La tragica vicenda del pensionato suicida di Civitavecchia e la
disperazione di centinaia di obbligazionisti delle quattro banche (Cassa
di Risparmio di Ferrara, Banca Etruria, Banca Marche e Cassa di
Risparmio di Chieti) che, a seguito del Decreto "Salva Banche " del
Governo Renzi, hanno visto azzerati i loro risparmi costituiti da
obbligazioni subordinate, hanno suscitato un forte dibattito politico ed
economico. In assenza di una analisi più approfondita tale dibattito
rischia di rimanere schiacciato nella cronaca mediatica e nella polemica
funzionale alla Lega di Salvini, che, non a caso, ha immediatamente
organizzato una manifestazione ad Arezzo, sede della Banca Etruria, a
difesa dei risparmiatori danneggiati.
Questa vicenda, a nostro
avviso, non parla solo di speculazione finanziaria o di comportamenti
perseguibili penalmente, ma soprattutto dei profondi cambiamenti che
interessano ed interesseranno il sistema bancario italiano ed europeo da
qui al 2019, data di nascita di quella Capital Market Union che è un
altro pilastro della integrazione valutaria, economica e finanziaria
dell'area Euro.
A maggio del 2015, nelle sue Considerazioni
finali il Governatore di Banca d'Italia elencava chiaramente i
cambiamenti epocali a cui sarebbe andato incontro il sistema bancario e
finanziario italiano: dall'accelerazione delle aggregazioni delle banche
popolari e di credito cooperativo, alla nascita di una o più bad bank
per la gestione dei crediti deteriorati o in sofferenza, stimati in
circa 350mld di euro; dalla velocizzazione delle procedure di recupero
dei crediti, alla nuova funzione finanziaria di Cassa Depositi e
Prestiti (che ricordiamo utilizza il risparmio postale) e infine al
meccanismo di risoluzione delle crisi bancarie, il cosiddetto Bail-in,
appunto. Tale istituto normativo, opposto al Bail-out, ossia al ricorso
di fondi pubblici per sanare le crisi delle banche e che ha visto negli
scorsi anni destinare alle banche europee in difficoltà circa 800mld di
euro, nasce sulla base di direttive comunitarie che sanciscono il
principio che ad una crisi di una banca devono esserne chiamati a
rispondere azionisti e obbligazionisti subordinati e non garantiti,
escludendo i depositi fino a 100mila euro.
Quello che si è
verificato in Italia in queste settimane, in cui gli obbligazionisti
delle quattro banche hanno perso i loro risparmi stimati in circa 800
milioni di euro, è quindi la prima applicazione pratica di una norma
europea che entrerà in vigore nel 2016 e che segue un percorso di
trasformazione che va avanti dagli anni 90, da quando cioè si è aperta
in Italia, parallelamente al processo di costruzione dell'UE, la
stagione delle privatizzazioni delle banche e la loro aggregazione in
pochi grandi gruppi, con la conseguente riallocazione del risparmio
privato e non solo (ad esempio quote di salario differito con la nascita
dei fondi pensione privati nel 1995 ad opera del governo Dini), a
sostegno dei mercati finanziari.
Il Governo Renzi, colpito nelle
regioni di storico consenso per il PD oltre che nella stessa compagine
governativa nella figura del ministro Boschi, sta rispondendo a questa
situazione da una parte aprendo una vertenza con l'UE per il rimborso di
una quota minima delle perdite dei risparmiatori, dall'altro provando a
scaricare la responsabilità su qualche funzionario truffatore di banca.
Sicuramente c'è da riconoscere che non hanno funzionato adeguatamente i
meccanismi di vigilanza degli organi di controllo sia esterni che
interni alle banche coinvolte, nonostante esistano le norme per
prevenire abusi in sede di collocamento di prodotti finanziari. Ma, come
denunciano da anni i sindacati dei bancari, nella pratica lavorativa
quotidiana sussistono pressioni commerciali inaudite, anche con
vessazioni, ricatti e violazioni degli istituti contrattuali. Tali
politiche commerciali impongono risultati immediati nella vendita di
prodotti finanziari, ad alto ritorno economico per il bilancio di una
banca, ma molto spesso complessi, rischiosi e collocati disattendendo
leggi e normative previste. I rapporti di classe sfavorevoli si
esplicitano anche in questo aspetto, ossia nella ricattabilità dei
lavoratori di banca in una fase di perdurante crisi economica che, nel
caso specifico, ha fatto sì che lavoratori e pensionati vedessero andare
in fumo i risparmi di una vita.
Ma un altro aspetto a cui sta
pensando il governo è velocizzare quanto ricordato dal Governatore
Ignazio Visco: ovvero il processo di riforma del settore per imporre una
aggregazione fortissima delle banche popolari e di credito cooperativo,
storicamente funzionali alla riallocazione di risorse finanziarie verso
le comunità territoriali e le imprese locali. Per Visco infatti "la
forma cooperativa ha limitato il vaglio da parte degli investitori e ha
ostacolato la capacità di accedere con tempestività al mercato dei
capitali, in alcuni momenti cruciale per far fronte a shock esterni. La
riforma faciliterà lo svolgimento efficiente dell'attività di
intermediazione creditizia in un mercato reso più competitivo
dall'Unione bancaria". Inoltre "vanno perseguite forme di integrazione
basate sull'appartenenza a gruppi bancari"[1]. In sintesi si apre una
riforma del settore bancario funzionale ad una ristrutturazione dei
poteri. Si chiude la fase del bancocentrismo per arrivare all'unione dei
mercati dei capitali, spostando quindi il baricentro della allocazione
dei capitali dalle banche a mercati finanziari sempre più integrati ed
evoluti.
Quanto sta accadendo sul piano bancario e finanziario è
strettamente collegato ai processi di trasformazione dell'accumulazione
capitalistica, che comporta la ristrutturazione del sistema di
produzione e circolazione delle merci. Il capitalismo attuale, nei Paesi
cosiddetti sviluppati, è sempre meno legato all'economia domestica dei
singoli Paesi e sempre di più all'economia globale. Di conseguenza, le
imprese si sono internazionalizzate, spostando il proprio baricentro dai
Paesi di origine al mercato mondiale. In concreto ciò significa che la
realizzazione del profitto avviene in misura maggiore grazie alla
esportazione di merci e agli investimenti di capitale all'estero. Tale
tendenza ha subito una accelerazione con la crisi scoppiata nel 2007 e
con le misure europee di austerity.
In presenza di una domanda
interna ormai strutturalmente debole, a causa di un mercato e di un Pil
domestici in stagnanti, le imprese che sopravvivono sono quelle
orientate all'export e che delocalizzano la produzione dove i costi sono
inferiori. In questo contesto rientrano anche le massicce campagne di
fusione e acquisizione di imprese all'estero, che permettono alle
imprese di collocarsi nei mercati più ricchi e soprattutto di realizzare
economie di scala maggiori, riducendo i costi fissi. La Fiat, che si è
trasformata in Fca dopo la fusione con Chrysler e che ha spostato la sua
sede legale e fiscale rispettivamente in Olanda e Gran Bretagna,
rappresenta un esempio emblematico di quanto questo processo sia in
stato avanzato anche in Italia. Ma è tutta la struttura industriale
italiana che si sta trasformando, comprese le medie imprese
manifatturiere, che ne rappresentano l'ossatura. Anche tali imprese, per
potersi adeguare al capitalismo globalizzato, devono aumentare le loro
dimensioni e investire all'estero. Tutto ciò richiede stabilità
finanziaria e disponibilità di capitali che possono essere reperiti sul
mercato finanziario nazionale e internazionale attraverso la quotazione
in borsa.
Lo Stato e segnatamente il governo Renzi stanno
operando per assecondare e facilitare l'internazionalizzazione delle
imprese mediante la modificazione della struttura finanziaria e quindi
bancaria del nostro Paese. In questo senso sono significative le parole
di Claudio Costamagna, presidente della Cassa depositi e prestiti che è
il maggiore investitore nazionale a controllo statale: "Ma quelle
aziende che hanno le capacità e soprattutto l'ambizione di voler
crescere hanno bisogno di capitale di equity e non di debito. Noi siamo
disponibili a mettere capitale azionario […] e poi a portarle più
velocemente possibile sul mercato. Non è possibile che nella Borsa
italiana l'80% sia in mano a servizi finanziari e utilities, l'industria
sia il 25% sulla capitalizzazione del mercato italiano e siamo il
secondo Paese manifatturiero dell'Europa"[2]. Ciò significa che le
imprese si devono fondare soprattutto sul capitale azionario proprio, di
equity, e non sul capitale preso a prestito cioè proveniente dalle
banche. A questo riguardo quali sono gli assi dell'intervento dello
Stato? Uno di essi è senza dubbio rappresentato dalla riforma della
borsa e del sistema bancario, a partire dalla trasformazione del credito
cooperativo tradizionale, le banche popolari, in Spa e dalla loro
aggregazione in pochi e più grandi gruppi. È tale trasformazione che ha
fatto venire a galla la situazione di difficoltà in cui versano alcune
di queste banche.
Tale situazione non è dovuta solamente alla
cattiva gestione o a comportamenti fraudolenti di singoli
amministratori, che pure ci sono e vanno sanzionati duramente, ma
soprattutto a fattori strutturali che vanno affrontati in modo diverso.
Tra questi fattori ci sono le modificazioni nella struttura del credito a
livello italiano ed europeo dovuta a precise scelte governative
nazionali e sovrannazionali. A questo proposito, pochi hanno ricordato
che la legge bancaria del 1936 risalente alla Grande Depressione,
imponeva la separazione tra banche retail e banche d'affari, impedendo
alle banche di riunire in sé l'attività di raccolta del risparmio al
dettaglio e il finanziamento alle imprese. Ebbene, tale legge è stata
abolita nel corso del processo di liberalizzazione dei mercati
finanziari partito negli anni 90, insieme alla privatizzazione del
sistema bancario italiano, un tempo in gran parte sotto il controllo
pubblico.
Le vicende legate allo scandalo Parmalat rimandano a
questa trasformazione, mentre quelle legate alle banche popolari ne sono
solo l'esempio più recente. Infatti, la Banca dell'Etruria e le altre
popolari sono di fatto collassate sotto il peso di una serie di
operazioni di prestito a imprese in fallimento, che hanno cercato di
compensare con l'emissione di obbligazioni ai piccoli clienti della
banca. Gli effetti negativi della abolizione della legislazione degli
anni Trenta sono stati accentuati dalla crisi scoppiata nel 2007.
Questa, da una parte, ha messo in difficoltà il tessuto economico –
composto specialmente da Pmi - cui facevano riferimento le banche
popolari e, dall'altra parte, ha generato, nel tentativo di tamponare la
crisi, l'immissione nel sistema bancario da parte della Bce di una
massa di liquidità che è andata a incentivare le attività speculative
delle banche in difficoltà, come è sempre il caso di Banca Etruria, che
si è riempita di titoli di stato nel tentativo di compensare i crediti
in sofferenza.
I governi e le istituzioni europee sono
consapevoli della massa di crediti inesigibili detenuti dal sistema
bancario, ed è per questo che stanno favorendo un processo di
eliminazione dei rami secchi. Il problema è che il costo di tale
razionalizzazione adesso si scarica sui lavoratori bancari e sui
lavoratori in generale nella veste di piccoli risparmiatori. Infatti, la
riforma si è accompagnata alla accettazione da parte dei governi
italiani delle normative europee che vietano qualsiasi intervento dello
Stato a sostegno dei correntisti e obbligazionisti. In particolare, il
governo Renzi, recependo le normative europee, ha introdotto una
normativa che scarica i costi di questa razionalizzazione del sistema
bancario su chi sottoscrive le obbligazioni e sui correntisti. Dunque,
la polemica di Renzi contro la Merkel sulla questione bancaria appare
del tutto strumentale nel tentativo di lavarsi le mani dalle proprie
responsabilità.
Comunque, il nodo attorno a cui ruota tutto il
processo di trasformazione della struttura finanziaria del nostro Paese è
la costruzione dell'unione finanziaria europea, ultimo tassello del
processo di integrazione economica europea. L'unione finanziaria e la
costruzione di un mercato unico europeo dei capitali mira allo
spostamento del risparmio dal debito pubblico, cioè dal finanziamento
allo Stato, attraverso l'acquisto di titoli del tesoro, ai mercati
finanziari cioè al finanziamento alle imprese cioè al capitale privato
attraverso l'acquisto di azioni e obbligazioni.
L'intima essenza
di questo processo è profondamente reazionaria e ha implicazioni
pesantemente negative. In primo luogo la volontà di drenare quote
maggiori di risparmio nazionale verso il capitale e verso i mercati
finanziari (attraverso fondi di investimento e operatori finanziari di
vario tipo) ha fortemente contribuito a far sì che le istituzioni
europee, dalla Commissione europea alla Bce, imponessero ai governi la
riduzione dei debiti pubblici e di conseguenza la pratica di politiche
di austerità e di draconiani tagli alla spesa sociale. In secondo luogo,
il processo di sviluppo dei mercati finanziari ha incentivato la
privatizzazione delle imprese pubbliche e la loro quotazione in borsa,
che ha determinato anche lo spostamento all'estero del controllo di
parte del patrimonio di imprese e infrastrutture con conseguenze pesanti
su occupazione e sviluppo economico. In terzo luogo, precedentemente il
risparmio dei lavoratori andando allo Stato non solo finanziava i
programmi sociali e gli investimenti produttivi che creavano
occupazione, ma fruttava anche interessi consistenti e sicuri ai piccoli
risparmiatori. Se molte famiglie di salariati sono riuscite ad
acquistare una abitazione e a garantirsi dei risparmi è stato anche
grazie agli interessi sul debito pubblico. Infatti, il debito pubblico
rappresentava uno dei collanti principali che tenevano insieme il blocco
sociale keynesiano, su cui si basava il patto sociale della Prima
repubblica, anche grazie alla remunerazione offerta dagli interessi sui
tutoli di stato.
Oggi, invece, l'investimento nei mercati
finanziari non solo comporta, rispetto al debito pubblico, interessi a
volte inferiori (come nel caso proprio delle obbligazioni subordinate di
Banca Etruria e di altre banche nel 2011) e rischi sempre maggiori,
come prova anche il dimezzamento dell'indice della borsa italiana dal
2001 ad oggi, ma soprattutto permette al capitale di legare
politicamente e ideologicamente ai propri interessi generali una parte
del lavoro salariato. In questo modo, il lavoratore viene contrapposto a
sé stesso. Infatti, i lavoratori salariati, sotto la veste di
risparmiatori, sono incentivati a condividere gli interessi del
capitale, andando contro i loro interessi più generali, allargando così
la base di consenso alle politiche di riduzione del debito pubblico e
alla eliminazione del finanziamento ai programmi sociali e agli
investimento pubblici.
Ciononostante, i mercati finanziari
rappresentano una base certo reale ma più debole di convergenza tra il
capitale e alcuni settori del lavoro salariato e del piccolo risparmio
rispetto a quella su cui si basava la Prima repubblica attraverso il
debito pubblico. Tale debolezza è dimostrata proprio dalla vicenda delle
Popolari ed è connaturata ai meccanismi comunque rischiosi del
risparmio gestito. Fra l'altro la natura delle obbligazioni di tipo
subordinato, a causa delle quali i clienti di Banca Etruria hanno perso i
loro risparmi, sono assimilabili più a capitale proprio azionario che a
veri e propri prestiti[3]. Ad ogni modo, la massa del risparmio gestito
a ottobre è arrivata alla cifra record di 1.816 miliardi di euro, che
proviene in parte dalla fuga dai titoli di Stato, il cui rendimento si è
abbassato grazie alle politiche europee, e che non è certo per intero
nelle mani di famiglie ricche e benestanti.
Una forza politica
che, sulla base della attuale conformazione del modo di produzione
capitalistico, voglia rappresentare il lavoro salariato e le classi
subalterne oltre a difendere salari, welfare e pensioni non può esimersi
dal confrontarsi con la difesa del risparmio popolare. Alla luce di
questa considerazione appare fondamentale non soltanto e non tanto la
denuncia morale e giudiziaria degli amministratori delle banche e le
carenze delle autorità di vigilanza, quanto piuttosto l'esercizio della
critica ai processi materiali che stanno dietro quanto accade, vale a
dire la critica al processo di riforma bancaria e di
internazionalizzazione dei mercati finanziari. Ciò ci rimanda, ancora
una volta, alla centralità della opposizione ai processi di integrazione
economica e valutaria europea, che rappresentano la leva principale
della riorganizzazione dell'accumulazione capitalistica a danno della
gran parte del lavoro salariato e dei settori intermedi della società.
In sintesi, la vicenda delle Popolari ci ripropone ancora una volta la
questione del recupero della sovranità democratica e popolare sui
meccanismi economici, che sono stati delegati dai singoli stati alle
autorità sovrannazionali europee e al mercato autoregolato e, di
conseguenza, la questione del necessario superamento della architettura
economico-finanziaria che è inerente alla valuta unica europea. Solo con
tale chiarezza di obiettivi è possibile porre le questioni che possono
consentire di affrontare la crisi strutturale dal punto di vista del
lavoro salariato e tra le quali vanno annoverate la ridefinizione di un
sistema bancario pubblico, l'abolizione della autonomia della Banca
centrale e quindi il recupero della possibilità di usare il debito
pubblico e l'emissione di moneta in funzione della ripresa degli
investimenti e dello sviluppo sociale delle classi subalterne e del
complesso del Paese