ogni giorno. Il numero di decessi è diminuito in maniera significativa negli ultimi mesi e ciò è dovuto in gran parte al potenziamento dell’operazione Triton: il Mediterraneo è ora pattugliato da un maggior numero di imbarcazioni che si possono spingere fino a dove partono le richieste di soccorso.
Sono quasi 188.000 i migranti salvati nel Mediterraneo fino ad ora e l’OIM sostiene con forza il proseguimento di tali attività. L’Organizzazione ritiene che il numero di migranti in arrivo aumenterà nei prossimi mesi e che la soglia dei 200.000 sarà raggiunta molto presto.

mercoledì 5 agosto 2015

Grecia, la regola dell'elefante

Fiumi d'inchiostro continuano a scorrere in Grecia e sulla Grecia, ma l'unico argomento davvero cruciale per il destino del Paese - la necessità di ristrutturare il debito pubblico - rimane ancora sullo sfondo. "C'è un elefante nel salotto buono", recita un detto inglese dedicato alle verità scomode note a tutti e da tutti ignorate.
Intanto, mentre il pachiderma si destreggia fra porcellane e cristalli, Atene cerca di tornare a una parvenza di normalità. Oggi riapre la Borsa, la settimana scorsa il Governo ha alzato il limite ai prelievi sul conto corrente, portandolo a 420 euro in tre giorni anziché in una settimana. Nel frattempo, i tecnici della Troika (Commissione europea, Banca centrale europea e Fondo monetario internazionale) sono tornati vittoriosi nella capitale greca, dove hanno ricominciato a lavorare indisturbati.
In ballo c'è il nuovo Memorandum che dovrà essere siglato entro la metà del mese, così da permettere il versamento della prima rata del nuovo piano di aiuti entro il 20 agosto, quando Atene dovrà rimborsare alla Bce più di 3 miliardi di euro. Oltre all'innalzamento dell'età pensionabile e alla cancellazione delle baby-pensioni, il pacchetto di riforme imposto dai creditori prevede altri due interventi particolarmente dolorosi, la reintroduzione dei licenziamenti collettivi e lo stop alla contrattazione collettiva.
Sul versante finanziario, invece, la Grecia deve fare i conti con la recente direttiva europea sulle risoluzioni bancarie, un nuovo meccanismo di salvataggio che prevede in prima istanza il contributo di correntisti, azionisti e obbligazionisti degli istituti, anche ricorrendo a prelievi forzosi sui depositi oltre i 100mila euro, come già avvenuto a Cipro. Tra le banche greche e la Bce sono in corso colloqui proprio per allontanare il fantasma dell'haircut in caso di ristrutturazioni.
Quanto all'elefante in salotto, mentre tutti si sforzano di non guardarlo, l'unica istituzione con gli occhi fissi sul pachiderma è il Fmi, che stavolta punta i piedi e fa sul serio: non parteciperà al salvataggio di Atene finché il Paese non darà il via libera a nuove riforme e soprattutto finché i creditori europei non prenderanno un impegno concreto sul fronte della ristrutturazione del debito.
La divergenza fra Bruxelles e Fondo monetario su questo punto è tutta politica. I Paesi europei non intendono ridurre il peso del debito ellenico perché significherebbe ammettere di aver sprecato i soldi dei propri contribuenti. In realtà non c'è stato alcuno spreco, il punto è che l'obiettivo non è mai stato la salvezza della Grecia: quelle risorse sono servite in massima parte a ripulire i bilanci delle banche francesi e tedesche, spostando sui conti pubblici nazionali l'esposizione al debito greco.
Il denaro in questione non tornerà mai indietro, anche perché nel frattempo stiamo infliggendo al Pil della Grecia l'ennesima bordata d'austerità. In queste condizioni, immaginare che un giorno Atene riuscirà a tornare sul mercato, finanziare da sola tutto il proprio debito pubblico e ripagare per intero i prestiti ricevuti significa credere nella versione finanziaria di Babbo Natale. Lo sanno tutti benissimo, ma piuttosto che ammetterlo e scontarne il prezzo politico preferiscono continuare ad alimentare il perverso schema Ponzi che tiene artificialmente in vita i conti di Atene: debiti nuovi per ripagare i debiti vecchi.
Un circolo vizioso che il Fmi vuole interrompere non per buon cuore, ma perché subisce pressioni da più parti: alcuni lamentano mancanza di equità nel trattamento riservato ai diversi Paesi del globo, altri sono contrari all'accanimento terapeutico incapace di guarire la malattia greco-europea. A capeggiare il secondo gruppo sono gli Stati Uniti, che da qualche tempo vanno a caccia di elefanti nei salotti europei.

martedì 4 agosto 2015

CAMBIO DI REGIME IN RUSSIA ?

Come gli eventi in Siria hanno dimostrato, la Russia e’ il mattone piu’pesante da spostare negli infiniti piani delle lobby volti al dominio mondiale; ecco perchè la rimozione di Putin ed il suo rimpiazzo con una marionetta che esegua a bacchetta ogni comando e volere dei neocons e’ l’obiettivo principe dell’intera politica attuale dei neocons suddetti.
Ad ogni modo, le loro possibilità di raggiungere questo loro ambizioso obiettivo sono parecchio scarne e le motivazioni costruite e pretestuose almeno quanto le fantomatiche armi di distruzione di massa di Saddam in Iraq. La nuova “guerra fredda” contro la Russia, di istigazione neoconservatrice, che avrebbe dovuto indebolire l’economia Russa, così portando a proteste anti-governative stile Maidan, ha in realtà fatto schizzare la popolarità del presidente Putin alle stelle, come evidenziano i sondaggi.
Le percentuali di apprezzamento per quest’uomo, per demonizzare il quale i neocons non hanno risparmiato nessuna energia, almeno negli ultimi 12 anni, sono a livelli di record assoluto, quasi il 90% dei Russi hanno una opinione positiva del loro presidente.
L’appoggio alle sue politiche estere è altrettanto solido, con un 70% che approva le scelte in materia di crisi Ucraina.
Il politico pacifista Britannico George Galloway ha twittato:
“La popolarità di Putin tocca livelli record sfiorando il 90% di gradimento delle sue capacità di gestire gli eventi da parte della popolazione. Un’altra storia di successo per la NATO!!”
Ma non è soltanto la popolarità di Putin a rappresentare un macigno che blocca i piani neoconservatori per il cambio di regime. La principale e più agguerrita opposizione a Putin ed al suo partito Russia Unita non è costituita da liberali pro-NATO e pro-Israele, bensi’ dal partito comunista Russo, che è il secondo maggior partito della Nazione,
Il leader comunista Gennady Zyuganov ha ottenuto il 17% dei consensi alla scorsa tornata elettorale (nel Dicembre 2011), e i comunisti nel loro complesso hanno ottenuto 92 seggi sui 450 seggi totali alla Duma.
I comunisti hanno fatto pressione su Putin nell’assumere un ruolo ancora più fermo e deciso contro coloro che essi considerano nemici della Russia. Nel Maggio 2013 presentarono una mozione per suggerire che la Russia convocasse il consiglio di sicurezza ONU in seguito a bombardamenti illegali Israeliani sulla Siria.
“La Siria non è nè la prima, nè certamente l’ultima tra le vittime dell’espansione globale degli Stati Uniti e dell’alleanza NATO. Gli eventi degli ultimi 20 anni mostrano che la Russia stessa si trova costantemente in bilico. Considerato questo, la protezione dei nostri confini passa anche dalle città Siriane, attualmente scena di duri e intensi combattimenti. La Russia non può permettersi di girarsi dall’altra parte mentre la sovversione violenta degli Americani e dei loro satelliti si scaglia contro i nostri alleati”. Così recitava la dichiarazione del comitato centrale del partito comunista.
I sovvertori di regime seriali dell’Occidente si trovano di fronte a una situazione in cui l’unica opposizione credibile esistente a un leader che vorrebbero vedere eliminato sarebbe ancora più decisa nel seguire politiche che gli risulterebbero ancora più complicate da digerire.
E allora che fanno? Con evidente disprezzo delle vedute del popolo Russo e totalmente ignorando il fatto che il partito comunista rappresenta il secondo partito nazionale, ci dipingono i cosiddetti “liberali”, che godono di livelli di supporto popolare del tutto esigui (attualmente intorno all’1%!) come l’ “opposizione democratica”!!!
La linea neoconservativa così recita: “in nome della democrazia i partiti più impopolari tra gli elettori dovrebbero governare la Russia”. Una interpretazione della parola democrazia che straccia 1984 di Orwell.
“Per quanto cambio di regime sia diventata una espressione sporca, la cosa migliore che potrebbe accadere alla Russia, ai suoi vicini, ed al mondo intero, sarebbe un cambiamento, dall’autoritarismo dal pugno duro firmato Vladimir Putin a una qualche forma di democrazia”, ha sostenuto Alexander Motyl su Newsweek in Gennaio, articolo che Newsweek riprese da una prima pubblicazione sul blog del Consiglio Atlantico...
Dunque, in altre parole, l’uomo con il gradimento record dovrebbe essere eliminato così che qualcuno molto meno popolare possa governare la Russia. Tutto, certo, come sempre nel nome di “diffondere la democrazia”!
In ogni caso, semmai non bastasse quanto è stato detto, i piani neoconservatori per la promozione della loro democrazia non democratica in Russia sono sbarrati da un ulteriore macigno, la legislazione Russa sugli agenti stranieri. La legge prevede che tutte le organizzazioni non governative che ricevono finanziamenti esteri e che svolgono attività politiche debbano registrarsi come “agenti esteri”. Inoltre, per i partiti politici Russi è vietato farsi sponsorizzare o svolgere qualsiasi tipo di affari, o forme di partnership con organizzazioni non governative distinte dallo status di “agente estero”.
Questo rende la possibilità di “rivoluzioni colorate” alimentate da finanziamenti esteri parecchio pià difficile a materializzarsi