venerdì 9 settembre 2016

Falsa morale (e veri interessi) da chi pilota l’immigrazione

Poteri forti, interessi fortissimi. Attraverso i media da loro gestiti, giustificano l’immigrazione di massa come rimedio alla denatalità dei paesi occidentali. Ma la giustificazione non regge, secondo Marco Della Luna, «perché quelli sono i medesimi poteri (interessi) forti che hanno indotto la denatalità, soprattutto attraverso la loro politica monetaria deflazionistica e recessiva la quale, assieme al modello sociale ad essa collegato, al contrario delle sue promesse di sviluppo e stabilità, ha tolto lavoro e prospettive per il futuro, nonché partecipazione democratica». Sono i medesimi super-poteri che «mantengono quella politica nonostante i suoi effetti, e che con essa si sono arricchiti e potenziati politicamente». Sono sempre loro a produrre i flussi migratori, «fomentando o conducendo direttamente guerre in Africa e Asia, per i loro interessi petroliferi, minerari, militari e per vendere armi, e praticandovi il land grabbing», la “rapina” delle loro terre. Poteri che «permettono ai comitati d’affari» anche italiani, «in veste politica o religiosa», di «speculare e rubare sul traffico dell’accoglienza», al riparo del Vaticano e dei mass media «moraleggianti». Tutto questo permette ai grandi padroni di «giocare al ribasso sui salari grazie alla manodopera immigrata».
Per Della Luna, si tratta di «un traffico che distrae grosse risorse economiche altrimenti spendibili per sostenere l’occupazione e gli investimenti, quindi la natalità», senza contare «problemi di criminalità, di sicurezza del territorio e di malattie Marco Della Lunaimportate». Facciamo pochi figli? E’ sempre scarsa la domanda interna di beni? E’ perché «già abbiamo scarso reddito, scarsi servizi e scarsa sicurezza». E loro, i poteri al servizio degli “interessi forti”, «ci tolgono altri soldi, altri servizi e altra sicurezza per offrire il mantenimento (per giunta gratuito, senza lavorare) a chiunque arrivi: un invito potentissimo ad accorrere in massa, rivolto a un bacino di centinaia di milioni di poveri, che mette in moto un flusso inesauribile, che richiederà risorse inesauribili, ossia esaurirà presto quelle disponibili». Per Della Luna, da sempre ultra-critico verso l’immigrazione “pilotata”, il cerchio si chiude: «Con la recessione e la disoccupazione si produce la denatalità che giustifica l’accoglienza, la quale sostiene la denatalità».
Al tempo stesso, «con l’imperialismo e l’interventismo nei paesi poveri si alimentano i flussi migratori, scaricandone i costi sui paesi occidentali, in cui le condizioni di vita e le prospettive per il futuro si deteriorano al punto che essi risultano attraenti solo per i migranti economici che vengono da aree molto peggiori, mentre per noi davvero aver figli diviene sempre meno sostenibile e desiderabile». Così sta avvenendo una sorta di graduale sostituzione etnica: «Fuori noi, dentro loro». E’ la sindrome dei panda, che «quando si trovano in cattività, in un ambiente cioè che non sentono più come il loro, smettono di riprodursi». Preti e mass media dicono che noi occidentali dobbiamo accettare l’immigrazione di massa da quei paesi per espiare il fatto che, in passato, li abbiamo colonizzati e sfruttati? «Ma chi decise la colonizzazione e la usò per arricchirsi – ribatte Della Luna – erano non già i popoli (occidentali), bensì proprio quelle medesime élites che oggi stanno praticando l’imperialismo verso quei paesi, a spese (anche) dei popoli occidentali, e che posseggono i media e gestiscono l’informazione, cioè la propaganda, a loro profitto».

giovedì 8 settembre 2016

Francia in tumulto: si prepara a minacciare l’uscita dall’Ue

Sei francesi su dieci voterebbero per uscire dall’Unione Europea. Lo dicono i sondaggi, all’indomani del Brexit, in una Francia devastata dall’opaco terrorismo targato Isis. Protefa in patria, il professor François Heisbourg, presidente dell’istituto di studi strategici di Parigi, in un saggio di tre anni fa anticipò “La Fine del Sogno Europeo”. Sosteneva che il «cancro dell’euro» dovesse essere estirpato per salvare quel che resta del progetto europeo: «Il sogno è diventato un incubo. Non ci basterà negare la realtà per evitarlo, e Dio sa quanto la negazione sia stato il modo di operare delle istituzioni europee per lungo tempo». Heisbourg è stato ignorato, rileva Ambrose Evans-Pritchard, ma gli eventi si stanno svolgendo esattamente come lui temeva. Nel centrodestra, Sarkozy annuncia una grande svolta anti-Ue con la quale spera di contendere voti a Marine Le Pen. E dal centrosinistra, l’ex ministro Montebourg sfida apertamente Hollande, dichiarando che ormai i trattati europei sono da considerarsi carta straccia: la Francia non può più continuare a prendere ordini da Bruxelles.
La lunga crisi economica in cui è sprofondata la Francia sta per riscuotere il suo tributo, politicamente parlando: «Ha mandato in pezzi prima il centrodestra e poi il centrosinistra francese, e ora minaccia la stessa Quinta Repubblica», scrive Evans-Il socialista Arnaud MontebourgPritchard sul “Telegraph”, in un articolo tradotto da “Voci dall’Estero”. L’ex presidente gollista Nicolas Sarkozy è tornato alla ribalta mediatica «lanciando la scommessa del proprio ritorno sulla scena con la proposta di un pacchetto di politiche di ultra-destra mai viste in tempi recenti nelle democrazie europee occidentali». Ma il tumulto nella sinistra è altrettanto rivelatore: Arnaud Montebourg, l’enfant terrible del partito socialista, ha lanciato la propria sfida contro il governo Hollande, definito «regime politico da destra tedesca». Nel mirino, Bruxelles: «Penso che l’Unione Europea sia arrivata a fine corsa, e la Francia non ha più alcun interesse a farvi parte. L’Unione Europea ci ha lasciati impantanati in una crisi anche molto tempo dopo che il resto del mondo ne era uscito». Montebourg chiede una sospensione unilaterale delle leggi europee sul lavoro: «Per quanto mi riguarda, gli attuali trattati sono scaduti». E annuncia uno “sciopero” contro l’Ue: «Non possiamo più accettare questa Europa».
In altre parole, spiega Evans-Pritchard, Montebourg «se ne vuole andare da dentro – come stanno già facendo la Polonia e l’Ungheria – cioè senza sollevare nessuna clausola tecnica o legale». E la sua accusa contro Hollande è devastante: le politiche di rigore hanno inevitabilmente portato a milioni di persone disoccupate. «Non si sono mai smossi dal loro catechismo e dalle loro false certezze», dice Montebourg. I socialisti hanno pagato un prezzo salato per la loro cieca arroganza: hanno ottenuto solo il 15% dei voti dalla classe lavoratrice nelle recenti elezioni, mentre il Front National di Marine Le Pen ha mietuto il 55%. La doppia contrazione – fiscale e monetaria – ha gettato la già prostrata economia dell’Eurozona in una seconda recessione, osserva Evans-Pritchard. «Tutto ciò è stato aggravato da una stretta fiscale che è andata ben oltre qualsiasi possibile dose terapeutica, ed è stata imposta da un ministro delle finanze tedesco accecato da un’ideologia pre-moderna», il terribile L'economista François HeisbourgWolfgang Shaeuble, «e seguita servilmente da tutti gli altri». Ed ecco il punto: «La Francia avrebbe forse potuto mobilitare una maggioranza di paesi europei per bloccare questa follia, ma né Sarkozy né Hollande sono stati disposti ad affrontare Berlino».
Entrambi i presidenti francesi «sono rimasti legati religiosamente all’accordo franco-tedesco, o almeno alla sua illusione totemica». Il risultato? «Un decennio perduto, e una retrocessione del lavoro che ridurrà le prospettive di crescita dell’Eurozona per molti anni ancora». Osserva ancora il giornalista economico inglese: «Non sapremo mai se la disoccupazione giovanile di massa nei quartieri nordafricani delle città francesi ha avuto un ruolo nella diffusione della metastasi jihadista lo scorso anno, ma certamente è stato uno degli ingredienti». Per contro, la tendenza anti-Ue che ormai investe trasversalmente la Francia dimostra che, se la “regia occulta” del terrorismo mirava a ottenere la rassegnazione dei francesi anche rispetto alle misure più impopolari dettate dall’élite finanziaria, come la Loi Travail, il Jobs Act transalpino, i francesi non ci stanno. Anche perché l’analisi della situazione è deprimente: «L’austerità fiscale è terminata, ma l’economia francese non è ancora abbastanza forte da risolvere le patologie sociali che tormentano il paese. Nel secondo trimestre la crescita è ritornata a zero».
Per Evans-Pritchard, «il grande danno politico, comunque, si è già consumato: non serve aggiungere che la Francia ha anche una serie di problemi economici che non c’entrano con l’Ue. Il modello sociale è basato su tasse punitive sull’occupazione e crea uno dei peggiori cunei fiscali al mondo. Appena un quarto dei francesi tra i 60 e i 64 anni lavorano, rispetto al 40% della media Ocse. Questo è dovuto a incentivi per il pensionamento precoce. Lo Stato spende il 56% del Pil, cioè l’equivalente dei paesi nordici, senza però avere la flessibilità del lavoro che c’è nei paesi nordici». E ancora: «Ci sono 360 diverse tasse, alcune delle quali in vigore da prima della Rivoluzione Francese. I sindacati hanno per legge un presidio in tutte le aziende oltre i 50 dipendenti, eppure hanno un tasso di partecipazione di appena il 7%». Per Brigitte Granville, economista alla Queen Mary University di Londra, «è un inferno che purtroppo non ha nemmeno la poesia di Dante». Di fatto, «si è tergiversato per tutti gli anni del boom dell’euro e ora è troppo tardi. Ora la Francia è intrappolata nella camicia di forza dell’unione monetaria». Secondo il Fmi, il tasso di cambio reale è sopravvalutato del 9% (e rispetto alla Germania del 16%). «L’unico modo pratico con Sarkozycui la Francia può riguadagnare competitività è tramite una profonda deflazione rispetto al resto dell’Eurozona, ma questo prolungherebbe la crisi e sarebbe devastante per il Pil e la dinamica del debito. Sarebbe autolesionista».
Per Evans-Pritchard, Montebourg ha ragione a concludere che la Francia sarà paralizzata fino a che non riprenderà gli strumenti della propria sovranità. Quanto a Sarkozy, sta «aggirando questo elemento essenziale». Il suo manifesto-shock «chiede la fine del primato legale Ue rispetto alla legge francese e chiede l’abrogazione del Trattato di Lisbona, quello stesso trattato che lui, Sarkozy, aveva introdotto con prepotenza al Parlamento francese dopo che era stato respinto dagli elettori francesi in un referendum sotto la guisa di “Costituzione Europea”». Ma il suo maggior ardore, continua Evans-Pritchard, è riservato alla guerra culturale e alla “riduzione drastica” del numero degli stranieri. «Sarkozy promette di porre sotto controllo l’Islam in Francia, con gli imam che dovrebbero riferire le proprie attività al ministero degli interni». L’appello di Sarkozy alla “identità francese” punta direttamente al Front National, «e questo dice molto sulla devastazione dello scenario politico dopo anni di depressione».
Marine Le Pen è davanti a Sarkozy nei sondaggi, con un sostegno dell’elettorato vicino al 30% grazie a un impetuoso mix di ricette economiche di sinistra e nazionalismo di destra, con un richiamo diretto agli anni ’30. Ha promesso di «far finire l’incubo dell’Unione Europea». Un sondaggio Pew risalente a giugno svela il 61% degli elettori francesi ha un’opinione “sfavorevole” dell’Ue, un dato addirittura più alto che in Gran Bretagna. Il professor Thomas Guénolé della “Sciences Po” di Parigi avverte: «Per quanto possa sembrare incredibile, un referendum sul ‘Frexit’ verrebbe probabilmente perso dalla fazione europea. Come nel Regno Unito, il ‘leave’ vincerebbe». Per “Le Figaro”, il Brexit ha cambiato profondamente la situazione: «I sostenitori della costruzione europea avevano preso l’abitudine di difendere l’Europa con argomenti catastrofisti, con l’idea che l’uscita avrebbe provocato nuove guerre o collassi economici. Ma ora la Gran Bretagna sta uscendo ed è evidente che non avverrà nessun cataclisma economico e nessuna grossa crisi geopolitica»

mercoledì 7 settembre 2016

LIBERA CIRCOLAZIONE DEI CAPITALI, OVVERO COLONIALISMO

La serie di attentati di presunta matrice “islamica” in Francia e Germania è stata l’occasione, o il pretesto, per gran parte della stampa di segnalare la pioggia di finanziamenti che provengono da Arabia Saudita e Qatar, con la giustificazione ufficiale di costruire moschee in Europa. Gli stessi quotidiani che lanciano l’allarme per questa nuova emergenza-Islam non possono però fare a meno di rilevare che la destinazione “religiosa” dei finanziamenti non impedisce che questi capitali delle petromonarchie vadano ad acquisire vasti patrimoni immobiliari, specialmente in Italia.
Le operazioni finanziarie di questo tipo hanno probabilmente molto poco a che vedere con il terrorismo (molto più endogeno di quanto si voglia far credere) o con i progetti di conquista manu militari dell’Europa, dato che l’Europa è già sotto l’occupazione militare statunitense. La presenza di poli “islamici” ricchi e costantemente finanziati in Paesi come l’Italia, soggetti ad impoverimento progressivo dalle politiche europee, rappresenta una testa di ponte per affari immobiliari tanto più promettenti quanto più l’euro-deflazione fa scendere i prezzi.
Del resto i finanziamenti alle moschee ed ai centri culturali islamici rappresentano la minima quota del totale degli investimenti del Qatar in Italia. Grazie alla sua stabile partnership con la NATO, il Qatar ha acquisito ufficialmente lo status di Paese “rispettabile” che non rischia di andare incontro a sanzioni economiche, perciò, attraverso una lobby “italiana” ben strutturata e ammanigliata, questa petromonarchia, dopo aver acquisito il marchio della moda Valentino ed il complesso immobiliare di Porta Nuova a Milano, ha ulteriormente ramificato le sue attività nel campo del turismo, dove non mancano le occasioni per acquistare a prezzi stracciati alberghi, terreni ed altri immobili.
Di fronte alla preoccupata indignazione dei giornalisti, verrebbe da commentare: è la libera circolazione dei capitali, bellezza!
Razzismo anti-arabo ed islamofobia costituiscono un espediente per aggirare il vero problema e la vera soluzione al problema: l’afflusso di capitali esteri può sì rappresentare un momentaneo sollievo per la nostra bilancia dei pagamenti in deficit, ma comporta gravi effetti destabilizzanti per l’assetto sociale ed istituzionale di Paesi in stagnazione economica cronica come il nostro, perciò la soluzione consisterebbe nel limitare la mobilità dei capitali, non certo nel razzismo o nell’impedire alle donne l’uso di burka e burkini. La locuzione “libera circolazione dei capitali” può vantare un sinonimo dal senso semplice e diretto: colonialismo.
Molti commentatori dell’establishment si lamentano del fatto che, nonostante gli incrementi, l’Italia veda un tasso di investimenti esteri ancora inferiore agli Stati Uniti ed alla Germania. Intanto però in Italia vi sono più investimenti esteri che in Brasile e quasi al livello dell’India. In realtà certe lamentele non hanno alcun senso, se non propagandistico, perché gli Usa e la Germania sono Paesi fortemente capitalizzati, nei quali gli investimenti hanno uno scarso potere condizionante. In Paesi poco capitalizzati come il nostro solo in minima parte i capitali esteri vanno infatti a finanziare attività produttive, in quanto sono soprattutto indirizzati all’acquisizione immobiliare ed alla fagocitazione della classe dirigente.
Ad esempio, con il patrocinio dell’Unione Europea, la Open Society Foundation di George Soros finanzia anche piani di borse di studio. In un contesto di impoverimento e dissesto dell’istruzione pubblica, questi piani così apparentemente innocui e filantropici costituiscono una vera e propria ipoteca sul futuro di un Paese. Le prossime generazioni si affacceranno alla gestione della società già “formate” in base agli interessi del colonialismo.
La libera circolazione dei capitali rappresenta uno dei cavalli di battaglia del sedicente liberismo, l’altro è la riduzione della spesa pubblica, considerata, specialmente in Paesi come il nostro, strutturalmente “inefficiente”. Il liberismo pretende di imporre una visione dell’economia come un processo “naturale” a cui adattarsi, ma è tutto da dimostrare che la natura sia “efficiente”. Anche la natura risulta piuttosto “sprecona” e la sua riproduzione avviene a prezzo di innumerevoli disastri e tentativi falliti, quindi la spesa pubblica potrebbe vantarsi di essere molto più “naturale” di quanto si voglia far credere; anche perché la stessa natura viene a riscuotere i suoi crediti nei confronti dei territori e dei popoli che li abitano senza riguardo ai pareggi di bilancio nella Costituzione.
Ma se si esce dagli ossimori liberisti, si comprende immediatamente l’importanza che riveste una riduzione della spesa pubblica per favorire la colonizzazione da parte dei capitali esteri. Meno soldi circolano in un Paese, più i capitali esteri vedranno aumentare il proprio potere contrattuale. La libera circolazione dei capitali presuppone quindi la limitazione della libertà degli altri. Nelle enciclopedie il liberismo andrebbe quindi tolto dalla voce “dottrine economiche” per essere inserito in quella di “propaganda imperialistica”.

martedì 6 settembre 2016

Evasione e bolle armi del ricatto globale

Le ultime vicende che vedono i colossi del web e dell’informatica, Apple in testa, sotto accusa per i marchingegni fiscali e le gigantesche evasioni, non ci parlano solo del meraviglioso e intricato mondo del business nell’era globalizzata nella quale si produce in Cina, si distribuisce in Irlanda e si pagano le tasse finali a Bermuda, ma di una realtà sempre più evidente: che le multinazionali e i grandi gruppi finanziari stanno sostituendo gli stati e dunque stanno anche spazzando via la democrazia. Il caso della mela morsicata è esemplare: non contenta della tassazione in Irlanda che peraltro è appena del 12,5% nel 2003 riuscì ad imporre a Dublino un’aliquota dell’ 1% e a portarla gradualmente a niente, a una ricarica di telefonino, ovvero lo 0,005% , il 5 per mille per chi non si trova a suo agio con le cifre decimali. Adesso l’Irlanda, dopo una sentenza europea chiede ad Apple 13 miliardi di tasse, per le attività economiche svolte sul proprio territorio, ma succede un fatto stranissimo e surreale: gli Usa dapprima hanno minacciato ritorsioni, poi il ministro del tesoro ha suggerito che forse la multinazionale (che ovviamente paga cifre ridicole anche in America) potrebbe ridurre l’importo dovuto all’Irlanda “se le autorità degli Stati Uniti dovessero imporre ad Apple di versare per il periodo 2003 – 2014, importi maggiori alla società madre statunitense per il finanziamento delle attività di ricerca e sviluppo”.
E’ chiaro che si tratta di un tentativo di salvataggio in extremis francamente privo di senso visto che non si vede la ragione per cui l’Irlanda dovrebbe cedere parte del suo credito agli Usa in cambio di una fumosa e pelosa promessa su un cambiamento delle regole in terra americana. Ma dall’episodio emergono fin troppo chiaramente due cose: da una parte il totale disconoscimento della sovranità altrui tanto da voler rubare e lucrare il maltolto quasi si trattasse di una storia di malavita, dall’altra la subalternità di Washington ai poteri di economici, che la costringe farsi carico non solo dell’evasione ed elusione nazionale, ma di difenderla anche altrove. Insomma come se fossero ormai una specie di Blackwater globale, di braccio armato del profitto.
Del resto in un sistema liberista non potrebbe essere altrimenti: la nomenklatura capitalista comanda ad onta dell’apparente democrazia; la globalizzazione, la battaglia contro il lavoro, i salari e il welfare hanno fatto crescere i profitti e li hanno finanziarizzati, a fronte di un calo produttivo, tanto che nel secondo trimestre di quest’anno i dividendi azionari sono stati di 372 miliardi dollari e questo secondo le stime ufficiali che ovviamente non tengono conto delle sottostime, degli imboscamenti e dei camuffamenti di denaro, dei dividendi non versati o di quelli occulti, delle capitalizzazione borsistiche, dei guadagni azionari di tantissimi dirigenti dei grandi gruppi, dell’economia criminale o di quella sommersa, della finanza off shore, o delle evasioni fiscali. Bene che vada la gigantesca cifra è solo la punta di un iceberg e tuttavia già così e nemmeno tendendo conto di una stima di crescita del 4% entro il 2016 fatta dalla Henderson Global Investors, arriviamo su base annua a 1 miliardo e 488 miliardi di Euro, vale a dire una cifra superiore al Pil di quasi tutti i Paesi del mondo e inferiore solo a quello dei primi 9. E’ più, molto di più, di qualsiasi Paese dell’America latina ad eccezione del Brasile, è più di qualsiasi Paese dell’Africa, molto superiore alle tre grandi economie del continente, ovvero Sudafrica, Nigeria ed Egitto e assai di più di qualsiasi stato dell’Asia, fatte salve Cina e India. Sono cifre, anche se solo ufficiali, che determinano il comando perché qualsiasi Paese è sotto ricatto, basta premere un tasto.
E tuttavia i numeri stratosferici non cancellano anzi rafforzano l’idea di trovarsi di fronte ad un mondo illusorio ed estremamente fragile: tornando alla web e sharing economy dalla quale siamo partiti possiamo focalizzarci sulla Airbnb, una società fondata bel 2008 da tre ragazzotti californiani che oggi sono multimilardari con l’idea di mettere in rete il business fiorente, proprio a causa delle crisi, delle case vacanza. Con solo un’idea nemmeno poi cosìoriginale e di fatto già in qualche modo esistente sia pure a titolo gratuito, con una banalissima struttura informatica, senza alcuna proprietà materiale, nemmeno quella dei server sono diventati leader mondali di questo interscambio e per tutto questo salvo che negli Usa dove viene usato il paradiso fiscale de facto del Delaware, la società madre e le consorziate pagano un inezia di tasse in Irlanda. Si tratta allora di un miracolo che conferma la retorica oscena e vacua delle start up? No si tratta dell’economia di carta: in Italia che è il terzo Paese al mondo dopo Usa e Francia per numero di contratti, i proprietari hanno guadagnato almeno in chiaro 394 milioni di euro con le case affittate su Airbnb. Ma solo una commissione del 3% per cento è finito alla società dunque all’incirca 11 milioni, mentre dagli ospiti temporanei arriva una percentuale che va dal 6 al 12% e quindi aggiungiamo altri 23 milioni. A questi sommiamo i “contributi” alla società di un milione e trecentomila italiani che si sono serviti di Airbnb per trovare case vacanza fuori del Paese: qui i conti sono più ardui, ma possiamo ipotizzare un’altra dozzina di milioni per un totale di circa 50 di milioni. Tantissimo per pagare appena 40 mila euro di tasse anche se tutti i contratti vengono in realtà firmati con la filiale irlandese della società.
Tantissimo ma anche problematico perché se è vero, come afferma la società che finora 60 milioni di persone hanno utilizzato il servizio di cui 2 milioni di proprietari gli incassi globali sebbene alti per un semplice servizio web e altissimo rispetto alla miseria di tasse pagate, si possono ipotizzare in circa 6 miliardi di entrate ( con una media, molto, ma molto generosa e di fatto improbabile di mille euro a contratto), ma allora com’è che i tre fondatori si ritrovano ognuno con un patrimonio personale di circa 3 miliardi e mezzo di dollari? Si deve andare a tentoni perché i bilanci sono segreti e del resto la Airbnb ha la sua sede principale nello stesso palazzo che ospitò a suo tempo la Buconero significativa società di Callisto Tanzi. Ora tutto questo per dire che nonostante la Airbnb secondo il Wall street journal non abbia fatto utili nel 2015 a causa delle spese per espandersi e che anzi le perdite operative siano state di 150 milioni, che il settore abbia comunque dei limiti di crescita e che adesso arriva il difficile con la concorrenza locale in via di contrattacco, la società ha ricevuto un miliardo di dollari da un gruppo di banche composto da Jp Morgan, Citigroup, Bank of America, Morgan Stanley e grazie a questo la sua valutazione è arrivata a 30 miliardi di dollari, una cifra spropositata se ci basiamo sui fondamentali. E tutti riposti in una fede assoluta e generica nella sharing economy che via Irlanda e Bermuda paga un semplice obolo di tasse. Quindi economia di rapina e bolle vanno di pari passo e collaborano insieme a costruire la potenza finanziaria con cui si tiene in vita il ricatto globale.

lunedì 5 settembre 2016

Imposte dall’alto: i 13 miliardi del paradosso europeo

Ha fatto scalpore negli ultimi giorni la decisione della Commissione Europea di condannare la Apple al rimborso di tasse non pagate in seguito ad un accordo fiscale illegittimo con l’Irlanda; la cifra a cui ammonterebbe l’evasione fiscale è da capogiro: 13 miliardi di Euro. La situazione paradossale è originata dalla posizione presa dall’Irlanda: il paese dovrebbe incassare la somma esorbitante, ma ritiene che non ci sia stata alcuna illegalità e che la multinazionale americana sia perfettamente in regola con il fisco.
Per comprendere meglio la controversia è necessario partire dal lontano 1980: in quel periodo non esisteva né l’UE (che si chiamava ancora Comunità Economica Europea), né tantomeno l’Euro, e la Repubblica Irlandese stava affrontando l’ennesima grave crisi economica, con il numero dei disoccupati in continuo aumento; lo Stato, per arginare il fenomeno, decise di intraprendere una serie di riforme su larga scala, che prevedano anche degli accordi fiscali anticipati con le multinazionali: il cosiddetto fenomeno del “Tax Ruling”. In pratica, per attrarre capitali dall’estero e creare posti di lavoro, venivano concesse importanti agevolazioni alle grandi imprese che investivano nel paese. La storia di Apple in Irlanda nasce proprio da questa fattispecie: inizialmente l’azienda originaria di Cupertino, aprendo una nuova sede a Cork, assunse 60 dipendenti; nel corso degli anni il numero dei lavoratori è centuplicato, arrivando a 6mila in tutta l’isola. Appare evidente che la multinazionale americana, la quale ha sempre avuto nella strategia di delocalizzazione uno dei suoi cavalli di battaglia (basti pensare a tutta la manifattura dei prodotti in Cina, dove il costo della manodopera è assai inferiore), ha saputo sfruttare al meglio l’accordo preso con la Repubblica Irlandese, aumentando la propria influenza nelle scelte di politica economica nazionale.
Infatti nel frattempo il regime di agevolazioni fiscali è continuato, anzi, a detta della Commissione Europea, si è incrementato, fino a giungere ad un’aliquota irrisoria dello 0,005% sui profitti nel 2013. Il problema è sorto a causa della cessione di una parte della sovranità dello Stato in seguito alla costituzione dell’Unione Europea. Prima infatti l’Irlanda aveva tutta la libertà di attuare accordi fiscali anticipati, sostenuta anche dalla teoria economica neo-classica, in particolare Pigouviana, secondo la quale è necessario ricompensare con sussidi le attività che generano “esternalità positive”(come dare lavoro a molti disoccupati per es.). la situazione si è invece assai complicata con l’istituzione del Mercato Unico: non è più sufficiente valutare l’equità della tassazione rispetto alle altre imprese operanti in Irlanda, ma deve essere relazionata a quelle di tutta Europa. L’accusa mossa dalla Commissione Europea è infatti quella di concorrenza sleale, definendo come semplice “aiuto di Stato” la relazione contrattuale fra Apple e Irlanda , rinnovatasi per più di 35 anni, che ha contribuito fortemente al risveglio economico della “Tigre Celtica” negli anni ’90, influendo anche sulle caratteristiche demografico-sociali di un’intera nazione. Alla luce di tutto ciò, risulta più facile comprendere perché l’Irlanda ritiene che quei 13 miliardi di Euro non siano in alcun modo dovuti dalla multinazionale americana; c’è infatti in gioco la reputazione stessa del paese, e difficilmente in futuro altre imprese saranno disposte ad investire in Irlanda se la condanna della Commissione dovesse essere confermata.

venerdì 2 settembre 2016

Monte dei Paschi di Siena: salvata da J. P. Morgan?

Dunque il Monte dei Paschi di Siena è "salvo"? E, se sì, può essere questa la svolta decisiva della crisi bancaria italiana? Se la risposta alla prima domanda è assolutamente prematura, quella alla seconda è un rotondissimo no. Ma c'è un'altra domanda. Nel caso il salvataggio si concretizzi, quale sarà il nome del proprietario della nuova good bank? Non sarà, per caso, quello di JP Morgan?
La paura fa novanta, e gli oligarchi della finanza si son dati da fare ad architettare una via d'uscita da una situazione che rischiava di avere pesanti ripercussioni su tutto il settore bancario. Idem i decisori politici, semplicemente atterriti all'idea di dover applicare ilbail in- che pure hanno approvato in sede europea - alla quarta banca italiana.
Insomma, Mps è stata considerata da tutti costoro Too big to fail, anche se nel caso non di fallimento si sarebbe trattato, bensì (come si dice nell'insuperabile eurocratese) di una "risoluzione". Il problema è che il conto di queste "risoluzioni" (vedi il caso delle quattro banche "risolte" l'autunno scorso) spetta oggi a chi possiede obbligazioni, in primo luogo quelle subordinate.
Il governo si è dunque preoccupato dei risparmiatori che sarebbero stati colpiti? In parte sì, perché un simile esito avrebbe tolto altri consensi ad un Renzi già in affanno. Ma la preoccupazione maggiore è stata un'altra, quella del cosiddetto "contagio". Non solo l'applicazione del bail in ad Mps avrebbe determinato perdite vistose (nell'ordine di qualche miliardo) agli investitori istituzionali (altre banche, assicurazioni, fondi), ma avrebbe fatto crollare il valore dei bond emessi dagli altri istituti di credito, con un effetto a cascata difficile da valutare ma certamente imponente.
Il Sistema (con la maiuscola) - intendendo con tale termine l'insieme (spesso intrecciato) dei poteri economici e politici - ha dovuto perciò reagire. Prima con la ricerca di una scappatoia che consentisse un intervento pubblico in deroga alle norme europee, poi, vista l'indisponibilità della Commissione Europea, con la predisposizione di un piano che viene pomposamente definito di "mercato", ma che ha come protagonisti alcuni dei principali avvoltoi della finanza internazionale.
E siccome un siffatto "mercato" piace assai dalle parti di Francoforte, ecco che gli uomini di Draghi hanno dato l'atteso via libera ad un'operazione che, più che a Siena od a Roma, sembra concepita a New York. Per l'esattezza all'indirizzo di Park Avenue 270, dove si trova il quartier generale di JP Morgan, una delle più grandi banche d'affari del mondo.
Già, JP Morgan, quella simpatica istituzione che in un rapporto del 28 maggio 2013 si premurò di definire le costituzioni nazionali del Sud Europa come «inadatte a favorire la maggiore integrazione dell'area europea», a causa di una «forte influenza delle idee socialiste» e di una «licenza di protestare» che proprio non si attaglia ai tempi dell'attuale dittatura finanziaria. Insomma, come compagni di strada, sulla via del referendum costituzionale, Renzi non avrebbe potuto trovarne di migliori.

giovedì 1 settembre 2016

Milano-Roma: l'asse delle stragi del '93 tra bombe e trattative

Via dei Georgofili, via Palestro, S. Giovanni, S. Giorgio al Velabro. Sono questi i luoghi in cui, nella calda estate del 1993, le città di Firenze, Milano e Roma furono colpite dalla furia di Cosa nostra. In pochi mesi l'Italia ripiombò nel terrore dopo che, appena un anno prima, erano stati già uccisi i giudici Falcone e Borsellino. Non bastò l'arresto della belva Totò Riina, in gennaio, per fermare la follia stragista. Le bombe continuarono a scoppiare con tutta la propria potenza. Cambiò il fronte. Dalla Sicilia il sangue fu versato in “Continente”. A ventitré anni di distanza, nonostante lo svolgimento di svariati processi, sono ancora molti gli interrogativi che restano aperti e che meriterebbero una risposta. Quel che è certo è che in quel momento lo Stato subì un colpo durissimo tanto che gli stessi vertici delle Istituzioni arrivarono a pensare ad un Colpo di Stato in atto.
27 luglio 1993, tutto in una notte
In una Milano spopolata, in quella sera di luglio l'agente di Polizia Locale Alessandro Ferrari notò la presenza di una Fiat Uno (che risulterà poi rubata qualche ora prima) parcheggiata in via Palestro, di fronte al Padiglione di arte contemporanea, da cui fuoriusciva un fumo biancastro e quindi richiese l'intervento dei Vigili del fuoco, che accertarono la presenza di un ordigno all'interno dell'auto. Fu un attimo e l'autobomba esplose uccidendo l'agente Alessandro Ferrari e i vigili del fuoco Carlo La Catena, Sergio Pasotto e Stefano Picerno ma anche l'immigrato marocchino Moussafir Driss, che venne raggiunto da un pezzo di lamiera mentre dormiva su una panchina.
Erano le 23,15. Il Padiglione di Arte Contemporanea venne completamente distrutto ed altre dodici persone rimasero ferite. Pochi minuti dopo la stessa scena si verificò a Roma quando due ordigni esplosero, uno sul retro della Basilica di San Giovanni in Laterano dove ha sede la Curia. L’altro davanti alla chiesa di San Giorgio al Velabro. Nelle stesse ore venne registrato un black out a palazzo Chigi, la sede del Governo e le linee telefoniche rimasero isolate per alcune ore. Quegli attentati vennero messi subito in relazione a quelli in via Fauro a Roma (14 maggio 1993) e in via dei Georgofili a Firenze (27 maggio 1993, 5 morti).
�Le indagini ed i processi
Parte della verità sulla strage di via Palestro venne ricostruita grazie alle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia Pietro Carra, Antonio Scarano, Emanuele Di Natale e Umberto Maniscalco. Così, nel 1998, Cosimo Lo Nigro, Giuseppe Barranca, Francesco Giuliano, Gaspare Spatuzza, Luigi Giacalone, Salvatore Benigno, Antonio Scarano, Antonino Mangano e Salvatore Grigoli vennero riconosciuti come esecutori materiali della strage di via Palestro nella sentenza per le stragi del 1993. Tuttavia nella sentenza veniva anche messo nero su bianco che: “Purtroppo, la mancata individuazione della base delle operazioni a Milano e dei soggetti che in questa città ebbero, sicuramente, a dare sostegno logistico e contributo manuale alla strage non ha consentito di penetrare in quelle realtà che, come dimostrato dall’investigazione condotta nelle altre vicende all’esame di questa Corte, si sono rivelate più promettenti sotto il profilo della verifica 'esterna'”.�Un nuovo capitolo si è poi aperto nel 2002 quando, sempre in base alle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia Carra e Scarano, la Procura di Firenze dispose l'arresto dei fratelli Tommaso e Giovanni Formoso ("uomini d'onore" di Misilmeri), identificati dalle indagini come coloro che aiutarono Lo Nigro nello scarico dell'esplosivo ad Arluno e che compirono materialmente l'attentato. I fratelli Formoso vennero condannati nel 2003 all'ergastolo dalla Corte d'Assise di Milano ed il giudizio venne confermato anche nei successivi gradi di giudizio.
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La strage di via dei Georgofili
Spatuzza ed i frammenti di verità
Nuovi frammenti di verità sulle stragi del 1993 sono stati portati nel 2008 grazie al pentimento di Gaspare Spatuzza. L'ex boss di Brancaccio in particolare riferì che lui, Cosimo Lo Nigro, Francesco Giuliano, Giovanni Formoso e i fratelli Filippo Marcello e Vittorio Tutino (quest'ultimo, pur essendo condannato per le stragi di Firenze e Roma, assolto in via definitiva per quella di Milano, così che non potrà più essere chiamato alla sbarra, ndr) parteciparono ad una riunione in cui vennero decisi i gruppi che dovevano operare su Roma o Milano per compiere gli attentati; secondo Spatuzza, Formoso e i fratelli Tutino operarono su Milano e in un primo momento lui, Lo Nigro e Giuliano li raggiunsero per aiutarli nello scarico dell'esplosivo e nel furto della Fiat Uno utilizzata nell'attentato, per poi tornare a Roma al fine di compiere gli attentati alle chiese. Con le sue dichiarazioni di fatto Spatuzza scagionò anche Tommaso Formoso, dichiarando che all'attentato partecipò soltanto il fratello Giovanni, che da Tommaso si era fatto prestare con una scusa la villetta di Arluno dove venne scaricato l'esplosivo. Ciò non bastò a portare alla revisione del processo tanto che nell'aprile 2012 la Corte d'Assise di Brescia rigettò la richiesta adducendo che le sole dichiarazioni di Spatuzza non bastavano.
Con le stesse motivazioni, di fatto, nel giugno 2015 è stato assolto anche Filippo Marcello Tutino (già in cella ad Opera per la condanna inflitta dal gup di Palermo a 10 anni e 8 mesi di reclusione per essere un affiliato alla famiglia mafiosa dei Brancaccio, ndr), accusato di essere stato il basista della strage. Nelle motivazioni della sentenza emessa dalla Corte d'Assise di Milano, infatti, si spiega che non basta la testimonianza di un collaboratore di giustizia, seppure attendibile, per arrivare alla condanna. “Le dichiarazioni rese da Gaspare Spatuzza in ordine alla strage di via Palestro, aventi anche carattere autoaccusatorio - scrivono i giudici - appaiono connotate da attendibilità intrinseca in base ai criteri di precisione, coerenza, costanza e spontaneità”. Mentre “appaiono infondate le contrarie deduzioni della difesa dell’imputato”. Secondo la Corte l'attendibilità di Spatuzza (accertata anche nell'ambito di altri procedimenti, ndr) “non si deve confondere con la verifica della sussistenza dei necessari riscontri alle dichiarazioni del collaboratore”. Nessuno tra gli elementi forniti da Spatuzza sul coinvolgimento di Tutino secondo giudici “assume un valore decisivo di riscontro individualizzante” a carico dell’imputato. Così come “nessun concreto elemento è ricavabile dalle dichiarazioni” di altri collaboratori di giustizia. Nonostante la “provata appartenenza” a Cosa Nostra, quindi, i giudici hanno assolto Tutino dall’accusa di strage con la formula “per non aver commesso il fatto”.
Il pm della Dda di Milano Paolo Storari, che aveva chiesto la condanna all’ergastolo, ha presentato lo scorso dicembre ricorso in appello contro l'assoluzione.
Secondo il pm la strage di via Palestro si inseriva “nella più ampia strategia stragista che andava da Capaci, passando per via D’Amelio, via dei Georgofili, l’attentato a Maurizio Costanzo e il fallito attentato allo stadio Olimpico”.
Il caos e la firma di Cosa nostra
Il sospetto che dietro a quelle stragi vi fosse la mano di Cosa nostra emerse sin da subito e le indagini passarono in fretta dalla procura di Milano a quella di Firenze in quanto l'esplosivo utilizzato nell'attentato era lo stesso di quello utilizzato in via dei Georgofili.
Oggi quale fosse il clima che si respirava all'epoca lo sappiamo con più certezza anche grazie alle deposizioni di tanti smemorati di Stato al processo trattativa Stato-mafia. A cominciare dall'ex Capo dello Stato, Giorgio Napolitano. Davanti alla Corte d'assise di Palermo ha confermato che dopo le bombe del '93 ai livelli più alti delle istituzioni di allora si ebbe immediatamente la consapevolezza di un attacco diretto da parte della mafia. L'ex presidente parlò esplicitamente “di un aut-aut nei confronti dello Stato da parte della mafia corleonese per alleggerire la pressione detentiva o, in caso contrario, proseguire nella strategia destabilizzante dello Stato”. Parole che ben fanno comprendere il clima teso dell’epoca, nel quale si sono consumate le stragi del ’92 e ‘93.
Anche l'ex Presidente del Consiglio Carlo Azeglio Ciampi fornì importanti tasselli per fornire una chiave di lettura. Ciampi, all'epoca, era particolarmente preoccupato per lo strano black-out di Palazzo Chigi. Dopo la notte delle bombe, annunciò di voler riformare i servizi segreti e il 2 agosto 1993, partecipando a sorpresa alla commemorazione della strage di Bologna del 1980, intervenne dal palco: “È contro questa concreta prospettiva di uno Stato rinnovato che si è scatenata una torbida alleanza di forze che perseguono obiettivi congiunti di destabilizzazione politica e di criminalità comune”. Anni dopo, ai pm di Palermo, ha aggiunto: “Ebbi paura che fossimo a un passo da un colpo di Stato. Lo pensai allora, e mi creda, lo penso ancora oggi”.
Ed ecco dunque le domande che scorrono. A cosa si riferiva Ciampi quando parlava di “torbida alleanza di forze”?
Nel corso del tempo sono state raccolte alcune certezze come la relazione della Dia dell’agosto '93 in cui si forniva una lettura chiara sulla natura delle stragi addirittura utilizzando il termine “trattativa”. “La perdurante volontà del Governo di mantenere per i boss un regime penitenziario di assoluta durezza ha concorso alla ripresa della stagione degli attentati - scrive la Dia - Da ciò è derivata per i capi l’esigenza di riaffermare il proprio ruolo e la propria capacità di direzione anche attraverso la progettazione e l’esecuzione di attentati in grado d’indurre le Istituzioni a una tacita trattativa”. “Verosimilmente – continua la nota – la situazione di sofferenza in cui versa Cosa Nostra e la sua disperata ricerca di una sorta di soluzione politica potrebbe essersi andata a rinsaldare con interessi di altri centri di potere, oggetto di analoga aggressione da parte delle istituzioni, ed aver dato vita ad un pactum sceleris attraverso l’elaborazione di un progetto che tende a intimidire e distogliere l’attenzione dello Stato per assicurare forme d’impunità ovvero innestarsi nel processo di rinnovamento politico e istituzionale in atto nel nostro paese per condizionarlo”.
Gli investigatori della Direzione antimafia avvertono anche i rischi che si sarebbero corsi qualora vi fosse una revoca “anche solo parziale dei decreti che dispongono l’applicazione dell’Art. 41 bis”. Questa infatti “potrebbe rappresentare il primo concreto cedimento dello Stato, intimidito dalla stagione delle bombe”. Il risultato? Nel novembre successivo, appena due mesi dopo l’arrivo della al Ministero degli Interni, il Ministro della Giustizia Giovanni Conso lascerà scadere il regime di 41 bis per 373 detenuti mafiosi.
Se su questi fatti si sta indagando e si sta svolgendo un processo a Palermo vi sono anche elementi sulla strage che andrebbero approfonditi.
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La Basilica di San Giovanni in Laterano
Punto di domanda
Un primo interrogativo riguarda proprio la scelta dei luoghi da colpire. Attentare al patrimonio artistico e culturale di un Paese, non manifesta solo la volontà di metterlo all'angolo, ma quasi annientarlo. “Ti immagini se l'Italia si sveglia e non trova più la Torre di Pisa?”, avevano suggerito a Nino Gioè, nel tentare di convincere la mafia a procedere con gli attentati per tutta la Nazione. A dargli l'idea, forse, la Primula Nera, l'ex terrorista nero e legato ai servizi segreti, Paolo Bellini. Il sospetto che dietro a quegli attentati non vi fosse solo Cosa nostra è più che legittimo. Chi ha indicato alla mafia i luighi da colpire? Sicuramente appare difficile pensare che i boss palermitani siano stati grandi esperti d'arte da sapere che in via Palestro vi fosse il PAC (Padiglione d’Arte Contemporanea) ed è un dato di fatto che, sul piano artistico, di luoghi da colpire ve ne fossero di più importanti. Del resto vi è persino il dubbio che sia stato veramente questo l'obiettivo. Proprio Spatuzza ha dichiarato che “a Milano sorsero problemi e l’obiettivo venne mancato di 150 metri”.
A circa cento metri dal museo si sarebbe trovata una sede massonica: il Centro Europeo di comunicazione, guidato dal Gran Maestro Giuliano Di Bernardo. Poco distante, poi, vi era presumibilmente un ufficio dei Servizi Segreti ed anche gli uffici di Marcello Dell'Utri, oggi imputato al processo trattativa Stato-mafia e condannato per concorso esterno in associazione mafiosa. Quella bomba esplosa in anticipo, che secondo i pentiti non avrebbe dovuto fare vittime, doveva essere un messaggio per queste organizzazioni o per lo stesso ex senatore?
Resta avvolto nel mistero chi ha acceso la miccia o chi ha guidato l'auto fino al PAC. Assolti entrambi i fratelli Tutino, vi sono dei testimoni che parlano di una donna, bella, bionda e magra, probabilmente sotto i trent'anni (identikit simile a quello fornito da altri testimoni sull’attentato di via Fauro a Roma). Potrebbe essere stata lei a parcheggiare la Fiat Uno per poi dileguarsi su un'altra autovettura con due uomini a bordo. Quell'identikit però sparisce completamente dalle indagini e, di cosneguenza, anche dalle sentenze. �Un altro nome che non finì mai nelle inchieste è quello di Roberto Enea, capo di Cosa nostra a Milano. Vi sarebbero delle riprese che lo ritraevano mentre si allontanava frettolosamente da via Palestro proprio poco dopo l'esplosione. Se si considerano le regole di Cosa nostra appare inverosimile che non fosse stato informato sull'attentato che si doveva compiere. Ad oltre vent'anni dalle stragi, dunque, restano gli interrogativi ed un'attesa di verità e giustizia da parte dei familiari delle vittime. Un'attesa che, si spera, non sia eterna.