Il 2011 per l’Europa è stato l’anno della paura. Sotto il peso della crisi dei debiti sovrani dei paesi periferici dell’eurozona, il maggiore progetto messo in campo dall’Ue, ovvero l’euro, ha vacillato. E dietro all’apparente forza dell’asse franco-tedesco, sia Berlino sia Parigi sanno che non possono fare a meno dell’eurozona. Oltre ai nuovi trattati sulla disciplina fiscale, la crescita economica rimane il più grande dei problemi.
Il 2011 è stato l’anno in cui l’eurozona ha capito il significato della parola paura. L’Italia ha scoperto di essere uno degli anelli più deboli di un’Europa che ha perso una bussola che forse non aveva nemmeno. L’asse composto da Francia e Germania, che ha caratterizzato il 2011 per buona parte, rischia di spaccarsi con l’appuntamento elettorale transalpino, in cui si capirà quale direzione potrà prendere un’Europa che mai è stata così disunita. Ma non solo. Nel 2011 è stato proprio il maggiore progetto messo in campo dall’Ue, ovvero l’euro, a vacillare. A dieci anni dalla sua entrata in circolazione, la moneta unica europea ha mostrato tutte le sue debolezze strutturali. 17 Paesi, 17 economie, 17 voci: l’eurozona somiglia sempre più a un condominio dove gli inquilini continuano a discutere animatamente mentre fuori tutto cambia. Con una sola differenza. Da questo condominio, attualmente, non si può uscire.
Il 15 novembre è stata una data storica per l’Italia. Il Credit default swap (Cds), cioè il derivato che funge da assicurazione contro il fallimento, relativo ai titoli di Stato italiani ha superato quota 600 punti base. Vale a dire che un investitore, per assicurare un bond italiano con scadenza quinquennale del valore di 10 milioni di dollari, doveva spendere 600mila dollari. Un valore, quello del Cds, che testimoniava il pericolo in cui è entrata l’Italia. Un pericolo che, nonostante il cambio al vertice politico fra Silvio Berlusconi e Mario Monti, non è ancora terminato. La corsa verso una manovra economica in grado di mettere in sicurezza i conti pubblici è stata veloce, ma non basta ancora. Questo perché, se è vero che nel 2011 ci sarà un piccolo avanzo primario, resta da risolvere il maggiore dei problemi italiani: la crescita economica. Ma non solo. In questo anno abbiamo imparato cosa significano termini prima ignorati come spread, come Bund, come Btp. Eppure, il lavoro è solo all’inizio. Lo testimonia il fatto che, durante l’ultimo G20 novembrino di Cannes, Roma ha ufficialmente chiesto il monitoraggio del Fondo monetario internazionale. Negli ultimi 365 giorni, iniziati con uno spread fra Btp e Bund a quota 185 punti base e terminati sopra i 500, abbiamo imparato che l’Italia non è troppo grande per fallire, ma troppo grande per essere salvata. Come nel 1992, quando fu messa in piedi la più imponente manovra economica che la storia italiana possa ricordare, il 2011 è stato un anno di sofferenze, sia bancarie, sia economiche, sia sociali.
Se il contagio della crisi dell’eurodebito ha divorato l’Italia fra maggio e novembre, Francia e Germania non hanno vissuto momenti felici. Parigi e Berlino hanno vacillato sotto i colpi della sfiducia degli investitori, che hanno ridotto al lumicino la liquidità nel mercato interbancario europeo. Il cancelliere tedesco Angela Merkel e il presidente francese Nicolas Sarkozy hanno dimostrato di non saper gestire, soprattutto per motivi di elettorato nei rispettivi Paesi, una crisi che poteva e doveva essere l’occasione per portare più stabilità a un’Europa unita e stabile solo sulla carta. I continui vertici europei, come l’ultimo del 9 dicembre scorso, hanno provocato più danni che benefici, complice anche un modello di gestione della comunicazione inadeguato. Dietro a un’apparente forza, sia Berlino sia Parigi sanno che non possono fare a meno dell’eurozona. Ma l’impressione data nel corso di quest’anno è stata l’esatto contrario.
C’è poi la Grecia. Il 2011 doveva essere l’anno della risoluzione della crisi ellenica, ma è stato quello della presa di coscienza che se l’Europa vacilla su Atene, non può che vacillare anche sul resto. Con il Consiglio europeo del 21 luglio scorso l’Ue ha deciso di introdurre un meccanismo di coinvolgimento dei creditori privati nel salvataggio di Atene. È nato quindi il Private sector involvement (Psi), che altro non è se non una svalutazione volontaria del valore nominale dei bond ellenici detenuti in portafoglio dalle banche, cioè un haircut. La situazione è presto degenerata in quanto gli istituti di credito, capitanati dalla lobby bancaria Institute of international finance (Iif), non potevano tollerare un haircut pesante come invece necessiterebbe la Grecia nel suo processo di ristrutturazione del debito. Quest’ultimo, circa 365 miliardi di euro secondo i dati del Fondo monetario internazionale (Fmi), se vuole scendere a livelli sostenibili deve essere tagliato. Ma le banche europee non possono più sopportare uno stress di questo genere. Non a caso l’European banking authority (Eba), cioè l’organo di vigilanza bancaria Ue, ha imposto un piano di ricapitalizzazione bancaria da 115 miliardi di euro, da completare entro la prima metà del 2012.
Infine, l’euro. Se a inizio 2011 l’ipotesi di una disgregazione dell’eurozona era solo nella mente degli economisti più radicali, ora è sulla bocca di tutti. Ma non solo. Sono diversi gli operatori finanziari che si stanno preparando in caso di euro break-up, cioè collasso dell’euro. Da un lato ci sono CLS, la maggiore clearing house del mercato valutario, e ICAP, il principale interdealer broker globale. Entrambi stanno ragionando su quali potrebbero essere gli effetti di un ritorno alle valute nazionali in Europa, sia attraverso stress test sia tramite contatti con le maggiori banche internazionali. Dall’altro lato ci sono le banche centrali e gli organi di vigilanza finanziaria. Uno dei Paesi più attivi è il Regno Unito. Alcune settimane fa il governatore della Bank of England, Mervyn King, ha dichiarato che esistono dei piani di contingenza nel caso l’euro cessasse di esistere. Lo stesso ha fatto la Financial services authority (Fsa), la Consob britannica. Parole analoghe sono state dette anche dai vertici della Swedbank, la prima banca di Svezia, che sta analizzando quali potrebbero essere gli scenari dopo un collasso dell’euro. Difficile che si arrivi a una disgregazione totale, più probabile che possa essere messo in piedi un meccanismo di uscita temporanea, dato che il Trattato di Lisbona non disciplina l’uscita dalla zona euro, ma dall’Europa.
Nel 2012 si dovrà fare in fretta. Il cancelliere tedesco Angela Merkel ha più volte ribadito negli ultimi due mesi di voler spingere per una riforma dei Trattati europei entro il prossimo dicembre. Tuttavia, gli ostacoli non sono pochi. Il primo, più importante di tutti gli altri, sono le elezioni francesi. Dopo la capitolazione italiana, a vacillare è stata Parigi, spinta al ribasso da un sistema bancario imbottito di titoli di Stato italiani. La spada di Damocle che pende sulla presidenza di Nicolas Sarkozy si chiama AAA. È questo infatti l’attuale rating che ha la Francia, il massimo possibile. L’impressione, come lasciato intendere da Standard & Poor’s, è che possa durare ancora per poco. Il completamento della revisione dei conti pubblici e delle prospettive future di Parigi è previsto per il primo trimestre 2012. In tempo, quindi, per la tornata elettorale transalpina. Il primo turno sarà il 22 aprile, mentre il secondo si terrà il 6 maggio e si avrà un primo riscontro di quale direzione potrà prendere l’asse europeo ribattezzato Merkozy dalla stampa internazionale.
A guardare con attenzione a ciò che succede in Europa è il mondo intero. La crescita economica rimane il più grande dei problemi. Nel corso del 2011, nonostante i continui richiami alla calma dei politici, l’Europa ha già compreso quale sarà lo spauracchio del 2012, cioè la recessione. Certo, la Banca centrale europea, che ha visto un avvicendamento fra Jean-Claude Trichet e Mario Draghi, ha cambiato la sua operatività, diventando più aggressiva e pronta a reagire agli shock esogeni, ma l’impressione è che non basti ancora. Infatti la Bce e il suo mandato sono diventato uno dei macro temi del 2011. Eppure, come ha spiegato più volte Berlino, l’Eurotower non diventerà mai un prestatore di ultima istanza, come invece è la Federal Reserve statunitense. Resta il fatto che abbiamo compreso come una delle lacune dell’eurozona è che esiste un sistema monetario comune, ma non c’è un coordinamento centrale delle politiche economiche e fiscali. Nel 2012 si capirà che direzione prenderà l’Europa anche sotto questo punto di vista, dopo i tentennamenti di questi dodici mesi.
Dopo dieci anni di euro nelle tasche dei cittadini europei, la domanda è solo una: sopravviverà? I costi di un collasso dell’eurozona non sono sostenibili senza sacrifici immensi. Dopo aver provato la paura legata all’euro break-up, l’Europa deve dimostrare che l’Unione economica e monetaria non è un progetto fallito. Non sarà facile.
Il 2011 è stato l’anno in cui l’eurozona ha capito il significato della parola paura. L’Italia ha scoperto di essere uno degli anelli più deboli di un’Europa che ha perso una bussola che forse non aveva nemmeno. L’asse composto da Francia e Germania, che ha caratterizzato il 2011 per buona parte, rischia di spaccarsi con l’appuntamento elettorale transalpino, in cui si capirà quale direzione potrà prendere un’Europa che mai è stata così disunita. Ma non solo. Nel 2011 è stato proprio il maggiore progetto messo in campo dall’Ue, ovvero l’euro, a vacillare. A dieci anni dalla sua entrata in circolazione, la moneta unica europea ha mostrato tutte le sue debolezze strutturali. 17 Paesi, 17 economie, 17 voci: l’eurozona somiglia sempre più a un condominio dove gli inquilini continuano a discutere animatamente mentre fuori tutto cambia. Con una sola differenza. Da questo condominio, attualmente, non si può uscire.
Il 15 novembre è stata una data storica per l’Italia. Il Credit default swap (Cds), cioè il derivato che funge da assicurazione contro il fallimento, relativo ai titoli di Stato italiani ha superato quota 600 punti base. Vale a dire che un investitore, per assicurare un bond italiano con scadenza quinquennale del valore di 10 milioni di dollari, doveva spendere 600mila dollari. Un valore, quello del Cds, che testimoniava il pericolo in cui è entrata l’Italia. Un pericolo che, nonostante il cambio al vertice politico fra Silvio Berlusconi e Mario Monti, non è ancora terminato. La corsa verso una manovra economica in grado di mettere in sicurezza i conti pubblici è stata veloce, ma non basta ancora. Questo perché, se è vero che nel 2011 ci sarà un piccolo avanzo primario, resta da risolvere il maggiore dei problemi italiani: la crescita economica. Ma non solo. In questo anno abbiamo imparato cosa significano termini prima ignorati come spread, come Bund, come Btp. Eppure, il lavoro è solo all’inizio. Lo testimonia il fatto che, durante l’ultimo G20 novembrino di Cannes, Roma ha ufficialmente chiesto il monitoraggio del Fondo monetario internazionale. Negli ultimi 365 giorni, iniziati con uno spread fra Btp e Bund a quota 185 punti base e terminati sopra i 500, abbiamo imparato che l’Italia non è troppo grande per fallire, ma troppo grande per essere salvata. Come nel 1992, quando fu messa in piedi la più imponente manovra economica che la storia italiana possa ricordare, il 2011 è stato un anno di sofferenze, sia bancarie, sia economiche, sia sociali.
Se il contagio della crisi dell’eurodebito ha divorato l’Italia fra maggio e novembre, Francia e Germania non hanno vissuto momenti felici. Parigi e Berlino hanno vacillato sotto i colpi della sfiducia degli investitori, che hanno ridotto al lumicino la liquidità nel mercato interbancario europeo. Il cancelliere tedesco Angela Merkel e il presidente francese Nicolas Sarkozy hanno dimostrato di non saper gestire, soprattutto per motivi di elettorato nei rispettivi Paesi, una crisi che poteva e doveva essere l’occasione per portare più stabilità a un’Europa unita e stabile solo sulla carta. I continui vertici europei, come l’ultimo del 9 dicembre scorso, hanno provocato più danni che benefici, complice anche un modello di gestione della comunicazione inadeguato. Dietro a un’apparente forza, sia Berlino sia Parigi sanno che non possono fare a meno dell’eurozona. Ma l’impressione data nel corso di quest’anno è stata l’esatto contrario.
C’è poi la Grecia. Il 2011 doveva essere l’anno della risoluzione della crisi ellenica, ma è stato quello della presa di coscienza che se l’Europa vacilla su Atene, non può che vacillare anche sul resto. Con il Consiglio europeo del 21 luglio scorso l’Ue ha deciso di introdurre un meccanismo di coinvolgimento dei creditori privati nel salvataggio di Atene. È nato quindi il Private sector involvement (Psi), che altro non è se non una svalutazione volontaria del valore nominale dei bond ellenici detenuti in portafoglio dalle banche, cioè un haircut. La situazione è presto degenerata in quanto gli istituti di credito, capitanati dalla lobby bancaria Institute of international finance (Iif), non potevano tollerare un haircut pesante come invece necessiterebbe la Grecia nel suo processo di ristrutturazione del debito. Quest’ultimo, circa 365 miliardi di euro secondo i dati del Fondo monetario internazionale (Fmi), se vuole scendere a livelli sostenibili deve essere tagliato. Ma le banche europee non possono più sopportare uno stress di questo genere. Non a caso l’European banking authority (Eba), cioè l’organo di vigilanza bancaria Ue, ha imposto un piano di ricapitalizzazione bancaria da 115 miliardi di euro, da completare entro la prima metà del 2012.
Infine, l’euro. Se a inizio 2011 l’ipotesi di una disgregazione dell’eurozona era solo nella mente degli economisti più radicali, ora è sulla bocca di tutti. Ma non solo. Sono diversi gli operatori finanziari che si stanno preparando in caso di euro break-up, cioè collasso dell’euro. Da un lato ci sono CLS, la maggiore clearing house del mercato valutario, e ICAP, il principale interdealer broker globale. Entrambi stanno ragionando su quali potrebbero essere gli effetti di un ritorno alle valute nazionali in Europa, sia attraverso stress test sia tramite contatti con le maggiori banche internazionali. Dall’altro lato ci sono le banche centrali e gli organi di vigilanza finanziaria. Uno dei Paesi più attivi è il Regno Unito. Alcune settimane fa il governatore della Bank of England, Mervyn King, ha dichiarato che esistono dei piani di contingenza nel caso l’euro cessasse di esistere. Lo stesso ha fatto la Financial services authority (Fsa), la Consob britannica. Parole analoghe sono state dette anche dai vertici della Swedbank, la prima banca di Svezia, che sta analizzando quali potrebbero essere gli scenari dopo un collasso dell’euro. Difficile che si arrivi a una disgregazione totale, più probabile che possa essere messo in piedi un meccanismo di uscita temporanea, dato che il Trattato di Lisbona non disciplina l’uscita dalla zona euro, ma dall’Europa.
Nel 2012 si dovrà fare in fretta. Il cancelliere tedesco Angela Merkel ha più volte ribadito negli ultimi due mesi di voler spingere per una riforma dei Trattati europei entro il prossimo dicembre. Tuttavia, gli ostacoli non sono pochi. Il primo, più importante di tutti gli altri, sono le elezioni francesi. Dopo la capitolazione italiana, a vacillare è stata Parigi, spinta al ribasso da un sistema bancario imbottito di titoli di Stato italiani. La spada di Damocle che pende sulla presidenza di Nicolas Sarkozy si chiama AAA. È questo infatti l’attuale rating che ha la Francia, il massimo possibile. L’impressione, come lasciato intendere da Standard & Poor’s, è che possa durare ancora per poco. Il completamento della revisione dei conti pubblici e delle prospettive future di Parigi è previsto per il primo trimestre 2012. In tempo, quindi, per la tornata elettorale transalpina. Il primo turno sarà il 22 aprile, mentre il secondo si terrà il 6 maggio e si avrà un primo riscontro di quale direzione potrà prendere l’asse europeo ribattezzato Merkozy dalla stampa internazionale.
A guardare con attenzione a ciò che succede in Europa è il mondo intero. La crescita economica rimane il più grande dei problemi. Nel corso del 2011, nonostante i continui richiami alla calma dei politici, l’Europa ha già compreso quale sarà lo spauracchio del 2012, cioè la recessione. Certo, la Banca centrale europea, che ha visto un avvicendamento fra Jean-Claude Trichet e Mario Draghi, ha cambiato la sua operatività, diventando più aggressiva e pronta a reagire agli shock esogeni, ma l’impressione è che non basti ancora. Infatti la Bce e il suo mandato sono diventato uno dei macro temi del 2011. Eppure, come ha spiegato più volte Berlino, l’Eurotower non diventerà mai un prestatore di ultima istanza, come invece è la Federal Reserve statunitense. Resta il fatto che abbiamo compreso come una delle lacune dell’eurozona è che esiste un sistema monetario comune, ma non c’è un coordinamento centrale delle politiche economiche e fiscali. Nel 2012 si capirà che direzione prenderà l’Europa anche sotto questo punto di vista, dopo i tentennamenti di questi dodici mesi.
Dopo dieci anni di euro nelle tasche dei cittadini europei, la domanda è solo una: sopravviverà? I costi di un collasso dell’eurozona non sono sostenibili senza sacrifici immensi. Dopo aver provato la paura legata all’euro break-up, l’Europa deve dimostrare che l’Unione economica e monetaria non è un progetto fallito. Non sarà facile.
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