lunedì 27 febbraio 2012

LE BALLE SULL'ART. 18

Desta grande sconcerto, tra gli operatori giuridici (avvocati, magistrati) che quotidianamente hanno a che fare, per il loro lavoro, con la tematica dei licenziamenti, il livello di approssimazione e di assoluta lontananza dalla realtà con cui tanti autorevoli personaggi della politica, del giornalismo e persino dell’economia affrontano l’argomento, contribuendo ad alimentare una campagna di disinformazione senza precedenti.
Sta infatti entrando nella convinzione del cittadino (che non abbia, in prima persona o attraverso persone vicine, vissuto il dramma della perdita del posto di lavoro) la falsa impressione che in Italia sia pressoché impossibile licenziare, persino nei casi in cui un’impresa, in comprovate difficoltà economiche e finanziarie, con forte calo di ordini e bilanci in rosso, avrebbe necessità di ridurre il proprio personale (caso spesso citato nei dibattiti televisivi per mostrare l’assurdità di una legislazione che ingessi fino a questo punto l’attività imprenditoriale). Queste leggi assurde, poi, si salderebbero con una asserita “eccessiva discrezionalità interpretativa” dei magistrati (categoria della quale, nell’ultimo ventennio, ci hanno insegnato a diffidare) e sarebbero la causa, o quantomeno la concausa, del precariato giovanile.
Senza considerare che è l’Europa a chiederci di rivedere la normativa in tema di licenziamenti, perché eccessivamente rigida. Inoltre il diritto alla reintegrazione nel posto di lavoro sarebbe un’ “anomalia nazionale”.
Come si sa, il principio di propaganda che sostiene che “una bugia ripetuta mille volte diventa verità” paga, ed è estremamente rara, nei talk show televisivi, la presenza di giuslavoristi che raccontino cosa effettivamente accade nei luoghi di lavoro, nelle trattative sindacali, negli studi degli avvocati e nelle aule di giustizia: che cioè la legge già consente di licenziare per motivi “inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa” e che conseguentemente i licenziamenti per riduzione di personale avvengono quotidianamente, sia da parte di aziende con meno di 16 dipendenti (che non hanno altro onere che quello di pagare un’indennità di preavviso molto più bassa di quella prevista in altri paesi europei: solo ove un giudice accerti che le motivazioni addotte non sono vere, dovrà pagare un’ulteriore indennità, comunque non superiore a sei mensilità) sia da parte delle grandi aziende (che in caso di esubero di personale di più di cinque unità devono solo seguire una procedura che coinvolge il sindacato, ma che le vincola – anche in caso di mancato accordo sindacale al suo esito – esclusivamente a seguire dei criteri oggettivi nella selezione del personale da licenziare). Al di fuori dei licenziamenti per motivi economici – rispetto ai quali il giudice ha (solo) il potere di effettuare un controllo: a) di verità sui motivi addotti nei licenziamenti individuali e b) di regolarità della procedura nei licenziamenti collettivi – l’art. 18 si applica, ai datori di lavoro con più di 15 dipendenti, in caso di licenziamenti individuali, quasi sempre per motivi disciplinari.
E qui, di volta in volta, il magistrato valuta il caso concreto, che non è mai come quelli da barzelletta che vengono talvolta riportati per dimostrare l’arbitrarietà del giudice e la presunta assurdità del sistema. Da oltre trent’anni si sente parlare del caso del garzone del macellaio amante della moglie del datore di lavoro, che sarebbe stato reintegrato perchè i fatti avvenivano al di fuori dell’orario di lavoro. Basta che una falsa notizia come questa venga detta in televisione, ed ecco che il quadro è completo e il prodotto confezionato: l’opinione pubblica, dopo un mese di questa martellante propaganda, è pronta ad accettare le giuste soluzioni che – condivise o non condivise da tutti i sindacati – ci facciano fare quel passo decisivo per adeguare l’Italia alle nuove esigenze della globalizzazione e renderla finalmente competitiva anche rispetto ad altri paesi europei che hanno una maggiore flessibilità in uscita.
Ma è proprio vera quest’ultima cosa? Come mai non riusciamo a leggere in nessun giornale che gli indici OCSE che segnalano la cd. rigidità in uscita collocano attualmente l’Italia (indice dell’1.77) al di sotto della media europea (basti dire che la Germania ha l’indice 3.00)? Ed è proprio vero che il diritto alla reintegrazione (in caso di licenziamento dichiarato illegittimo) è previsto solo nel nostro Paese? Premesso che il discorso dovrebbe essere approfondito, va detto che in certi Paesi è addirittura costituzionalizzato (Portogallo) ed in altri è un rimedio possibile (ad esempio Svezia, Germania, Norvegia, Austria, Grecia, Irlanda, in taluni casi Francia) spesso accompagnato da ulteriori tutele.
La verità è che non esiste un vero collegamento tra la ripresa produttiva e la libertà di licenziare, e forte è quindi il timore che il ”governo tecnico”, approfittando della crisi economica, possa dare attuazione ad un antico progetto di riassestamento del potere nei luoghi di lavoro, che per essere esercitato in modo sovrano mal tollera l’esistenza di norme di tutela dei lavoratori dagli abusi. Perchè è questo, e solo questo, il senso profondo dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori: una norma che sanziona il comportamento illegittimo del datore di lavoro ripristinando lo status quo ante che precedeva il licenziamento – lo si ribadisce – illegittimo. E la cui esistenza, per l’appunto, impedisce che il potere nei luoghi di lavoro (con più di 15 addetti, purtroppo, perchè altrove, appunto, tale tutela non c’è) possa essere esercitato in modo arbitrario e lesivo della dignità dei dipendenti.
Ma nello stesso tempo occorre valutare con estrema attenzione anche tutte quelle prospettate soluzioni che, prevedendo la “sospensione temporanea” dell’articolo 18 per i primi tre o quattro anni per i giovani in cerca di un’occupazione stabile, teoricamente non sottrarrebbero la tutela dell’art. 18 “a chi già ce l’ha”.
Occorre, infatti, quanto meno scongiurare l’ipotesi che in tale formula rientrino tutti i nuovi rapporti di lavoro poiché, altrimenti, inevitabilmente vi ricadrebbero anche coloro che, pur avendo goduto in passato della tutela dell’articolo 18, si ritrovino in stato di disoccupazione (dato che, come abbiamo visto, la norma non vieta affatto di licenziare, sanzionando solo i licenziamenti privi di giusta causa o giustificato motivo, e quindi solo quelli illegittimi). E dal momento che, checché se ne dica, il posto di lavoro fisso a vita è veramente un sogno e il mercato del lavoro è in continuo movimento (specie per quanto riguarda l’invocata flessibilità in uscita), nel caso in cui le disposizioni in cantiere non siano circoscritte con precisione, avremmo un esercito di disoccupati attuali o potenziali anche ultracinquantenni che, lungi dal portarsi dietro, infilato nel taschino della giacca, l’articolo 18 goduto nel precedente posto di lavoro, ingrosserebbero le fila dei nuovi precari. Perchè diversamente non possono essere considerati dei dipendenti che per tre o quattro anni siano sottoposti al ricatto della mancata stabilizzazione ove non “righino dritto” senza ammalarsi, fare figli, scioperare o avanzare rivendicazioni di sorta (e se, alla fine del triennio, non vi sarà – com’è probabile – alcuna garanzia di “stabilizzazione” del rapporto, in questo gioco dell’oca si potrà tornare alla casella di partenza, con un diverso datore di lavoro…).
Ecco quindi che, per altra strada, si arriverebbe a ridimensionare anche i diritti di coloro ai quali l’articolo 18 attualmente si applica, risultato che la propaganda vorrebbe finalizzato a favorire quelli che ne sono esclusi: come ha scritto Umberto Romagnoli, è come avere la pretesa di far crescere i capelli ai calvi rapando chi ne ha di più.
Un’ultima annotazione su un’altra soluzione di cui si sente parlare: la sostituzione della sanzione prevista dall’articolo 18 (reintegrazione) con un’indennità in tutti i casi di licenziamenti semplicemente motivati da ragioni economiche.
Si è già detto che tali licenziamenti sono già consentiti, e secondo l’art. 30 della legge 183 del 2010 “il controllo giudiziale è limitato esclusivamente (…) all’accertamento del presupposto di legittimità e non può essere esteso al sindacato di merito sulle valutazioni tecniche, organizzative e produttive che competono al datore di lavoro”.
Cosa si vuole di più? Perchè si vorrebbe impedire al giudice anche un accertamento di legittimità (e non di merito) sulle motivazioni addotte? Forte è il sospetto che in questo modo si voglia consentire al datore di lavoro di liberarsi di dipendenti scomodi semplicemente adducendo una motivazione economica, anche se non vera. Sancendo così, automaticamente, il pieno ritorno agli anni cinquanta, quando i licenziamenti erano assolutamente liberi e la Costituzione nei luoghi di lavoro, faticosamente introdotta nel 1970 dallo Statuto dei lavoratori, semplicemente un sogno.
Auspichiamo proprio che, con la scusa di dover riformare il mercato del lavoro, non si arrivi a tanto.

martedì 14 febbraio 2012

GIUSTA SENTENZA

Una volta tanto, chapeau! Anche i più distratti  hanno appreso dai Tg la storica sentenza  sull’Eternit  al processo per le migliaia di vittime dell’amianto a Casal Monferrato.  I 16 anni di condanna ai due proprietari per  disastro colposo permanente e omissione dolosa di anti infortunistica,  sono apertura per  Tg 3, TG 5, Tg La 7, secondo titolo per Tg 1 e Studio Aperto, terzo per Tg 2 e Tg 4. Già nelle edizioni di pranzo l’attenzione e l’attesa per la sentenza era stata alta. Su tutti campeggiano le dichiarazione del Pm Guariniello e le lacrime di commozione dei parenti delle 2.300 vittime di Casale. Una sentenza la cui lettura ha occupato tre ore, a testimoniare quanto l’amianto abbia segnato un’intera comunità, l’intero Paese. Per non parlare dei morti che sta ancora procurando, e non solo in Italia. I Tg riprendono tutto questo e dopo la sentenza per la Thyssen, segnalano il valore storico del riconoscimento delle responsabilità di chi ha costruito impianti e prodotto beni senza preoccuparsi della sicurezza sul lavoro e della salute di operai e cittadini. Nel commento abbiano sentito il collega Santo Della Volpe, che da vent’anni segue questa emblematica vicenda e che ci ha “riversato” dal Tribunale di Torino tutto il suo entusiasmo e la sua emozione.  Complimenti, quindi per una volta tanto a tutti i Tg.

giovedì 2 febbraio 2012

RIFLESSIONI

La soppressione della democrazia, l’aumento del divario sociale ed economico tra poveri e ricchi, il disfacimento dello stato sociale, la privatizzazione e la conseguente applicazione delle norme del mercato a tutte le sfere della nostra vita, e così via. Quando l’assurdo ci viene propinato ogni giorno come normale, è solo una questione di tempo prima che uno si senta malato o anomalo. Di seguito provo a riassumere alcune idee che ritengo fondamentali.
1. Parlare di assalto alla democrazia è un eufemismo. Una situazione in cui alla minoranza di una minoranza è consentito nuocere al bene di tutti per l’arricchimento di pochi, è postdemocratica. La colpa è della collettività, perché non è stata in grado di eleggere persone che tutelassero i suoi interessi.
2. Ogni giorno sentiamo che i governi dovrebbero “riconquistare la fiducia dei mercati“. Con “mercati” si intendono prima di tutto le borse e i mercati finanziari, ossia quegli attori che speculano per i propri interessi o per conto di altri, con l’obiettivo di ottenere il più alto profitto possibile. Non sono gli stessi che hanno alleggerito la collettività di una quantità inimmaginabile di miliardi? È la loro fiducia che i nostri sommi rappresentanti dovrebbero cercare in ogni modo di ottenere?
3. Ci indignamo, a ragione, per la “democrazia guidata” di Vladimir Putin. Ma perché ad Angela Merkel non è stata chiesto di dimettersi, quando ha parlato di “democrazia conforme al mercato“?
4. Con il crollo del blocco orientale, alcune ideologie hanno raggiunto un’egemonia talmente incontestata da essere percepite come normali. Un esempio di questo potrebbe essere la privatizzazione, vista come qualcosa di completamente positivo. Tutto quello che possedeva la collettività era ritenuto inutile e dannoso per i clienti. Così è emerso un clima che, presto o tardi, avrebbe portato per forza all’esautorazione della collettività.
5. Un’altra ideologia che ha avuto enorme fortuna è quella della crescita: “Senza crescita non c’è nulla“, ha decretato già diversi anni fa la cancelliera tedesca. Senza parlare di queste due concezioni, non si può neanche affrontare un discorso sulla crisi dell’euro.
6. Il linguaggio dei politici non è più in grado di rappresentare la realtà (avevo già vissuto una situazione simile nella Ddr). È un linguaggio che esprime sicurezza di sé, che non si sottopone più alla verifica di un interlocutore. La politica è degenerata fino a diventare uno strumento, un soffietto usato per attizzare la crescita. Il cittadino è ridotto a consumatore. Crescita di per sé non significa nulla. L’ideale della società sarebbe un playboy che nel minor tempo possibile consuma il massimo. In questo senso, una guerra comporterebbe un’impennata vertiginosa della crescita.
7. Domande ovvie come “a chi giova?,chi ci guadagna?“, sono diventate sconvenienti. Non siamo tutti sulla stessa barca? Chi dubita di ciò minaccia la pace sociale. La polarizzazione economica della società è avvenuta mentre si predicava a gran voce che abbiamo tutti gli stessi interessi. Basta fare un giro per Berlino. Nei quartieri più belli, i pochi edifici non restaurati di regola sono scuole, asili, case di riposo, piscine o ospedali. Nelle zone cosiddette “problematiche” gli edifici pubblici in rovina si notano di meno. Lì sono le fessure tra i denti che suggeriscono il livello di povertà. Oggi si dice, non senza demagogia: abbiamo vissuto al di sopra delle nostre possibilità, siamo stati ingordi.
8. Sarebbe democrazia se la politica intervenisse con tasse, leggi e controlli sulla struttura economica esistente e costringesse gli attori dei mercati a seguire binari compatibili con gli interessi della collettività. Sono domande semplici: a chi giova? chi ci guadagna? è un bene per la collettività? E soprattutto: quale società vogliamo? Questa per me sarebbe democrazia.

martedì 24 gennaio 2012

Gli equilibrismi di Monti

C’è il partito del “meglio che niente” e quello del “si poteva fare di più”. Poi c’è la posizione di chi ritiene in senso lato che liberalizzare sia dannoso per l’economia. Ma a prescindere dal giudizio di merito, il decreto varato venerdì sera dal governo Monti ci racconta anche una storia politica. Ci dà qualche dettaglio in più per capire di chi è l’Italia oggi e di chi probabilmente continuerà a essere nel prossimo futuro.Gli aspetti fondamentali sono due: il rapporto dell’Esecutivo con il Pdl e i conflitti d’interesse che zavorrano la squadra del Professore. Sul primo versante, è evidente come il pacchetto di liberalizzazioni non danneggi in modo sostanziale l’establishment berlusconiano, la sua politica e la sua visione della società. Anzi, spuntando la pallottola del decreto, i pidiellini hanno limitato i danni al minimo proprio sul versante che li vedeva più vulnerabili. Evidentemente le pressioni di Gianni Letta sul sottosegretario Antonia Catricalà hanno funzionato. E chissà se il Pd troverà il modo di uscire altrettanto indenne dalla riforma del lavoro, ormai alle porte.
L’unica vera sconfitta per Silvio Berlusconi è arrivata sul campo delle frequenze televisive. Con una mossa chirurgica, da politicante consumato più che da banchiere, il ministro Corrado Passera ha deciso di congelare per tre mesi – ma non di revocare – il beauty contest varato dal Cavaliere (la procedura che avrebbe di fatto regalato i nuovi canali digitali a Mediaset, Rai e Telecom Italia). In questo modo Passera si è attribuito il ruolo di mediatore fra le parti, lasciando pendere una spada di Damocle hi-tech sulle teste del Pdl.
Tenere in sospeso la vicenda vuol dire mantenere alta la tensione fra i berluscones – che fra il Parlamento e l’azienda del padrone non avranno dubbi su cosa scegliere – e intanto far passare il tempo. E’ probabile che alla fine l’Agcom troverà una soluzione di compromesso (asta a pagamento più generoso contentino al Biscione), ma quando ciò avverrà i decreti più controversi saranno già diventati legge. E sarà ormai troppo tardi per andare alle elezioni anticipate.
Il secondo punto fondamentale è quello che riguarda le dinamiche interne al drappello dei tecnici. Quando si tratta di legiferare è prassi che i governanti cedano alle pressioni delle lobby di turno. Ed essendo questo un governo di banchieri, non stupisce che le mancanze più gravi dell’ultimo decreto riguardino proprio le banche e le loro cugine, le assicurazioni.
Partiamo dagli istituti di credito. Nella versione finale del provvedimento troviamo una brutta sorpresa per quanto riguarda il nuovo conto corrente di base (quello a costi ridotti, pensato ad esempio per gli anziani, che dovranno aprirlo per legge se vogliono incassare pensioni superiori a mille euro). Il funzionamento del nuovo tipo di conto non sarà stabilito dal governo – com’era scritto nelle bozze precedenti – ma da un’intesa fra banche, Poste e Banca d’Italia. Vale a dire i diretti interessati. Non basta: anche la riduzione delle commissioni sull’utilizzo della moneta elettronica è affidata a un accordo fra le parti in causa (Associazione bancaria, consorzio bancomat e Associazione dei prestatori di servizi a pagamento).
Un altro aspetto riguarda le polizze vita che le banche obbligano a stipulare per accendere un mutuo. Di solito la compagnia assicuratrice è legata alla banca stessa, che così incrementa i profitti. L’Antitrust aveva suggerito di abolire il binomio obbligatorio polizza-mutuo, ma il governo si è limitato a imporre agli istituti di credito di presentare al cliente i preventivi di almeno due diverse compagnie. C’è da scommettere che le banche sapranno indirizzare a dovere i loro clienti.
Un regalino molto simile è stato pensato anche per le compagnie d’assicurazione. Dal punto di vista dei cittadini, la scelta più vantaggiosa sarebbe stata di sostituire i cosiddetti agenti monomandatari con i broker assicurativi. Si trattava di rimpiazzare le figure legate ai singoli gruppi (di cui vendono i prodotti) con dei professionisti pagati direttamente dai clienti e quindi interessati a suggerire di volta in volta le soluzioni più convenienti per i consumatori piuttosto che per le compagnie. Anche in questo caso niente da fare. Il decreto – che peraltro parla solo dell’RC auto – obbliga gli agenti ad informare i clienti sulle proposte di almeno tre compagnie. Ma secondo voi vi consiglieranno la loro polizza o quella della concorrenza?
Fra le altre posizioni di potere che non sono state intaccate, spicca quella di Trenitalia. Dal decreto sono scomparse in corso d’opera almeno due misure fondamentali: la scissione fra la holding Fs e la rete ferroviaria Rfi (rinviata a una decisione della nuova Autorità dei Trasporti) e l’obbligo di gara per la concessione del trasporto regionale da parte delle Regioni. Per non parlare poi dell’inchino fatto all’Unione Petrolifera, che ha portato a ridurre drasticamente le liberalizzazioni in materia di carburanti.
Ci sono infine le querelle legate a quelle categorie che, pur avendo un impatto economico minore, suscitano inspiegabilmente un’attenzione mediatica senza pari. Vale la pena di rifletterci, altrimenti si rischia di perdere contatto col quadro generale. E si finisce col pensare che il rilancio del Pil dipenda solo dai taxi.

giovedì 12 gennaio 2012

LA LEGA A DOPPIA MORALITA'

La Padania rischia di chiudere, le sezioni locali non sanno più come pagare gli affitti, e la Lega Nord dopo 20 anni di fallimenti politici e finanziari, sapete che fa? Investimenti finanziari all’estero per milioni di euro, tutto in pochissimi giorni, tra valuta norvegese, fondo “Krispa Enterprise ltd” di base a Larnaca, nell’isola di Cipro, e fetta più grossa riservata ad un fondo della Tanzania, Africa.
Otto milioni di euro in tutto, soldi nostri, di “Roma ladrona”, giunti nelle casse del Carroccio via rimborso elettorale. A gestire questa intricata serie di investimenti l’ex Sottosegretario Belsito personaggio ambiguo, discusso, fedelissimo di Bossi e tesoriere del partito, in un’operazione che tirerebbe in mezzo anche “il consulente finanziario Stefano Bonet, coinvolto in un rocambolesco fallimento societario nel 2010 e in affari con l’ex ministro “meteora” Aldo Brancher”.
E meno male che i leghisti erano quelli “radicati sul territorio”, vicini agli imprenditori del Nord, attenti all’economia reale, quelli che sbraitavano “i nostri soldi restino in Padania!”. Proprio loro, acerrimi nemici dei “banchieri”, del loro “Governo” e di quel demonio chiamato “finanza”, quelli che gli africani “fuori dalle palle”, però se c’è da fare un po’ di soldi dalle loro parti, perché no!

lunedì 2 gennaio 2012

L'Europa e la Paura

Il 2011 per l’Europa è stato l’anno della paura. Sotto il peso della crisi dei debiti sovrani dei paesi periferici dell’eurozona, il maggiore progetto messo in campo dall’Ue, ovvero l’euro, ha vacillato. E dietro all’apparente forza dell’asse franco-tedesco, sia Berlino sia Parigi sanno che non possono fare a meno dell’eurozona. Oltre ai nuovi trattati sulla disciplina fiscale, la crescita economica rimane il più grande dei problemi.
Il 2011 è stato l’anno in cui l’eurozona ha capito il significato della parola paura. L’Italia ha scoperto di essere uno degli anelli più deboli di un’Europa che ha perso una bussola che forse non aveva nemmeno. L’asse composto da Francia e Germania, che ha caratterizzato il 2011 per buona parte, rischia di spaccarsi con l’appuntamento elettorale transalpino, in cui si capirà quale direzione potrà prendere un’Europa che mai è stata così disunita. Ma non solo. Nel 2011 è stato proprio il maggiore progetto messo in campo dall’Ue, ovvero l’euro, a vacillare. A dieci anni dalla sua entrata in circolazione, la moneta unica europea ha mostrato tutte le sue debolezze strutturali. 17 Paesi, 17 economie, 17 voci: l’eurozona somiglia sempre più a un condominio dove gli inquilini continuano a discutere animatamente mentre fuori tutto cambia. Con una sola differenza. Da questo condominio, attualmente, non si può uscire.

Il 15 novembre è stata una data storica per l’Italia. Il Credit default swap (Cds), cioè il derivato che funge da assicurazione contro il fallimento, relativo ai titoli di Stato italiani ha superato quota 600 punti base. Vale a dire che un investitore, per assicurare un bond italiano con scadenza quinquennale del valore di 10 milioni di dollari, doveva spendere 600mila dollari. Un valore, quello del Cds, che testimoniava il pericolo in cui è entrata l’Italia. Un pericolo che, nonostante il cambio al vertice politico fra Silvio Berlusconi e Mario Monti, non è ancora terminato. La corsa verso una manovra economica in grado di mettere in sicurezza i conti pubblici è stata veloce, ma non basta ancora. Questo perché, se è vero che nel 2011 ci sarà un piccolo avanzo primario, resta da risolvere il maggiore dei problemi italiani: la crescita economica. Ma non solo. In questo anno abbiamo imparato cosa significano termini prima ignorati come spread, come Bund, come Btp. Eppure, il lavoro è solo all’inizio. Lo testimonia il fatto che, durante l’ultimo G20 novembrino di Cannes, Roma ha ufficialmente chiesto il monitoraggio del Fondo monetario internazionale. Negli ultimi 365 giorni, iniziati con uno spread fra Btp e Bund a quota 185 punti base e terminati sopra i 500, abbiamo imparato che l’Italia non è troppo grande per fallire, ma troppo grande per essere salvata. Come nel 1992, quando fu messa in piedi la più imponente manovra economica che la storia italiana possa ricordare, il 2011 è stato un anno di sofferenze, sia bancarie, sia economiche, sia sociali.

Se il contagio della crisi dell’eurodebito ha divorato l’Italia fra maggio e novembre, Francia e Germania non hanno vissuto momenti felici. Parigi e Berlino hanno vacillato sotto i colpi della sfiducia degli investitori, che hanno ridotto al lumicino la liquidità nel mercato interbancario europeo. Il cancelliere tedesco Angela Merkel e il presidente francese Nicolas Sarkozy hanno dimostrato di non saper gestire, soprattutto per motivi di elettorato nei rispettivi Paesi, una crisi che poteva e doveva essere l’occasione per portare più stabilità a un’Europa unita e stabile solo sulla carta. I continui vertici europei, come l’ultimo del 9 dicembre scorso, hanno provocato più danni che benefici, complice anche un modello di gestione della comunicazione inadeguato. Dietro a un’apparente forza, sia Berlino sia Parigi sanno che non possono fare a meno dell’eurozona. Ma l’impressione data nel corso di quest’anno è stata l’esatto contrario.



C’è poi la Grecia. Il 2011 doveva essere l’anno della risoluzione della crisi ellenica, ma è stato quello della presa di coscienza che se l’Europa vacilla su Atene, non può che vacillare anche sul resto. Con il Consiglio europeo del 21 luglio scorso l’Ue ha deciso di introdurre un meccanismo di coinvolgimento dei creditori privati nel salvataggio di Atene. È nato quindi il Private sector involvement (Psi), che altro non è se non una svalutazione volontaria del valore nominale dei bond ellenici detenuti in portafoglio dalle banche, cioè un haircut. La situazione è presto degenerata in quanto gli istituti di credito, capitanati dalla lobby bancaria Institute of international finance (Iif), non potevano tollerare un haircut pesante come invece necessiterebbe la Grecia nel suo processo di ristrutturazione del debito. Quest’ultimo, circa 365 miliardi di euro secondo i dati del Fondo monetario internazionale (Fmi), se vuole scendere a livelli sostenibili deve essere tagliato. Ma le banche europee non possono più sopportare uno stress di questo genere. Non a caso l’European banking authority (Eba), cioè l’organo di vigilanza bancaria Ue, ha imposto un piano di ricapitalizzazione bancaria da 115 miliardi di euro, da completare entro la prima metà del 2012.

Infine, l’euro. Se a inizio 2011 l’ipotesi di una disgregazione dell’eurozona era solo nella mente degli economisti più radicali, ora è sulla bocca di tutti. Ma non solo. Sono diversi gli operatori finanziari che si stanno preparando in caso di euro break-up, cioè collasso dell’euro. Da un lato ci sono CLS, la maggiore clearing house del mercato valutario, e ICAP, il principale interdealer broker globale. Entrambi stanno ragionando su quali potrebbero essere gli effetti di un ritorno alle valute nazionali in Europa, sia attraverso stress test sia tramite contatti con le maggiori banche internazionali. Dall’altro lato ci sono le banche centrali e gli organi di vigilanza finanziaria. Uno dei Paesi più attivi è il Regno Unito. Alcune settimane fa il governatore della Bank of England, Mervyn King, ha dichiarato che esistono dei piani di contingenza nel caso l’euro cessasse di esistere. Lo stesso ha fatto la Financial services authority (Fsa), la Consob britannica. Parole analoghe sono state dette anche dai vertici della Swedbank, la prima banca di Svezia, che sta analizzando quali potrebbero essere gli scenari dopo un collasso dell’euro. Difficile che si arrivi a una disgregazione totale, più probabile che possa essere messo in piedi un meccanismo di uscita temporanea, dato che il Trattato di Lisbona non disciplina l’uscita dalla zona euro, ma dall’Europa.

Nel 2012 si dovrà fare in fretta. Il cancelliere tedesco Angela Merkel ha più volte ribadito negli ultimi due mesi di voler spingere per una riforma dei Trattati europei entro il prossimo dicembre. Tuttavia, gli ostacoli non sono pochi. Il primo, più importante di tutti gli altri, sono le elezioni francesi. Dopo la capitolazione italiana, a vacillare è stata Parigi, spinta al ribasso da un sistema bancario imbottito di titoli di Stato italiani. La spada di Damocle che pende sulla presidenza di Nicolas Sarkozy si chiama AAA. È questo infatti l’attuale rating che ha la Francia, il massimo possibile. L’impressione, come lasciato intendere da Standard & Poor’s, è che possa durare ancora per poco. Il completamento della revisione dei conti pubblici e delle prospettive future di Parigi è previsto per il primo trimestre 2012. In tempo, quindi, per la tornata elettorale transalpina. Il primo turno sarà il 22 aprile, mentre il secondo si terrà il 6 maggio e si avrà un primo riscontro di quale direzione potrà prendere l’asse europeo ribattezzato Merkozy dalla stampa internazionale.

A guardare con attenzione a ciò che succede in Europa è il mondo intero. La crescita economica rimane il più grande dei problemi. Nel corso del 2011, nonostante i continui richiami alla calma dei politici, l’Europa ha già compreso quale sarà lo spauracchio del 2012, cioè la recessione. Certo, la Banca centrale europea, che ha visto un avvicendamento fra Jean-Claude Trichet e Mario Draghi, ha cambiato la sua operatività, diventando più aggressiva e pronta a reagire agli shock esogeni, ma l’impressione è che non basti ancora. Infatti la Bce e il suo mandato sono diventato uno dei macro temi del 2011. Eppure, come ha spiegato più volte Berlino, l’Eurotower non diventerà mai un prestatore di ultima istanza, come invece è la Federal Reserve statunitense. Resta il fatto che abbiamo compreso come una delle lacune dell’eurozona è che esiste un sistema monetario comune, ma non c’è un coordinamento centrale delle politiche economiche e fiscali. Nel 2012 si capirà che direzione prenderà l’Europa anche sotto questo punto di vista, dopo i tentennamenti di questi dodici mesi.

Dopo dieci anni di euro nelle tasche dei cittadini europei, la domanda è solo una: sopravviverà? I costi di un collasso dell’eurozona non sono sostenibili senza sacrifici immensi. Dopo aver provato la paura legata all’euro break-up, l’Europa deve dimostrare che l’Unione economica e monetaria non è un progetto fallito. Non sarà facile.

venerdì 23 dicembre 2011

UN NATALE DIFFICILE PER TUTTI

Con l'avvicinarsi delle festività natalizie auguro a tutti delle feste serene in famiglia e con i propri cari sperando che questo difficile natale, per il momento economico, sociale, politico ed economico di enorme dififcoltà, possa essere un punto di partenza per tutti per un 2012 diverso....la speranza è l'ultima a morire...a risentirci nel 2012...!!!!!!!!!!!!