Via dei Georgofili, via Palestro, S. Giovanni, S. Giorgio al
Velabro. Sono questi i luoghi in cui, nella calda estate del 1993, le
città di Firenze, Milano e Roma furono colpite dalla furia di Cosa
nostra. In pochi mesi l'Italia ripiombò nel terrore dopo che, appena un
anno prima, erano stati già uccisi i giudici Falcone e Borsellino. Non
bastò l'arresto della belva Totò Riina, in gennaio, per fermare la
follia stragista. Le bombe continuarono a scoppiare con tutta la propria
potenza. Cambiò il fronte. Dalla Sicilia il sangue fu versato in
“Continente”. A ventitré anni di distanza, nonostante lo svolgimento di
svariati processi, sono ancora molti gli interrogativi che restano
aperti e che meriterebbero una risposta. Quel che è certo è che in quel
momento lo Stato subì un colpo durissimo tanto che gli stessi vertici
delle Istituzioni arrivarono a pensare ad un Colpo di Stato in atto.
27 luglio 1993, tutto in una notte
In una Milano spopolata, in quella sera di luglio l'agente di Polizia
Locale Alessandro Ferrari notò la presenza di una Fiat Uno (che
risulterà poi rubata qualche ora prima) parcheggiata in via Palestro, di
fronte al Padiglione di arte contemporanea, da cui fuoriusciva un fumo
biancastro e quindi richiese l'intervento dei Vigili del fuoco, che
accertarono la presenza di un ordigno all'interno dell'auto. Fu un
attimo e l'autobomba esplose uccidendo l'agente Alessandro Ferrari e i
vigili del fuoco Carlo La Catena, Sergio Pasotto e Stefano Picerno ma
anche l'immigrato marocchino Moussafir Driss, che venne raggiunto da un
pezzo di lamiera mentre dormiva su una panchina.
Erano le 23,15. Il
Padiglione di Arte Contemporanea venne completamente distrutto ed altre
dodici persone rimasero ferite. Pochi minuti dopo la stessa scena si
verificò a Roma quando due ordigni esplosero, uno sul retro della
Basilica di San Giovanni in Laterano dove ha sede la Curia. L’altro
davanti alla chiesa di San Giorgio al Velabro. Nelle stesse ore venne
registrato un black out a palazzo Chigi, la sede del Governo e le linee
telefoniche rimasero isolate per alcune ore. Quegli attentati vennero
messi subito in relazione a quelli in via Fauro a Roma (14 maggio 1993) e
in via dei Georgofili a Firenze (27 maggio 1993, 5 morti).
�Le indagini ed i processi
Parte della verità sulla strage di via Palestro venne ricostruita
grazie alle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia Pietro Carra,
Antonio Scarano, Emanuele Di Natale e Umberto Maniscalco. Così, nel
1998, Cosimo Lo Nigro, Giuseppe Barranca, Francesco Giuliano, Gaspare
Spatuzza, Luigi Giacalone, Salvatore Benigno, Antonio Scarano, Antonino
Mangano e Salvatore Grigoli vennero riconosciuti come esecutori
materiali della strage di via Palestro nella sentenza per le stragi del
1993. Tuttavia nella sentenza veniva anche messo nero su bianco che:
“Purtroppo, la mancata individuazione della base delle operazioni a
Milano e dei soggetti che in questa città ebbero, sicuramente, a dare
sostegno logistico e contributo manuale alla strage non ha consentito di
penetrare in quelle realtà che, come dimostrato dall’investigazione
condotta nelle altre vicende all’esame di questa Corte, si sono rivelate
più promettenti sotto il profilo della verifica 'esterna'”.�Un nuovo
capitolo si è poi aperto nel 2002 quando, sempre in base alle
dichiarazioni dei collaboratori di giustizia Carra e Scarano, la Procura
di Firenze dispose l'arresto dei fratelli Tommaso e Giovanni Formoso
("uomini d'onore" di Misilmeri), identificati dalle indagini come coloro
che aiutarono Lo Nigro nello scarico dell'esplosivo ad Arluno e che
compirono materialmente l'attentato. I fratelli Formoso vennero
condannati nel 2003 all'ergastolo dalla Corte d'Assise di Milano ed il
giudizio venne confermato anche nei successivi gradi di giudizio.
via dei georgofili 610
La strage di via dei Georgofili
Spatuzza ed i frammenti di verità
Nuovi frammenti di verità sulle stragi del 1993 sono stati portati nel
2008 grazie al pentimento di Gaspare Spatuzza. L'ex boss di Brancaccio
in particolare riferì che lui, Cosimo Lo Nigro, Francesco Giuliano,
Giovanni Formoso e i fratelli Filippo Marcello e Vittorio Tutino
(quest'ultimo, pur essendo condannato per le stragi di Firenze e Roma,
assolto in via definitiva per quella di Milano, così che non potrà più
essere chiamato alla sbarra, ndr) parteciparono ad una riunione in cui
vennero decisi i gruppi che dovevano operare su Roma o Milano per
compiere gli attentati; secondo Spatuzza, Formoso e i fratelli Tutino
operarono su Milano e in un primo momento lui, Lo Nigro e Giuliano li
raggiunsero per aiutarli nello scarico dell'esplosivo e nel furto della
Fiat Uno utilizzata nell'attentato, per poi tornare a Roma al fine di
compiere gli attentati alle chiese. Con le sue dichiarazioni di fatto
Spatuzza scagionò anche Tommaso Formoso, dichiarando che all'attentato
partecipò soltanto il fratello Giovanni, che da Tommaso si era fatto
prestare con una scusa la villetta di Arluno dove venne scaricato
l'esplosivo. Ciò non bastò a portare alla revisione del processo tanto
che nell'aprile 2012 la Corte d'Assise di Brescia rigettò la richiesta
adducendo che le sole dichiarazioni di Spatuzza non bastavano.
Con
le stesse motivazioni, di fatto, nel giugno 2015 è stato assolto anche
Filippo Marcello Tutino (già in cella ad Opera per la condanna inflitta
dal gup di Palermo a 10 anni e 8 mesi di reclusione per essere un
affiliato alla famiglia mafiosa dei Brancaccio, ndr), accusato di essere
stato il basista della strage. Nelle motivazioni della sentenza emessa
dalla Corte d'Assise di Milano, infatti, si spiega che non basta la
testimonianza di un collaboratore di giustizia, seppure attendibile, per
arrivare alla condanna. “Le dichiarazioni rese da Gaspare Spatuzza in
ordine alla strage di via Palestro, aventi anche carattere
autoaccusatorio - scrivono i giudici - appaiono connotate da
attendibilità intrinseca in base ai criteri di precisione, coerenza,
costanza e spontaneità”. Mentre “appaiono infondate le contrarie
deduzioni della difesa dell’imputato”. Secondo la Corte l'attendibilità
di Spatuzza (accertata anche nell'ambito di altri procedimenti, ndr)
“non si deve confondere con la verifica della sussistenza dei necessari
riscontri alle dichiarazioni del collaboratore”. Nessuno tra gli
elementi forniti da Spatuzza sul coinvolgimento di Tutino secondo
giudici “assume un valore decisivo di riscontro individualizzante” a
carico dell’imputato. Così come “nessun concreto elemento è ricavabile
dalle dichiarazioni” di altri collaboratori di giustizia. Nonostante la
“provata appartenenza” a Cosa Nostra, quindi, i giudici hanno assolto
Tutino dall’accusa di strage con la formula “per non aver commesso il
fatto”.
Il pm della Dda di Milano Paolo Storari, che aveva chiesto
la condanna all’ergastolo, ha presentato lo scorso dicembre ricorso in
appello contro l'assoluzione.
Secondo il pm la strage di via
Palestro si inseriva “nella più ampia strategia stragista che andava da
Capaci, passando per via D’Amelio, via dei Georgofili, l’attentato a
Maurizio Costanzo e il fallito attentato allo stadio Olimpico”.
Il caos e la firma di Cosa nostra
Il sospetto che dietro a quelle stragi vi fosse la mano di Cosa nostra
emerse sin da subito e le indagini passarono in fretta dalla procura di
Milano a quella di Firenze in quanto l'esplosivo utilizzato
nell'attentato era lo stesso di quello utilizzato in via dei Georgofili.
Oggi quale fosse il clima che si respirava all'epoca lo sappiamo con
più certezza anche grazie alle deposizioni di tanti smemorati di Stato
al processo trattativa Stato-mafia. A cominciare dall'ex Capo dello
Stato, Giorgio Napolitano. Davanti alla Corte d'assise di Palermo ha
confermato che dopo le bombe del '93 ai livelli più alti delle
istituzioni di allora si ebbe immediatamente la consapevolezza di un
attacco diretto da parte della mafia. L'ex presidente parlò
esplicitamente “di un aut-aut nei confronti dello Stato da parte della
mafia corleonese per alleggerire la pressione detentiva o, in caso
contrario, proseguire nella strategia destabilizzante dello Stato”.
Parole che ben fanno comprendere il clima teso dell’epoca, nel quale si
sono consumate le stragi del ’92 e ‘93.
Anche l'ex Presidente del
Consiglio Carlo Azeglio Ciampi fornì importanti tasselli per fornire una
chiave di lettura. Ciampi, all'epoca, era particolarmente preoccupato
per lo strano black-out di Palazzo Chigi. Dopo la notte delle bombe,
annunciò di voler riformare i servizi segreti e il 2 agosto 1993,
partecipando a sorpresa alla commemorazione della strage di Bologna del
1980, intervenne dal palco: “È contro questa concreta prospettiva di uno
Stato rinnovato che si è scatenata una torbida alleanza di forze che
perseguono obiettivi congiunti di destabilizzazione politica e di
criminalità comune”. Anni dopo, ai pm di Palermo, ha aggiunto: “Ebbi
paura che fossimo a un passo da un colpo di Stato. Lo pensai allora, e
mi creda, lo penso ancora oggi”.
Ed ecco dunque le domande che scorrono. A cosa si riferiva Ciampi quando parlava di “torbida alleanza di forze”?
Nel corso del tempo sono state raccolte alcune certezze come la
relazione della Dia dell’agosto '93 in cui si forniva una lettura chiara
sulla natura delle stragi addirittura utilizzando il termine
“trattativa”. “La perdurante volontà del Governo di mantenere per i boss
un regime penitenziario di assoluta durezza ha concorso alla ripresa
della stagione degli attentati - scrive la Dia - Da ciò è derivata per i
capi l’esigenza di riaffermare il proprio ruolo e la propria capacità
di direzione anche attraverso la progettazione e l’esecuzione di
attentati in grado d’indurre le Istituzioni a una tacita trattativa”.
“Verosimilmente – continua la nota – la situazione di sofferenza in cui
versa Cosa Nostra e la sua disperata ricerca di una sorta di soluzione
politica potrebbe essersi andata a rinsaldare con interessi di altri
centri di potere, oggetto di analoga aggressione da parte delle
istituzioni, ed aver dato vita ad un pactum sceleris attraverso
l’elaborazione di un progetto che tende a intimidire e distogliere
l’attenzione dello Stato per assicurare forme d’impunità ovvero
innestarsi nel processo di rinnovamento politico e istituzionale in atto
nel nostro paese per condizionarlo”.
Gli investigatori della
Direzione antimafia avvertono anche i rischi che si sarebbero corsi
qualora vi fosse una revoca “anche solo parziale dei decreti che
dispongono l’applicazione dell’Art. 41 bis”. Questa infatti “potrebbe
rappresentare il primo concreto cedimento dello Stato, intimidito dalla
stagione delle bombe”. Il risultato? Nel novembre successivo, appena due
mesi dopo l’arrivo della al Ministero degli Interni, il Ministro della
Giustizia Giovanni Conso lascerà scadere il regime di 41 bis per 373
detenuti mafiosi.
Se su questi fatti si sta indagando e si sta
svolgendo un processo a Palermo vi sono anche elementi sulla strage che
andrebbero approfonditi.
san giovanni in laterano 610
La Basilica di San Giovanni in Laterano
Punto di domanda
Un primo interrogativo riguarda proprio la scelta dei luoghi da
colpire. Attentare al patrimonio artistico e culturale di un Paese, non
manifesta solo la volontà di metterlo all'angolo, ma quasi annientarlo.
“Ti immagini se l'Italia si sveglia e non trova più la Torre di Pisa?”,
avevano suggerito a Nino Gioè, nel tentare di convincere la mafia a
procedere con gli attentati per tutta la Nazione. A dargli l'idea,
forse, la Primula Nera, l'ex terrorista nero e legato ai servizi
segreti, Paolo Bellini. Il sospetto che dietro a quegli attentati non vi
fosse solo Cosa nostra è più che legittimo. Chi ha indicato alla mafia i
luighi da colpire? Sicuramente appare difficile pensare che i boss
palermitani siano stati grandi esperti d'arte da sapere che in via
Palestro vi fosse il PAC (Padiglione d’Arte Contemporanea) ed è un dato
di fatto che, sul piano artistico, di luoghi da colpire ve ne fossero di
più importanti. Del resto vi è persino il dubbio che sia stato
veramente questo l'obiettivo. Proprio Spatuzza ha dichiarato che “a
Milano sorsero problemi e l’obiettivo venne mancato di 150 metri”.
A
circa cento metri dal museo si sarebbe trovata una sede massonica: il
Centro Europeo di comunicazione, guidato dal Gran Maestro Giuliano Di
Bernardo. Poco distante, poi, vi era presumibilmente un ufficio dei
Servizi Segreti ed anche gli uffici di Marcello Dell'Utri, oggi imputato
al processo trattativa Stato-mafia e condannato per concorso esterno in
associazione mafiosa. Quella bomba esplosa in anticipo, che secondo i
pentiti non avrebbe dovuto fare vittime, doveva essere un messaggio per
queste organizzazioni o per lo stesso ex senatore?
Resta avvolto nel
mistero chi ha acceso la miccia o chi ha guidato l'auto fino al PAC.
Assolti entrambi i fratelli Tutino, vi sono dei testimoni che parlano di
una donna, bella, bionda e magra, probabilmente sotto i trent'anni
(identikit simile a quello fornito da altri testimoni sull’attentato di
via Fauro a Roma). Potrebbe essere stata lei a parcheggiare la Fiat Uno
per poi dileguarsi su un'altra autovettura con due uomini a bordo.
Quell'identikit però sparisce completamente dalle indagini e, di
cosneguenza, anche dalle sentenze. �Un altro nome che non finì mai nelle
inchieste è quello di Roberto Enea, capo di Cosa nostra a Milano. Vi
sarebbero delle riprese che lo ritraevano mentre si allontanava
frettolosamente da via Palestro proprio poco dopo l'esplosione. Se si
considerano le regole di Cosa nostra appare inverosimile che non fosse
stato informato sull'attentato che si doveva compiere. Ad oltre
vent'anni dalle stragi, dunque, restano gli interrogativi ed un'attesa
di verità e giustizia da parte dei familiari delle vittime. Un'attesa
che, si spera, non sia eterna.