lunedì 14 ottobre 2019

Condanne pesanti per i leader indipendentisti della Catalogna

La Corte Suprema ha condannato l’ex vice presidente del Generalitat catalana, Oriol Junqueras, a 13 anni di carcere e 13 di interdizione assoluta per i reati di “sedizione” e “malversazione” in concorso con altri. L’accusa aveva chiesto 25 anni per “ribellione”, per aver cercato di proclamare l’indipendenza della Catalogna “al di fuori dei canali legali”.
Accusa sorprendente, visto che il “reato” sarebbe stato commesso convocando un referendum popolare – osteggiato con laforza dallo Stato centrale, ma egualmente vinto. Se neanche con il voto si possono cambiare “legamente” le cose, quali mezzi resteranno mai considerati tali?
La sentenza ha riconosciuto Junqueras responsabile della convocazione e dello svolgimento del referendum, nonostante l’esplicito divieto da parte della Corte suprema, e il tentativo di proclamare la Repubblica Catalana, dopo che il governo spagnolo ha fatto scattare l’articolo 155 della Costituzione, che ha poi fornito a base legale per il processo.,.
La Procura, durante il processo, ha affermato che a Junqueras e gli altri imputati “non era più sufficiente la disobbedienza e la legislazione parallela”, ma piuttosto “era necessario opporsi – con tutti i mezzi a loro disposizione, inclusa la violenza in un caso estremo – all’esecuzione delle ordinanze giudiziarie volte a rendere impossibile lo svolgimento del referendum dichiarato incostituzionale e da cui dipendeva la dichiarazione di indipendenza”.
Il ministero pubblico ha considerato Junqueras come coordinatore generale di tutta la pianificazione e l’organizzazione del referendum. Lo ha anche accusato di aver realizzato ripetuti appelli pubblici a votare, pur essendo “pienamente consapevole dell’illegalità del processo di secessione che stavano promuovendo, della palese illegalità dell’iniziativa referendaria e dell’altissima probabilità di incidenti violenti”.
Sia all’inizio del processo, durante il suo interrogatorio, sia nella parte finale, durante l’ultimo turno di parole, il leader del Esquerra Republicana (Cer) si è difeso da “prigioniero politico”.
Sono accusato per le mie idee e non per le mie azioni. Sono in un processo politico, non risponderò alle domande dell’accusa. Sono stato destituito con l’applicazione dell’articolo 155 e al momento mi considero un prigioniero politico”.
Oriol Junqueras è stato difeso dall’avvocato Andreu Van den Eynde, che ha detto nella sua arringa finale che il processo era stato il prodotto di una “causa politica generale”, dove sono stati perseguiti i leader dell’indipendenza solo per mandarli in prigione. “Questo processo è un’opportunità per riportare la palla in politica”, ha detto l’avvocato.
Prima di abbassare il sipario, l’ex vicepresidente catalano ha usato il suo turno dell’ultimo minuto per insistere sull’idea di “riportare la questione nel campo della politica, della buona politica“. Ha concluso ricordando le sue convinzioni pacifiche, repubblicane e cristiane; convinzioni che condivide con quanti credono che “votare non può essere un crimine“.
Per gli stessi reati, gli ex consiglieri regionali Raül Romeva, Jordi Turull e Dolors Bassa sono stati condannati a 12 anni. Per l’ex presidente del parlamento, Carme Forcadell, la pena inflitta dal tribunale è stata di 11 anni e mezzo di reclusione solo per “sedizione”. Lo stesso reato per il quale Joaquin Forn e Josep Rull sono stati condannati a 10 anni e sei mesi. Per l’ex leader dell’ANC Jordi Sànchez e il presidente di Òmium Cultural, Jordi Cuixart, la pena è di nove anni.
Questa è la Spagna “democratica”, ora guidata da un “socialista” e non più dall’ex franchista Rajoy; nella “democraticissima” Unione Europea, che non ha sollevato fin qui una sola obbiezione contro il primo processo politico ordito contro rappresentanti popolari legalmente eletti e che avevano cercato di realizzare il mandato degli elettori con mezzi esclusivamente pacifici.

venerdì 11 ottobre 2019

Fallimento della Thomas Cook e turisti lasciati a terra. Una lezione sul capitalismo

Il fallimento della britannica Thomas Cook la più grande e storica agenzia turistica del mondo, aveva lasciato a terra, e sparsi sui 4 continenti, circa 140mila turisti britannici. Si è conclusa solo due giorni fa l’operazione di rimpatrio durata due settimane e che ha costretto il governo britannico a mettere a disposizione circa 150 aerei.
Il Sole 24 Ore ironizza paragonandolo a quello di Dunquerke cioè il più grosso rientro di cittadini dalla Seconda Guerra Mondiale. Il costo totale è pesante: 600 milioni di sterline tra rimpatri e rimborsi-risarcimenti per chi ha già prenotato e l’impatto fallimento. Ma il costo finale già veleggia verso il miliardo.
La Thomas Cook aveva accumulato un debito gigantesco di 1,7 miliardi, ed è saltata nonostante un piano di salvataggio da 1 miliardo che era pronto per partire.
Il paradosso , per il paese alfiere del liberismo e del disimpegno dello Stato dall’economia, è che riportare a casa i 150mila turisti costerà molto di più che se si fosse salvata la compagnia con i soldi pubblici: Thomas Cook infatti è andata in bancarotta per “soli” 200 milioni. Le banche coinvolte nel salvataggio volevano un ulteriore sforzo finanziario, per garantire a Thomas Cook di sopravvivere nei mesi invernali, quando le prenotazioni calano drasticamente. Un intervento dello Stato ventilato nei giorni scorsi, era però stato scartato per “non far pagare al contribuente il conto di un’azienda privata”, ma sarebbe costato molto meno che ora organizzare il rimpatrio di migliaia di turisti inglesi. Senza contare i costi indiretti sull’indotto: alberghi vuoti, località turistiche senza visitatori, etc.

In secondo luogo, il fallimento della Thomas Cook elimina oggi oggettività del mercato nelle cause che hanno portato al crac. Una di queste infatti risiede proprio nell’ingordigia dei cosiddetti consulenti privati chiamati a supportare le sorti della grande società.
Rileva il Sole 24 Ore che la società guidata dal manager svizzero Peter Fankhauser, finito sotto accusa per lo stipendio multimilionario, in questi anni ha sborsato circa 20 milioni di sterline a consulenti, i quali nonostante le laute parcelle non sono riusciti a fare quello per cui erano stati ingaggiati: salvare l’azienda.
A intascarsi le parcelle milionarie sono le solite società di revisione che abbiamo imparato tristemente a conoscere come advisor in molte privatizzazioni in Italia (PWC, E&Y, Kpmg e Deloitte). Inoltre ci sono ben 20 studi legali, il fondo di investimento che copre il piano assicurativo Atol, a copertura dei turisti in caso di problemi, e la stessa Aviazione Civile che aveva ingaggiato la Alvarez&Marsal, la più nota società di salvataggi aziendali: tutti profumatamente remunerati.
Gli effetti di questo fallimento, ennesima conferma della lordura del “privato è bello”, cominciano a farsi sentire anche sulla rete alberghiera in Italia, dove magari i turisti avevano già anticipato alla Thomas Cook i soldi ma arrivando all’hotel prenotato si vedono chiedere un nuovo pagamento perché l’azienda a cui avevano già pagato… è fallita e, a sua volta, non ha pagato gli hotel convenzionati. “Thomas Cook era un’istituzione, era la prima agenzia di viaggi al mondo – spiega Giancarlo Carniani presidente di Confindustria Alberghi Firenze –. È difficile dire cosa deve fare un albergo con un cliente che ha pagato a un’agenzia fallita: di solito si richiede nuovamente il pagamento e si invita a rivalersi sull’agenzia fallita”.
Praticamente come gettarsi in mare in mezzo agli squali e cercare di raggiungere la riva. Auguri!!!

mercoledì 9 ottobre 2019

La maldestra fascinazione di Conte per i servizi segreti

Nel bel mezzo delle polemiche che infuriano per gli incontri riservati tra servizi segreti italiani e autorità statunitensi, il premier Giuseppe Conte – come a parlare di corda in casa dell’impiccato – ha partecipato alla cerimonia per il giuramento delle nuove “barbe finte” del Sistema di Informazione per la sicurezza della Repubblica, ossia i nuovi assunti nei servizi segreti italiani.
Il Presidente del Consiglio ha avuto parole di miele per l’intelligence italiana. Secondo Conte “è il presidio della democrazia, non essendo concepibile che si muova al di fuori del controllo parlamentare e dei compiti che il Governo le assegna”. Il premier ha sottolineato poi che “l’interesse nazionale è il perno dell’azione dei servizi”. Non ha mancato di ribadire “l’ancoraggio dell’Italia alla comunità euroatlantica e a un multilateralismo avveduto, aggiornato e realmente efficiente rappresentano per il nostro Paese un punto di riferimento imprescindibile della proiezione internazionale, come pure strumento migliore per far si che le logiche cooperative si impongano e prevalgano su quelle competitive”.
Come noto, fino ad oggi ed in entrambi i suoi governi, Conte ha la delega ai servizi segreti. Una competenza che, alla luce degli incontri riservati tra servizi italiani e autorità statunitensi, getta una ombra piuttosto sconveniente sul premier. L’uso degli apparati dello Stato come fattore di “facilitazione” nelle relazioni con un governo di un altro Stato e del suo controverso presidente (Trump), indica una improvvisazione irricevibile in un ambito per sua natura delicatissimo. Mettere il naso negli affari interni di un altro paese (e di un paese peso massimo come gli Usa) per facilitarne una componente (l’attuale amministrazione), significa pregiudicarsi i rapporti in futuro qualora prevalga un altra componente (i democratici). Insomma un errore che le vecchie volpi del passato non avrebbero mai commesso.
Prima di lui, e con analoga pervicacia, era stato Renzi a “improvvisare” cercando uno stretto controllo di Palazzo Chigi sui servizi, fino a cercare di infilare uno dei suoi fedelissimi amici e supporter, Marco Carrai, ai vertici dei servizi. Una operazione che fu però stroncata dai vertici dei servizi stessi per la sua invadenza e la sua “inopportunità”. Insomma se su vicende come queste c’è qualcuno che dovrebbe tacere, questi è proprio Renzi.
Sui contatti riservati – e non potrebbe essere altrimenti –  tra la nostra intelligence e il General Attorney (ossia il ministro della giustizia) degli Usa William Barr, il presidente del consiglio si è detto pronto a riferire al Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica.
Era agosto, quando a Palazzo Chigi è arrivata una richiesta dall’ambasciata Usa con cui le autorità statunitensi chiedevano di consentire al ministro Barr di ottenere notizie su un controverso personaggio maltese Joseph Mifsud, professore alla altrettanto controversa Link University, che Washington considera legato al Russiagate e resosi irreperibile da tempo. La Link University è una creatura di ex ministro democristiano, Vincenzo Scotti, istituita nel 1999 come filiale dell’università di Malta.
Secondo la presentazione che viene fatta è “un’Università dell’Ordinamento Universitario Italiano. Il Ministro dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca, con proprio Decreto del Ministro dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca (n. 374 del 21 settembre 2011) e previo parere favorevole dell’Agenzia nazionale di valutazione del sistema universitario e della ricerca (Anvur), ha accreditato i Corsi di Laurea”. Ma, a seguito dell’istituzione dell’Università degli Studi Link Campus University, “per assicurarne la governance da parte di soggetti giuridici non più legati all’Università di Malta, in data 1° agosto 2011 è stata costituita la Fondazione Link Campus University, soggetto promotore dell’Università; i servizi necessari al funzionamento generale dell’Ateneo e dei suoi Corsi di Laurea sono garantiti da società dedicata”.
Secondo l’inchiesta del procuratore Robert Mueller – il docente della Link University, Joseph Mifsud, avrebbe rivelato a George Papadopoulos, consigliere della campagna elettore di Trump, l’esistenza delle mail compromettenti della sua rivale Hillary Clinton.
Ad agosto il controverso personaggio diventato rilevante nella vicenda Russiagate ha fornito una deposizione audio al Procuratore John Durham. George Papadopoulos è un giovanissimo collaboratore della campagna elettorale di Trump e viene presentato da Vincenzo Scotti a Mifsud durante un master alla Link Campus. In incontri successivi Mifsud dice a Papadopoulos che il Governo russo che lui rappresenta ha del “materiale compromettente” sulla Clinton.
Secondo il giornalista investigativo statunitense John Solomon: Mifsud era un collaboratore di vecchia data dei servizi di intelligence occidentali cui venne richiesto specificatamente dai suoi contatti alla Link University di Roma e London Center of International Law Practice (Lcilp) – due gruppi accademici legati alle diplomazie e servizi di intelligence occidentali – di incontrare Papadopoulos a pranzo a Roma a metà marzo 2016″.  Solomon afferma di aver ottenuto queste informazioni direttamente dall’avvocato del professor Mifsud, Stephan Roh. L’avvocato sta cercando di dimostrare al procuratore John Durham che il suo assistito è un collaboratore dell’intelligence occidentale a cui è stato chiesto di presentare Papadopoulos ai russi. In una intervista rilasciata circa due anni fa a La Repubblica, Mifsud si limita ad ammettere che “Tutto quello che ho fatto è favorire rapporti tra fonti non ufficiali, e tra fonti ufficiali e non, per risolvere una crisi. Si fa in tutto il mondo. Ho messo in contatto think- tank con think- tank, gruppi di esperti con altri esperti”. Un linguaggio e categorie classiche di chi agisce nella zona grigia dei servizi segreti.
Di fronte alla richiesta statunitense, Conte questa estate ha autorizzato il gen.Vecchione (capo del Dipartimento Sicurezza che coordina i servizi segreti italiani) a ospitare Barr nella sede dei servizi segreti a Roma, nella nuova sede in piazza Dante. Era stato un incontro preliminare, a seguito del quale il gen.Vecchione ha poi organizzato una riunione effettiva con Barr alla presenza dei vertici di Aisi (servizi interni) e Aise (servizi per l’estero) cioè il prefetto Mario Parente e il generale Luciano Carta.
Adesso Conte dovrà riferire al Copasir, affidato al leghista Raffaele Volpi (ex sottosegretario alla Difesa durante il primo governo Conte). Difficile prevedere se vorrà o saprà rendere più trasparente la zona grigia – o meglio ancora il verminaio – in cui tutta questa vicenda appare ben avviluppata.

lunedì 7 ottobre 2019

l “nuovo” partitino di Renzi ospiterà pure Renata Polverini

Il 4 dicembre 2016 si svolse il terzo referendum costituzionale nella storia della Repubblica Italiana fortissimamente voluto da Renzi per attuare una revisione costituzionale che avrebbe ridotto il Senato a un’assemblea non eletta dai cittadini; avrebbe sottratto poteri alle Regioni per consegnarli al governo ed avrebbe sancito la definitiva scomparsa delle Province.
La maggioranza dei votanti respinse il testo di legge costituzionale della cosiddetta riforma Renzi-Boschi che era stato approvata in via definitiva dalla Camera il 12 aprile 2016.
Nel 2015 il governo guidato da Renzi aveva approvato la legge elettorale nota come “Italicum” che prevedeva un sistema maggioritario con eventuale doppio turno, premio di maggioranza, soglia di sbarramento e cento collegi plurinominali con capilista “bloccati”, con la possibilità per lo stesso candidato di partecipare all’elezione in 11 collegi.
Nel gennaio 2017 la Corte costituzionale dichiarò incostituzionale il turno di ballottaggio, lasciando l’eventuale premio di maggioranza per la lista che dovesse ottenere il 40% dei voti validi al primo (e quindi unico) turno.
Insomma, la storia politica di Renzi è quella di un ragazzotto democristiano di provincia che ha scalato velocemente con l’appoggio ed il sostegno finanziario di forze più o meno oscure e sulla base di un accordo segreto con il plenipotenziario di Forza Italia, l’ex PCI facendone un partito personale arrivando a chiedere i pieni poteri come un Erdogan qualsiasi.
Quanti sono quelli che sono ancora nel PD e che fino alla batosta del 6 dicembre 2016 dicevano “con lui si vince sempre”… “evviva la sua idea di sinistra riformatrice” …“basta con i vecchi arnesi della sinistra”…“i veri partigiani votano Si” anche quelli che sfilano in blu il 25 aprile “perché così è più inclusivo”.? Tanti, e molti anche tra quelli che se ne sono successivamente staccati.
Vi ricorda qualcuno?
Ecco perché non mi stupisce affatto che una nota fascista dichiari di voler sposare il suo progetto proprio ora che quello di Salvini sembra essersi appannato mentre sono già partite le grandi manovre per depotenziare un suo eventuale ritorno mediante una nuova riforma elettorale.
Renzismo e Salvinismo non sono altro che due variabili della stessa malattia: la crisi del sistema politico italiano come conseguenza della crisi di egemonia delle classi dirigenti che, pur di mantenere intatto lo status quo, cavalcano questi personaggi per poi liquidarli non appena viene fuori tutta la loro inadeguatezza politica.

venerdì 4 ottobre 2019

.Dazi, guerra tra le monete, competizione globale. Lo stallo degli imperialismi

La presidenza Trump, nei suoi comportamenti apparentemente irrazionali, sta facendo emergere quale sia la reale condizione non solo dei diversi imperialismi ma, a nostro vedere, il limite dello stesso Modo di Produzione Capitalistico in questo frangente storico.
L’improvviso riemergere dei dazi, che ricorda gli scenari precedenti alla seconda guerra mondiale, la fine della centralità del dollaro e la competizione tra le monete, l’accentuazione mondiale delle diseguaglianze sociali e la dimensione globale di una recessione oggi ammessa da tutti, stanno evidenziando, senza ombra di dubbio, i limiti attuali alla crescita capitalistica dovuti alle difficoltà sempre maggiori di valorizzare la grande massa di capitale finanziario che oggi è in circolazione per il mondo.
La sconfitta dell’URSS e del campo socialista alla fine del secolo scorso, ha fatto ritenere che la storia fosse finita e che l’unico orizzonte non poteva che essere il capitalismo come compimento ultimo dei destini dell’umanità. La fine della Storia è stata, e in parte rimane, la rappresentazione ideologica egemone che intendeva chiudere con il comunismo ma soprattutto con la lotta di classe che ha percorso l’800 ed il ‘900.
Le tendenze che ora si stanno manifestando, in verità da oltre un decennio, ci dicono che le contraddizioni insite nel MPC non vengono superate, anzi si aggravano e si amplificano in modo direttamente proporzionale alla pervasività dell’economia capitalista.
Nell’ultimo trentennio, l’occidente capitalista a guida USA, ha ritenuto di avere ormai l’intero mondo a disposizione e si è lanciato nella corsa ai profitti investendo nelle aree non ancora subordinate all’economia di mercato, in modi diversi Cina, India, Russia e paesi dell’Europa dell’est, amplificando e velocizzando così il ciclo economico del capitale.
Questo ha prodotto un cambiamento delle condizioni economiche e sociali nelle diverse aree, ma ha soprattutto portato ad uno sviluppo enorme delle Forze Produttive, in particolare la produzione fondata sulle nuove e nuovissime tecnologie, che è andato ben oltre i confini delle aree imperialiste ed ora sta alla base dell’accentuata competizione globale divenendo cosi un boomerang per l’occidente imperialista.
In questo caso significa che gli enormi investimenti esteri realizzati dagli anni ’90 in poi dai centri finanziari verso quelle che erano le periferie produttive, hanno radicalmente cambiato gli assetti produttivi di queste ultime, sviluppando processi scientifici, tecnologi, finanziari ed economici, che gli permettono oggi di competere con chi ha pensato che la Storia fosse finita.
La Cina è indubbiamente l’esempio più eclatante di questo fenomeno, ma i nuovi competitori nei vari settori economici e produttivi non sono solo cinesi. Infatti l’aumento enorme di produttività, di prodotti e servizi ottenuti attraverso l’uso intensivo della scienza e della tecnica, ha ristretto gli spazi di crescita per il profitto, la caduta tendenziale del saggio di profitto sta agendo concretamente, esattamente come intuiva e documentava Marx già nell’Ottocento.
Tale tendenza ha incrementato anche la competizione tra centri imperialisti, come emerge chiaramente nelle relazioni USA/UE, ma ha dimostrato, ad esempio, anche l’impotenza in cui si sta dibattendo la Gran Bretagna, il paese imperialista per eccellenza, anche se da tempo in decadenza.
Questo processo impetuoso di crescita è stato incentivato ed accompagnato dall’uso spregiudicato della leva finanziaria che ha assunto dimensioni e forme speculative mai viste prima storicamente. Infatti la vera, unica, globalizzazione che si è avuta dagli anni ’90 è stata quella della finanza, che tra investimenti produttivi, speculativi e nell’intreccio con varie forme di illegalità si presenta come condizione materiale per tutti gli attori in campo, i quali sono condannati a confliggere ed a collaborare proprio a causa della dimensione finanziaria la quale, crollando, non lascerebbe nessuno al riparo dal fallimento.
La nascita delle criptomonete da parte di Stati e di multinazionali, è un ulteriore tentativo di divincolarsi dagli attuali intrecci finanziari e monetari, per trovare nuovi spazi di crescita dei singoli soggetti privati e statuali. Questo intreccio pericoloso si è palesato nella crisi finanziaria del 2007 che si è velocemente propagata dagli USA a tutto il mondo ed ha rapidamente fatto cadere l’assioma religioso di “più Mercato e meno Stato”. Gli istituti finanziari si sono salvati solo grazie agli interventi degli Stati, che hanno trasferito ricchezze ingenti dalle tasche dei cittadini alle casse delle Banche e dei fondi di investimento.
C’è poi un altro fattore di aumento della conflittualità internazionale ed è quello militare. Siamo reduci da un periodo storico in cui sostanzialmente solo due superpotenze – Usa e Urss – detenevano il monopolio scientifico, nucleare e militare. Il crollo del muro di Berlino ha rotto gli argini anche in questo campo. Dato che non c’era più un nemico da battere, il settore militare ha ricevuto un ulteriore spinta dallo sviluppo delle forze produttive che dal centro si sono riversate nella periferia, incrementando non solo la produzione di merci e servizi ma anche la produzione di nuovi armamenti. In questa situazione un ruolo centrale lo svolge ancora l’arma nucleare, la quale garantisce un’equa e “reciproca distruzione” tra i competitori nel caso in cui si volessero riproporre le soluzioni alla crisi attraverso le politiche militari messe in campo nella Prima e nella Seconda Guerra Mondiale.
Quello che si configura oggi, a nostro modo di vedere, è una situazione di stallo nei rapporti di forza internazionali che segnerà i prossimi anni, e che gli USA stanno vivendo come fine della loro egemonia globale alla quale intendono opporsi in tutti i modi, pena il declino e la fine del loro imperialismo come è avvenuto per l’Inghilterra nel secolo scorso. Uno scenario del tutto in contrasto con il sogno e il progetto del Nuovo Secolo Americano! Questa condizione di stallo sta inoltre producendo situazioni paradossali e contraddittorie. Valga come esempio il comportamento di Trump nelle relazioni internazionali, nelle quali cambia continuamente sia i nemici che i toni diplomatici, senza però tradurre mai le sue parole in fatti, come sta ancora dimostrando lo scontro con l’IRAN.
Un altro paradosso che emerge è che gli USA ultraliberisti applicano i dazi e la Cina socialista si pronuncia per il libero mercato. E poi, come già detto c’è il prima, durante e dopo della Brexit. Le stesse politiche neoliberiste in America Latina, Brasile e Argentina, a differenza degli anni ’70/’80 si sono rapidamente consumate riproducendo quelle crisi che avevano chiuso negli anni ’90 il periodo golpista in quella parte del mondo.
D’altra parte anche i vincitori appaiono sconfitti dalla loro vittoria. La Nato in quanto braccio armato dell’occidente, entra in crisi in un suo snodo centrale come quello della Turchia, la quale ora compra missili strategici dalla Russia, una decisione che in un’altra fase storica avrebbe provocato un colpo di Stato, operazione realmente tentata ma che, non a caso, è fallita.
Gli imperialismi storici sono così dentro uno stallo che coinvolge anche i nuovi competitori, a cominciare dalla Cina, la quale trova certamente un limite alla sua crescita a causa dei blocchi commerciali decisi da Trump, ma ne trova anche dalla forte spinta competitiva dell’Unione Europea.
Questo stallo generale però non riguarda solamente le relazioni economiche e finanziarie internazionali, ma si riversa anche nella vita quotidiana delle popolazioni. L’aumento della disoccupazione e della precarietà a livello mondiale non sono un episodio congiunturale ma dipendono dall’aumento della composizione organica di capitale che rende sempre più superflua la presenza di forza lavoro nella produzione capitalistica. Questa contraddizione ha un suo lungo percorso storico ma ora, di fronte ai limiti materiali della crescita capitalista, si manifesta per quello che è, cioè come una crisi di prospettive, una crisi della civilizzazione capitalistica in tutti i suoi aspetti.
Contemporaneamente gli effetti sociali relativi alle diseguaglianze ed alla crescita della povertà, paradossalmente si fanno sentire materialmente e politicamente soprattutto nei paesi imperialisti, dove le forze politiche borghesi vivono una fase di sbando e di crisi di rappresentanza molto serio essendo incapaci di dare una risposta alle storture del modo di produzione.
Anche la questione ambientale si amplifica dentro questa corsa alla competizione globale che sta rompendo gli equilibri naturali del pianeta, incrementando il riscaldamento globale che porta alla trasformazione di intere aree geografiche. Eclatante è la vicenda degli incendi in Brasile (ma non solo, sta accadendo anche in Siberia, in Africa e in Asia), che nasce dalla necessità dei latifondisti brasiliani rappresentati da Bolsonaro di mettere a produzione nuovi terreni per essere più competitivi, a costo di distruggere una componente importante per la vita sul pianeta come la foresta amazzonica.
Vivere in una condizione di stallo strategico degli imperialismi non significa che le contraddizioni non continuino a crescere ed a stressare complessivamente la situazione finanziaria, economica e politica internazionale. Anzi la pressione aumenta ma non ha ancora trovato uno sbocco, anche perché nessuno dei contendenti si sente tanto forte economicamente e militarmente da imporre la propria egemonia.
Su quali scenari e quadranti potrà rompersi questo stallo non è semplice individuarlo. Scontro militare tra Ovest ed Est? Implosione degli USA sulle sue contraddizioni interne tra cui quella razziale della maggioranza bianca “wasp” che teme di diventare minoranza? Crisi della UE in quanto anello debole nella competizione interimperialista? Crisi finanziarie, stagnazione e recessione di lungo periodo in quanto lo stallo si può protrarre nel tempo senza soluzione?
È difficile prevedere quale tendenza prevarrà ma è certo che occorre sforzarsi di capire quale risoluzione imporrà i possibili nuovi rapporti di forza, oppure se siamo dentro un “tunnel” dal quale per ora è difficile uscirne in termini di un rinnovato quadro internazionale. Si conferma e si attualizza quello che Gramsci scriveva dal carcere “La crisi appunto consiste nel fatto che il vecchio muore ma il nuovo non può nascere: in questo interregno si verificano i fenomeni morbosi più svariati”. Di fenomeni “morbosi” ne stiamo vedendo effettivamente molti in questi anni di transizione, sulla quale la RdC ha promosso nel dicembre 2016 un Forum nazionale di dibattito teorico e politico e numerosi incontri di analisi della crisi. Se è vero che bisognerà immaginarci il tipo di conflitto che potrà rimettere in discussione lo stallo attuale, è anche vero che questa condizione ripresenta a tutto tondo la necessità dell’alternativa sociale.
Sappiamo bene che in Occidente parlare di transizione al socialismo, di lotta per il comunismo viene interpretato e liquidato, grazie a potenti campagne mediatiche, ideologiche e culturali sviluppate in questi anni in maniera bipartisan da forze politiche e dai mass media, come un atteggiamento velleitario e utopistico per un verso, minaccioso e terroristico per un altro. Nonostante il discredito gettato quotidianamente dai nostri nemici di classe sulle nostre idee forza la situazione, per come si manifesta e per la dimensione che hanno assunto le contraddizioni, rivela tutto il peso dell’assenza di un’alternativa politica e statuale e pone dunque la necessità di una alternativa che non riusciamo ad esprimere con termini diversi da Socialismo e Comunismo. Sappiamo anche che è una strada difficile e piena di rovine lasciate da chi ha avuto la pretesa nel nostro paese di avere il monopolio di questa prospettiva, tradendone i fini in ogni passaggio fatto negli ultimi decenni, e ben prima della fine dell’URSS.
Come d’altra parte non possiamo esimerci dall’analizzare e valutare il ruolo dell’Unione Europea nel presente contesto internazionale. Nelle nostre elaborazioni individuiamo correttamente l’analisi degli effetti economici e sociali pesantemente regressivi prodotti dalla riorganizzazione complessiva del capitalismo attorno alla dimensione europea, egemonizzata ormai fin troppo chiaramente dalle forze economiche e finanziarie del grande capitale multinazionale, soprattutto ma non solo, da quelle concentrate in Francia e Germania. Su questo stiamo lavorando analiticamente e politicamente da tempo, evidenziando il degrado economico e sociale complessivo, che ora riguarda la stessa Germania, e le diseguaglianze per settori economici ed aree geografiche prodotte dalle politiche degli Eurocrati.
C’è però un altro punto di vista da tenere presente, forse più rilevante, e che parte dall’alto dell’analisi economica internazionale e dalle dinamiche storiche che vanno oltre le contraddizioni di classe prodotte dalla costruzione concreta dell’Unione Europea.
Questo riguarda il ruolo della UE come soggetto pienamente imperialista, entrato a pieno titolo nella competizione globale che abbiamo cercato di descrivere nella condizione di crisi e di stallo che la caratterizza. Un soggetto che sotto le mentite spoglie democratiche ed umanitarie, lo “stile di vita europeo” invocato dalla Von der Leyen, ha vinto tutte le sue battaglie nonostante le previsioni – strumentalmente pessimistiche ma in realtà funzionali – che ne preconizzavano il suo fallimento. La nascita e la tenuta dell’Euro, gli interventi militari in Africa e Medio Oriente, la recente sconfitta dei “sovranisti”, la crisi profonda della Brexit, dimostrano come questa prospettiva, per ora vincente, vada ad incrementare una conflittualità internazionale di tipo economico ma anche militare, come stanno a dimostrare i progetti di costruzione dell’esercito europeo nei quali la Francia, unica detentrice dell’arma nucleare, svolge un ruolo di punta.
Per questo la lotta per rompere la costruzione dell’Unione Europea ha assunto un valore generale, progressista e pacifista, contro ogni mistificazione dell’eurocentrismo che si ricandida ad essere il “faro” democratico per l’umanità.

giovedì 3 ottobre 2019

Gratta il leghista e vien fuori il democristiano

La politica italiana si prepara a cambiare ancora una volta pelle, mentre ancora non si è consolidato il nuovo assetto.
Una delle forze cosiddette “populiste” – i Cinque Stelle – sono già stati ricondotti all’ovile dell’establishment “europeista” e confindustriale. Non è stato poi troppo difficile, vista l’inconsistenza strategia della visione grillina, e dunque del “realismo” delle parole d’ordine lanciate per anni.
Ora tocca alla Lega. Il successo alle elezioni europee aveva dato alla testa a Mr. Mojito, che aveva creduto di poter passeggiare sulle rovine delle altre forze politiche e imporre una volontà politica corrispondente agli interessi della piccola-media impresa, soprattutto del Nord.
La pochezza del leader maximo, grande comunicatore ma scarso come stratega, ha trasformato quel successo in un flop da guinness dei primati, riuscendo a perdere una partita che era già stata ampiamente vinta.
Quegli interessi e quel bacino di consensi va perciò “re-indirizzato” in maniera politicamente produttiva, ossia come consenso a politiche decise a Bruxelles ma che coprono vasti interessi anche nazionali e locali (imprese, banche, costruttori, ecc).
Ma c’è un ma. La Lega di Salvini ha assuno toni e modi da partitino fasciorazzista, “anti-europeista” sul piano della propaganda e per nulla su quello concreto (stando al governo aveva accettato tutti i diktat sulla “legge di stabilità”, senza fiatare), raccogliendo malcontento popolare e dandogli una “narrazione” persino realistica (i “poteri forti”, i “burocrati”, “gli zero virgola”, ecc) e dunque poco compatibile con quella indispenabila a governare insieme e per conto di quei poteri.
Dunque è necessaria una svolta. All’interno della Lega. Con o meglio senza Salvini, ma senza strappi o accelerazioni che potrebbero distruggere in tempi rapidissimi un dispositivo che ha mostrato di funzionare e quindi può tornare molto utile a chi saprebbe che farne.
Il primo passo ufficiale in questa direzione lo ha fatto, non a caso, il più scaltro dei leghisti della prima ora. Placidamente seduto a colloquio con l’”arci-nemica” Lucia Annunziata, Giancarlo Giorgetti se n’è uscito con una dichiarazione che suona quasi come un’eresia: “La Lega nel Ppe? Non lo escluderei a priori. Con la Csu bavarese, ad esempio, ci sono molti elementi di consonanza”.
In effetti bisogna rileggere o risentire la frase molte volte, perché abbiamo tutti le orecchie piene del bla-bla salviniano con Macron e la Merkel (capo indiscusso dei democristiani europei e dunque anche del Ppe), contro il “complotto” che sarebbe stato ordito ai piani alti di Bruxelles per togliersi dalle scatole – ossia dal governo in Italia – un “matto” impresentabile e neanche troppo capace.
Ma il dado, come si dice, è tratto. La Lega i deve ri-convertire in una forza affidabile, se vuole avere ambizioni di governo. Deve spuntare le asprezze fasciorazziste e farsi “normale” partito reazionario ma perbenista. Deve smetterla di indicare l’Unione Europea come causa di molti dei problemi italiani e farsi guidare su questa strada da chi ha il controllo della situazione.
In fondo, non c’è nulla di sorprendente. E’ quello che ha fatto fin dall’inizio il più simile dei “fratellini” europei di Salvini, ossia quel Viktor Orbàn che l’iscrizione al Partito Popolare Europeo l’ha fatta prima ancora di vincere le elezioni in casa e che, pur facendo da punta del “gruppo di Visegrad”, è da sempreben attento a non pesstare i piedi della Germania. Il che, per un paese contoterzista dell’industria tedesca, sarebbe come spuare nel piatto dove mangia.
Ma anche la Lega rappresenta in parga parte lo stesso milieu, ossia le piccole-medie imprese che lavorano e producono su commesse dell’industria tedesca.
La retorica anti-europea va bene se devi annegare migranti in mare, non quando si parla d’affari da fare in Europa. Insomma, puoi pure essere molto reazionario, ma in modo più democristiano…

Giorgetti ha capito l’antifona, Salvini ha ballato una sola estate…

martedì 1 ottobre 2019

Quantitative Easing: la lotta di classe al tempo dello spread

Nel Consiglio Direttivo di settembre la Banca Centrale Europea (BCE) ha deciso di riprendere il programma di acquisti netti di titoli finanziari (Asset Purchase Programmes) meglio noto come QE, ovvero il famigerato Quantitative Easing. Con il QE la banca centrale espande la liquidità a disposizione del sistema economico con lo scopo dichiarato di ripristinare il corretto meccanismo di trasmissione della politica monetaria: si suppone che la liquidità immessa allenti le tensioni sui mercati finanziari e consenta dunque all’economia reale di tornare sui binari della crescita.
La banca centrale inonda il sistema di liquidità acquistando titoli finanziari, in prevalenza titoli di Stato dei paesi dell’area euro: tramite questi acquisti, i titoli finiscono nella pancia della banca centrale mentre il denaro, il prezzo pagato per acquistare quei titoli, entra nel sistema economico.
Attraverso questo meccanismo, la BCE ha introdotto nell’economia europea tra i 60 e gli 80 miliardi di euro ogni mese dal marzo 2015 al dicembre scorso, quando il programma di acquisti netti è stato provvisoriamente concluso, nell’ipotesi che tre anni di stimoli monetari fossero stati sufficienti a rivitalizzare il sistema finanziario e produttivo dell’area euro.
Invece, il primo semestre del 2019 ha mostrato evidenti segni di stagnazione, con la produzione in calo persino nel cuore pulsante dell’Europa, in Germania, e l’inflazione al di sotto delle aspettative. Insomma, gli effetti positivi del QE sull’economia europea non si sono mai visti, nonostante la massiccia iniezione di liquidità messa in atto dalla BCE a partire dal 2015.
Il Presidente della BCE, Mario Draghi, ha sostanzialmente ammesso questo fallimento, ma ovviamente ne imputa ad altri la responsabilità: secondo Draghi la politica monetaria sta facendo tutto ciò che è in suo potere per rilanciare l’economia europea, ma senza un briciolo di politica fiscale espansiva da parte della Germania diventa impossibile evitare il baratro di un’altra recessione. 
Il realtà, l’attento Draghi non ha mai nominato espressamente la Germania, ma ha apertamente parlato di “governi che hanno a disposizione spazio fiscale (ossia, che hanno debito e deficit sotto controllo, ndr) e stanno fronteggiando un rallentamento”. Più chiaro di così non poteva essere: infatti, la Germania, come abbiamo recentemente visto, sta mostrando tutti i segnali di una crisi. 
Quel che ci interessa è che la stessa BCE ammette la sostanziale inefficacia del QE come strumento di rilancio dell’economia. Ma allora perché rimettere in moto il programma di acquisti netti? Quali sono gli effetti più importanti del QE, al di là delle dichiarazioni ufficiali?
Due sono gli effetti principali del Quantitative Easing sull’economia. Il primo è stato spesso menzionato, ma sempre di sfuggita – e vedremo perché. Gli acquisti di titoli pubblici operati dalla BCE hanno senza dubbio l’effetto di comprimere il costo del debito pubblico pagato dai governi dell’area euro. Difatti, gli acquisti della banca centrale rafforzano la domanda di titoli del debito pubblico e, per questa via, determinano una riduzione del tasso dell’interesse pagato dai governi, dando sollievo ai conti pubblici proprio nella fase in cui l’austerità rende più stringenti i vincoli di bilancio europei del Fiscal Compact.
Da quando la BCE ha annunciato l’intenzione di riprendere il QE (discorso di Sintra del luglio scorso), il costo del debito pubblico italiano ha iniziato una parabola discendente dal 3% allo 0,8% registrato in questi giorni. Questo è senza dubbio un effetto positivo del Quantitiative Easing, perché riduce la quota di spesa pubblica destinata al servizio del debito e dunque, in un contesto di vincoli alla spesa, aumenta la quota di spesa pubblica che può essere destinata alla spesa sociale.
Dicevamo che spesso i commentatori glissano sull’importanza di questo effetto positivo del QE, e sapete perché? Perché si tratta di un effetto collaterale, assolutamente indesiderato dall’autorità monetaria europea – che ha per l’appunto disegnato il programma di acquisti in modo tale da rendere minimo l’impatto positivo del QE sul costo del debito pubblico dei paesi periferici. La banca centrale si impegna a suddividere tra i paesi europei i suoi acquisti mensili non sulla base dell’entità dei debiti pubblici detenuti da ciascun paese, ma sulla base della quota del capitale della BCE detenuta da ciascun paese: un criterio che rispetta le gerarchie politiche interne all’Europa, non un criterio di ottimizzazione degli acquisti.
Ciò significa che la BCE acquista soprattutto titoli del debito pubblico tedeschi, ed in misura sensibilmente inferiore titoli di Stato italiani. Se si aggiunge a questo la diversa struttura del debito pubblico dei due paesi – il debito pubblico italiano è sostanzialmente tutto debito dello Stato centrale, cioè BTP, mentre quello tedesco è per metà debito degli stati federati – si comprende come sia possibile che il QE non abbia ancora azzerato i differenziali tra i costi del debito pubblico dell’area euro, il fatidico spread. In buona sostanza, la BCE potrebbe liberare molte più risorse nel bilancio degli Stati della periferia europea se solo modificasse le regole del QE, realizzando acquisti direttamente proporzionali al debito pubblico dei singoli paesi.
Se lo facesse, probabilmente non sentiremmo più parlare di spread ed il servizio del debito pubblico diventerebbe trascurabile – come avviene in Giappone. E come di fatto avviene anche in Germania, dove il tasso di interesse sui titoli pubblici decennali è oggi prossimo a -0,6%: la pubblica amministrazione tedesca si indebita a tassi negativi, il che significa che riceve denaro dai creditori per contrarre nuovo debito. Tutto grazie al fatto che la Germania è il paese che maggiormente beneficia degli acquisti netti realizzati dalla banca centrale.
D’altronde, e arriviamo al punto, il QE è stato disegnato dall’autorità monetaria europea proprio per rendere maggiore il suo controllo della politica economica dei singoli paesi. Se la BCE acquistasse in massa il debito pubblico dei paesi periferici, questi sarebbero messi nelle condizioni di praticare politiche fiscali espansive, rilanciando l’occupazione e i salari. Al contrario, la politica monetaria viene usata come una camicia di forza, tanto più stretta quanto maggiore è il grado di disciplina che si vuole imporre: la Germania è privilegiata dal QE, e Draghi la incoraggia addirittura ad aumentare il deficit pubblico per sostenere l’economia europea tutta, mentre i paesi periferici, dall’Italia alla Grecia, devono sottostare alla più stringente disciplina di bilancio e rispettare l’agognata agenda delle riforme.
Perché? Perché il loro stato sociale è ancora troppo consistente, troppo generoso, e deve essere abbattuto a suon di austerità, lacrime e sangue. In questo senso, il secondo effetto principale del QE è una vera e propria minaccia per qualsiasi opzione di riscatto sociale nella periferia d’Europa. Con i suoi acquisti, infatti, la BCE è entrata in possesso di una quota consistente del debito pubblico di tutti i paesi dell’area euro; detto in altri termini, l’autorità monetaria europea è divenuta il principale creditore dei paesi dell’euro. E i creditori, si sa, hanno un grande potere sui loro debitori.
Pensiamo al caso italiano: la BCE detiene oltre 360 miliardi di euro di titoli di Stato italiani. Qualora un governo democraticamente eletto decidesse di violare i vincoli europei al fine di restituire dignità ai lavoratori promuovendo una crescita inclusiva e favorevole alle classi subalterne tramite un consistente aumento della spesa pubblica, l’autorità monetaria non dovrebbe fare altro che iniziare a svendere parte dei titoli di Stato italiani in suo possesso sui mercati: così facendo, ne farebbe crollare le quotazioni spingendo al rialzo il costo del debito pubblico con una dinamica identica a quella che, dieci anni fa, ha dato inizio alla crisi greca.
Vi sembra fantascienza? Eppure un assaggio di tutto questo si è avuto in tempi recenti: per disciplinare il nascente governo giallo-verde, la BCE ha calibrato i suoi acquisti in modo tale da indurre un aumento degli spread in concomitanza con la discussione sulla compagine governativa, ed ha poi raffreddato i mercati con ingenti acquisti di BTP subito dopo che la nuova maggioranza ha accettato i tecnici scelti dal Quirinale nei dicasteri di maggiore importanza (in particolare Tria all’economia e Moavero Milanesi agli esteri).
Da un punto di vista politico, il fatto stesso che un’enorme quantità di titoli pubblici risieda nelle casse della BCE fornisce a quest’ultima un potere immenso che influenza la gestione del debito pubblico dei singoli paesi: con il QE, la banca centrale finisce col detenere una massa di titoli di Stato potenzialmente esplosiva se gettata sul mercato, un’arma che le garantisce una forza persuasiva enorme sulle decisioni di politica fiscale dei singoli Stati e quindi, in ultimo, sulla possibilità di effettuare politiche fiscali espansive a sostegno della collettività.
Tenendo le redini dei debiti pubblici europei attraverso gli acquisti del QE, l’autorità monetaria europea assurge a dominus del sistema politico dei paesi più deboli, costretti a sottostare al più ferreo rigore di bilancio dalla mera minaccia di una ritorsione finanziaria.
Un punto deve essere chiarito. In linea teorica, non vi è nulla di sbagliato in un ruolo dominante della banca centrale nella gestione del debito pubblico di un paese. Di norma, infatti, si suppone che la banca centrale si ponga al servizio della sua collettività. In Europa le cose stanno diversamente: i paesi dell’euro hanno rinunciato alla sovranità monetaria, delegandola ad un’autorità indipendente – la BCE – che impiega le leve di politica monetaria per tenere sotto scacco i governi nazionali ed imporre ad un intero continente le politiche di austerità.
Il problema, quindi, non sta certo nel protagonismo della banca centrale in sé, quanto piuttosto nel fatto che la BCE adopera tutta la sua autorità, tutto il suo potere sul governo della moneta, per mettere in ginocchio i lavoratori europei e distruggere lo stato sociale. Se vogliamo difenderci da questa lotta di classe condotta dall’alto verso il basso, dobbiamo prestare attenzione anche alla politica monetaria, e al bazooka che la BCE tiene puntato sulle nostre rivendicazioni.