venerdì 8 gennaio 2016

Renzi il globalizzatore

L’altro giorno il caro Premier, all’esordio della Ferrari alla borsa di Milano, ha affermato fieramente che è ora che gli italiani scendano in pista, giacché “siamo i più bravi del mondo, e la globalizzazione è la nostra più grande alleata”. Una mezza verità, la sua, con la quale ha cercato di amalgamare la più grande delle menzogne. Vero infatti che le nostre produzioni non hanno rivali in nessun settore, dall’artigianato all’enogastronomia, dall’agricoltura alla cultura, e in molto, molto altro. D’altra parte però, è altrettanto vero che se questo ben di Dio non viene doverosamente protetto tramite barriere –non a caso ed anzi appunto- protezionistiche, allora è evidente che sarà il mercato a conquistare noi e non viceversa (cosa che oltretutto sta già accadendo con una certa sollecitudine).
Si tratta dello stesso mercato che negli ultimi anni ha fagocitato le nostre imprese d’eccellenza e non solo, proprio ed esattamente dell’industria, dell’agroalimentare, della moda…qualche esempio? In ordine sparso: Loro Piana, Frau, Bulgari, Fendi, Pucci, Gucci, Pernigotti, Gancia, Fiorucci; ed è meglio smetterla qui e non continuare, ché l’elenco è spaventosamente lungo. Perché la fola del mercato libero ha fatto il suo tempo, come quello della libera concorrenza, del “self-made man” e del pubblico benessere. A dettare le regole del gioco, a tenere in scacco i mercati globali e dunque intere nazioni e Stati, non sono che un ristretto manipolo di società ed imprese, spesso e volentieri banche (ma si era capito, no?).
La corta memoria mediatica infatti ha probabilmente già fatto dimenticare uno studio del 2011 di alcuni ricercatori svizzeri, i quali avendo preso in esame oltre 40.000 organizzazioni internazionali, hanno selezionato un gruppo di non più di 1300 che detengono il potere sull’80% del mercato mondiale (!). Tra queste un’ulteriore cerchia d’elitè, di quasi 150 società, che da sole fanno il bel e cattivo tempo per oltre il 40% del commercio dell’intero Pianeta. Nella top cinquanta organizzazioni arcinote come Barclays, JP Morgan, Merryll Lynch, Goldman Sachs, Morgan Stanley ed altre decine di nomi trai quali, come è ben visibile, per lo più istituti di credito e di investimento.
Come è noto “il più grande inganno del Diavolo è quello di aver convinto tutti di non esistere”, motivo per cui citare i “soliti noti” richiama inequivocabilmente diciture quali “complotto” e di fatto discredito su quelle che più che teorie sembrano essere legami evidenti. Pertanto si dirà che è quanto mai curioso che le più potenti società al mondo, con uno sproporzionato potere economico, siano capitanate da personaggi del calibro di uno spettro centenario come Rockefeller, e dei suoi compagni di merende Kissinger e Brzezinsky, allegri orchestratori di “prestigiosissimi” club come il Bilderberg. Per chi non avesse intuito sono gli stessi che spingono per accelerare il pericolosissimo TTIP, l’ormai famigerato trattato transatlantico, un gigante onnivoro pronto a divorarsi a quattro palmenti ciò che resta della nostra ormai petrosa Italia, Ferrari compresa (che guarda un po’ anche il caro Elkann ha una poltrona fissa al Bilderberg, come Agnelli prima di lui). Perché a pensar male si fa peccato, ma ci si azzecca.
Questa dunque la globalizzazione, la “grande alleata”. Allora Renzi qui le cose son due, o la tua “fine” strategia ti porta a selezionare “cobelligeranti” traditori e meschini, o volutamente vuoi dar in pasto i tuoi concittadini alla finanza internazionale. Ad ogni modo, par purtroppo che al peggio non debba esservi mai fine.

giovedì 7 gennaio 2016

Un’economia alternativa è possibile

Nell’ottica comune, si è oramai soliti guardare al panorama nazionale e internazionale come a un gigantesco “Dio Mercato” del lavoro, il quale si arroga il diritto di essere giudice dell’utilità o inutilità professionale, determinando un sempre maggiore spostamento degli individui per questioni lavorative, in nome di un’occupazione momentanea che non dà certezze, nel segno di un futuro che non possiede un volto.
Di fronte a un’inarrestabile crisi economica, tuttavia, non esistono solamente i fallimenti quotidiani di coloro che hanno vissuto nel rigido sistema economico occidentale, ma anche i trionfi o i piccoli traguardi di uomini e donne che generano micro-realtà, in cui sia possibile realizzare economie solidali, attraverso strumenti moderni e di facile accesso. Dinanzi a macro-comunità, le quali non tutelano l’individuo, bensì lo abbandonano a una continua emarginazione sociale e lavorativa, si viene probabilmente a ricostituire un concetto di micro-comunità, molto simile a quello pre-esistente delle ormai trascorse società rurali, dove si possa convivere senza gli affanni e gli abusi delle aziende “di sistema”. In Paesi quali Germania, Francia e Belgio, sono sorti numerosi eco-villaggi, i quali hanno sperimentato forme di economia e società eco-sostenibile, auto-sufficienti dal punto di vista energetico. Le abitazioni sono costruite con materiali resistenti, mentre l’energia elettrica è fornita in svariati modi, fra i quali l’utilizzo dei pannelli solari e la dinamo. Dal punto di vista dei viveri, l’agricoltura e l’allevamento vengono praticate con metodi biologici, oltre alle eventuali spese e acquisti (mezzi, cibo ecc..) al di fuori delle stesse comunità, ovviamente effettuati attraverso la moneta d’uso comune, oltre che al sistema interno di scambio, fondato sul baratto. Non si tratta, dunque, di un utopistico ritorno al passato o di impossibili progetti autarchici, bensì di nuove modalità socio-economiche che penetrano e interagiscono con il macro-sistema capitalistico, al fine di sottrarne il tessuto sociale più infelice e migliorare la qualità della vita collettiva. L’idea è che natura e alta tecnologia possano continuare a convivere senza problematicità, in un contesto alieno rispetto alle logiche del consumismo imperante, fondando l’esistenza sulle necessità primarie e il divertimento genuino. Anche in Italia, in numerose regioni, diverse comunità sono sorte per offrire un modello sociale differente. Pensiamo, ad esempio, agli eco villaggi toscani di Upacchi, Bagnaia e Noceto, o a Granara, Valpisa e Lumen in Emilia Romagna. Un importante esempio di economia solidale è rappresentato dalla comune pugliese di Urupia, la quale è divenuta un noto centro di produzioni agricole, fra le quali olio, pasta, vino, prodotti che vengono successivamente acquistati dai punti vendita equo-solidali presenti in tutto il territorio locale, contribuendo dunque alla proliferazione di prodotto anti-ogm in Italia, oltre che all’esistenza di una sorta di “mercato parallelo”.
Non esistono soltanto alternative radicali di società al sistema liberista, bensì anche semplici metodi per apportare benefici, soprattutto ai lavoratori maggiormente sfruttati, come lo sono i dipendenti del già citato settore agricolo. Soprattutto nel Meridione è ben nota l’esistenza di un fenomeno quali il caporalato, per cui i contadini/raccoglitori (in gran parte extra-comunitari) sono sottoposti a durissime condizioni di lavoro, (ambientali e psicologiche), oltre che a minacce e paghe mensili piuttosto misere ( si parla, nei casi peggiori, di una retribuzione intorno ai 300 euro), dal momento che il 50% del “salario” spetta al caporale. Per questa ragione, associazioni no-profit quali “Diritti a Sud”, in provincia di Lecce, sono state istituite con l’obiettivo di contrastare le pratiche di sfruttamento dei braccianti agricoli, attraverso la coltivazione di terreni in comodato d’uso. La retribuzione dei dipendenti e l’acquisto degli strumenti per l’aratura avviene grazie a un metodo virtuale innovativo e oramai utilizzato su scala globale: il crowd-funding. Esso è, in sintesi, un finanziamento collettivo nei confronti di un progetto presentato da un qualsiasi utente sul web. Esistono numerosi siti (kickstarter, ecc..) nei quali aprire un proprio progetto, esporlo dettagliatamente e nelle intenzioni al pubblico dei visitatori, per poi convincerli al finanziamento. Se la somma necessaria per l’attuazione dell’investimento viene raggiunta entro un prefissato limite di tempo, quest’ultima potrà essere riscossa dagli ideatori, altrimenti, nel caso contrario, le donazioni ritorneranno al creditore. Grazie a questo metodo, “Diritti a Sud” e altre associazioni simili quali “Netzanet” di Bari, sono state in grado di portare avanti la propria campagna denominata “Sfruttazero”, il cui intento è quello già evidenziato, ossia un lavoro più dignitoso e una più equa retribuzione.
Le esperienze descritte sono soltanto alcuni degli esempi di modelli di sviluppo che proseguono in una via opposta rispetto all’economia di mercato globalizzata e post-industriale. Si auspica, dunque, che queste piccole realtà e la filosofia solidale che le caratterizza, possano diffondersi a macchia d’olio, determinando una svolta culturale, sociale ed econ

mercoledì 6 gennaio 2016

Ferrari in Borsa. Una squallida sceneggiata con Renzi e Marchionne

Lingua in bocca fra Renzi Matteo e Sergio Marchionne. L’uno presidente del Consiglio, pro tempore, l’altro presidente della Ferrari e numero uno di Fca, leggi Fiat-Chrysler e con lui lo stato maggiore del Lingotto l’amministratore delegato Amedeo Felisa, Piero Ferrari, il figlio del fondatore Enzo, il presidente di Fca ed Exor, John Elkann. L’occasione della comparsata, o meglio sceneggiata, il via alla quotazione di Ferrari in Borsa dopo la separazione delle azioni del Cavallino da quelle Fca. Doveva essere una festa, un po’ di retorica non guasta, “piazza Affari si tinge di rosso”, cinguetta Repubblica, il rosso di Maranello, del cavallino rampante nel cuore di tutti noi. Ma festa non c’è stata: il titolo debutta a 43 euro per azione, ma la giornata è di quelle storte per tutti i mercati mondiali. Il titolo va sempre più giù. Alla fine viene sospeso.
Una “cerimonia” lingua in bocca, giovin signore di Rignano e paperone italo canadese
Direte che l’avvio del nostro articolo, quel lingua in bocca è piuttosto volgare. Ebbene sì, senza piuttosto, è volgare, se si considera volgare un bacio pieno di passione. Ma qui, con questa “cerimonia” siamo al di là della volgarità. Usare la parola “pacchiana” è un voler bene ai due, al giovin signore di Rignano al quale ogni volta che ha occasione di vedere o di parlare con paperon Marchionne brillano gli occhi, il maestro e Margherita, scusate il maestro e Matteo. All’altro la faccia prende un ghigno beffardo, se lo può permettere visto il “salario” che porta a casa, milioni e milioni di euro, si aggiusta il girocollo, jamais la giacca, un bohemienne, dolce vita e vai. Ci manca che i due si mettano a cantare, “che gelida manina” e siamo a posto. Non cantano ma cinguettano. Una sceneggiata che senza dubbio Gianni Agnelli, l’avvocato che avvocato non era, si sarebbe risparmiato, una esibizione al limite della volgarità.
Cinguetta Marchionne e ringrazia Renzi per la gioia degli “scriba” e del codazzo del premier: “Nonostante un’agenda fitta di impegni ha trovato il tempo di venire qui”, afferma il manager italo canadese, un attimo di sospensione, suspence: non poteva mancare il già concordato “un grazie anche per quello che sta facendo per il Paese”. Sospiro di sollievo del giovin di Rignano e, come è suo uso, farà sapere che fu proprio lui a suggerire la quotazione del cavallino rosso in Borsa. Marchionne dice che “l’unico vero obiettivo è riportare il titolo mondiale a Maranello”, non poteva mancare una nota patriottica ed eccola: “L’italianità è uno dei valori fondamentali di Ferrari”. Bene, viva il tricolore ma guarda caso la Fiat in Italia non c’è più. O meglio c’è il cuore ma la sede di Fca è in Olanda, portafoglio in Gran Bretagna, conto in banca a New York. Italianità va bene ma il primo obiettivo di Marchionne è offrire i ritorni agli azionisti.
Il premier: nel 2016 smettiamo di recuperare i ritardi, correremo più di tutti gli altri
Renzi Matteo non è da meno del suo maestro. Con il piglio delle grandi occasioni attacca a parlare: “Nel 2016 – cinguetta – smettiamo di recuperare i ritardi e cominciamo a correre più degli altri”. I dati Eurostat elaborati dal ministero dello Sviluppo economico che Renzi ben conosce dicono il contrario, ma lui ha fatto finta di niente, come se non conoscesse che siamo il fanalino di coda alla Ue. Neppure i giornaloni hanno potuto ignorare quanto affermato da Eurostat. Certo, per non creare dolori al premier hanno scritto che la “fiducia” degli italiani era tornata, sia quella delle famiglie che delle imprese. Qualcuno, un giorno, spiegherà come si forma questa fiducia, chi fa i sondaggi, quanti gli intervistati, quali le domande. Scusate l’inciso, la realtà è che per quanto riguarda gli investimenti ad esempio, malgrado la fiducia, nel terzo trimestre sono diminuiti dello 0,4. Per quanto riguarda l’occupazione il problema dei giovani, ferma al 15,1%, è sempre più drammatico.
Ma i dati Eurostat ci indicano come il fanalino di coda nella Unione europea
Siamo ultimi nella scala europea, dietro perfino al 17,7% della Spagna. Abbiamo recuperato solo lo 0,9% rispetto al peggior dato dalla crisi ma la Gran Bretagna sta al 4,2 e la Germania al 2,7. Per quanto riguarda gli investimenti rispetto ai minimi toccati nella fase recessiva il recupero è stato del 3%, la Francia l’8, la Germania il 27,8, la Gran Bretagna il 5,4, la Spagna il 7,5. Fa buon viso a cattiva sorte il Mise, ministero dello Sviluppo economico, leggi Padoan che non può smentire il premier il quale, dicono a Firenze quelli che lo hanno conosciuto da sindaco, “è un fumino”. Le fonti Mise commentano i dati facendo presente che sono “vecchi”, la solita, banale scusa non richiesta, quelli “più recenti ( elaborati da chi, dove, quando ndr) –dicono – mostrano che il recupero è finalmente scattato”. E Renzi questo recupero che vedono solo quelli del Mise e dei giornaloni che non possono contraddire il premier, pena una sceneggiata tipo quella fatta nel corso della conferenza di fine anno, se lo gioca alla grande.
Il premier: sono stato io a suggerire la quotazione in Borsa. Grazie per aver mantenuto la promessa
Intanto ringrazia Marchionne “per aver mantenuto la promessa strappata dal governo – riferiscono gli scriba – durante una visita allo stabilimento di Melfi: quotare la Ferrari anche a Milano”. Renzi non solo si prende la paternità della quotazione in Borsa di Ferrari, ma svela un segreto: nell’incontro a Melfi – dice – si era parlato anche di “sfruttare fino in fondo il Jobs Act, e le assunzioni di Fca lo testimoniano”, e di “non abbandonare l’Ilva e il suo acciaio”. Ed ecco la frase shock: “Vorrei che il 2016 fosse l’anno in cui smettiamo di recuperare i ritardi e cominciamo a correre più forte degli altri”. Poi fa gli auguri, “in bocca al lupo ad azionisti e ferraristi”.
Non poteva mancare l’elenco dei problemi in agenda nel 2015, in particolare l’articolo 18, una dolcezza per le orecchie di Marchionne e la legge elettorale. Sembra un prestigiatore, uno di quelli che fa sparire i conigli. “Quei problemi non ci sono più, sono stati affrontati. La politica deve fare molto anche nel 2016, ma con la consapevolezza che l’Italia c’è e non deve aver paura del mondo. Questo è il messaggio che ci deve dare la quotazione Ferrari”. Applausi, la sceneggiata finisce. Renzi e Marchionne, ma sono proprio loro o è Crozza in una delle sue più riuscite esibizioni? Propendiamo per quest’ultima ipotesi. Si salverebbe almeno la dignità di questo Paese. E non verrebbe umiliato il glorioso cavallino rampante.

martedì 5 gennaio 2016

Guerre e business: lo straordinario incremento delle esportazioni di armi Usa

Che l’industria degli armamenti Usa faccia la parte del leone nel mercato mondiale degli armamenti è risaputo, come pure lo è che la lobby delle armi a Stelle e Strisce faccia affari d’oro nei momenti di crisi e sia la prima beneficiaria delle “compensazioni” che l’Amministrazione Usa elargisce a chi vuole blandire, e sempre la prima destinataria delle colossali commesse con cui gli “alleati” “ringraziano” Washington delle sue “coperture”.
Adesso è uno studio dello stesso Congresso statunitense ad affermarlo: le esportazioni d’armi degli Usa sono aumentate del 35% (!) fra il 2013 e il 2014, giungendo a superare il 50% del mercato mondiale degli armamenti.
Secondo un rapporto dello Stockolm International Peace Research Institute (Sipri), sono tutte statunitensi le prime quattro aziende al mondo per vendita di armi, e lo sono sei fra le prime otto.
Di gran lunga più distanziata è la Russia, la seconda esportatrice, seguita dalla Svezia, dalla Francia e dalla Cina. Occorre notare, tuttavia, che nella classifica non sono ancora contabilizzati gli effetti dei colossali contratti siglati fra il 2014 e il 2015 con cui le petromonarchie del Golfo hanno da un canto “pagato” l’appoggio di Stati come la Francia o l’Egitto, dall’altro tentato di comprare il proprio predominio sulla regione. Contratti destinati a gonfiare i conti di molte società occidentali (e di molti uomini di Stato).
Lo studio del Congresso, come pure il rapporto del Sipri, hanno confermato come siano i Paesi in via di sviluppo, in larga parte privi di industrie di armamenti, ad alimentare nella stragrande parte le esportazioni di armi, a cui sacrificano decine e decine di miliardi dei loro assai spesso magri bilanci.

lunedì 4 gennaio 2016

COME IL CAPITALISMO AMERICANO È STATO COSTRUITO SULLA SCHIAVITÙ

E' l’anniversario dei 150 anni di abolizione della schiavitù in America e, contrariamente alla credenza popolare, la schiavitù non è un prodotto del capitalismo occidentale. È il capitalismo occidentale ad essere un prodotto della schiavitù.
L’espansione della schiavitù nei primi otto decenni dopo l’Indipendenza Americana ha guidato l’evoluzione e la modernizzazione degli Stati Uniti.
Lo storico Edward Baptist illustra come, nell’arco di tempo di una vita umana, il Sud crebbe da una stretta fascia costiera di piccole piantagioni di tabacco ad un impero continentale del cotone, e gli Stati Uniti divennero un’economia moderna, industriale e capitalista.
Attraverso la tortura e i maltrattamenti i proprietari degli schiavi ottennero la massima efficienza, che permise agli Stati Uniti di prendere il controllo del mercato mondiale del cotone, la materia prima fondamentale della Rivoluzione Industriale, e diventare così una nazione ricca e potente.
Il cotone era nel diciannovesimo secolo ciò che il petrolio è stato nel ventesimo secolo: il bene che determinava la ricchezza delle nazioni. Il cotone contava per un sorprendente 50 percento delle esportazioni statunitensi, e scatenò il boom economico che l’America conobbe allora. L’America deve alla schiavitù la sua stessa esistenza di paese appartenente al primo mondo.
In termini astratti, il capitalismo e la schiavitù sarebbero due sistemi fondamentalmente contrapposti. Uno è fondato sul lavoro libero, l’altro sul lavoro forzato. Però in pratica il capitalismo stesso non sarebbe stato possibile senza la schiavitù.
Negli Stati Uniti gli accademici hanno dimostrato che il profitto ottenuto dalla schiavitù non riguardava soltanto il Sud, che vendeva il cotone o la canna da zucchero raccolta dagli schiavi. La schiavitù è stato un elemento centrale anche per la creazione delle industrie che oggi dominano l’economia statunitense: il settore immobiliare, il settore delle assicurazioni e la finanza.
Wall Street è stata fondata sulla schiavitù. Furono schiavi africani a costruire perfino il muro fisico da cui Wall Street prende il nome, che costituiva il confine settentrionale della colonia olandese, costruito per respingere i nativi che rivolevano indietro le loro terre. Per formalizzare il colossale commercio di esseri umani, nel 1711 i funzionari di New York stabilirono a Wall Street il mercato degli schiavi.
Molte importanti banche americane, tra cui JP Morgan e Wachovia Corp costruirono delle fortune sulla schiavitù, e accettavano gli schiavi come “garanzia”. JP Morgan ha recentemente ammesso di avere “accettato circa 13.000 persone in schiavitù come collaterale sui prestiti, e di essersi impossessata di circa 1.250 schiavi“.
La storia che i libri di testo scolastici americani raccontano che la schiavitù era regionale, anziché nazionale, e dipingono la schiavitù come una brutale aberrazione rispetto alle regole di democrazia e libertà che l’America si è data. La schiavitù viene raccontata come una sfortunata deviazione dalla marcia del paese verso la modernità, non certo come il motore che ha guidato la prosperità economica dell’America. Nulla potrebbe essere più lontano dal vero.
Per apprezzare davvero l’importanza che la schiavitù ha avuto per il capitalismo americano, basta guardare la scabrosa storia di un’azienda che prima della Guerra Civile Americana confezionava abiti, chiamata Lehman Brothers. Warren Buffet è l’amministratore delegato di Berkshire Hathaway, nonché il miliardario più ricco d’America. L’azienda da cui Berkshire Hathaway è nata era una produttrice tessile dello Stato di Rhode Island, e approfittava della schiavitù.
Nel Nord, New England è stata la patria dell’industria tessile americana e la culla dell’abolizionismo, ma si è arricchita sulla schiena degli schiavi costretti a raccogliere il cotone nel Sud. Gli architetti della rivoluzione industriale di New England controllavano costantemente il prezzo del cotone, e i loro stabilimenti tessili si sarebbero fermati senza il lavoro degli schiavi nelle piantagioni.
Il libro “Complicità: Come il Nord ha promosso, prolungato e tratto profitto dalla schiavitù“, di Anne Farrow, illustra come la borghesia del Nord era collegata al sistema della schiavitù da milioni di fili: compravano la melassa, che era prodotta dal lavoro degli schiavi, e vendevano il rum nel Triangolo del Commercio; prestavano denaro alle piantagioni del Sud, e molto del cotone che veniva venduto alla Gran Bretagna era imbarcato nei porti di New England.
Nonostante sia stato poi dipinto come un eroe dei diritti civili, Abraham Lincoln non pensava affatto che i neri fossero uguali ai bianchi. Il piano di Lincoln era quello di rispedire i neri in Africa e, se non fosse stato assassinato, il rinvio dei neri in Africa sarebbe stato con ogni probabilità la sua politica dopo la Guerra Civile. Lincoln ammise persino che i proclami sull’emancipazione, secondo le sue stesse parole, erano solo “una misura pragmatica per la guerra” finalizzata a convincere la Gran Bretagna che il Nord era mosso “da qualcosa di più che dalla propria ambizione“.
Per i neri la fine della schiavitù, centocinquanta anni fa, è stato solo l’inizio di una ricerca ancora non conclusa di equità democratica ed economica.
Fino a prima della Seconda Guerra Mondiale, l’élite americana vedeva la civilizzazione capitalista come un progetto razziale e coloniale. Ad oggi, il capitalismo americano può essere visto solo come “capitalismo razziale”: l’eredità della schiavitù segnata dal concomitante emergere della supremazia e del capitalismo bianco nell’America moderna.
I neri in America vivono in un sistema di capitalismo razziale. Il capitalismo razziale esercita la sua autorità sulla minoranza nera attraverso l’oppressiva serie dei linciaggi da parte della polizia, incarcerazioni di massa e istituzionalizzazioni guidate dalla disuguaglianza economica e razziale. Il capitalismo razziale è senza dubbio uno dei moderni crimini contro l’umanità.
Vedere un afroamericano al vertice del potere in quella che è stata la terra della schiavitù sarebbe esaltante, se solo gli indicatori sulla disuguaglianza dei neri non si stessero impennando. Di fatto, durante l’amministrazione di Obama il divario tra la mediana della ricchezza delle famiglie nere e quella delle famiglie bianche è aumentato del 7 per cento. Il divario tra la disoccupazione dei neri e dei bianchi si è anch’esso ampliato durante l’amministrazione Obama, del 4 per cento.
La polizia nazionale storicamente ha agito per mettere in atto il capitalismo razziale. Le prime forze di polizia moderne in America furono le pattuglie per il controllo degli schiavi e le ronde notturne, che erano finalizzate a controllare gli afroamericani.
La letteratura storica esprime chiaramente che prima della Guerra Civile esisteva una forza di polizia legittimata che aveva il solo scopo di opprimere la popolazione schiavizzata e proteggere la proprietà e gli interessi dei padroni. Le lampanti somiglianze tra le ottocentesche pattuglie per il controllo degli schiavi e l’attuale brutalità della polizia americana contro la comunità nera sono troppo evidenti per essere ignorate.
Da quando le prime forze di polizia sono state stabilite in America, i linciaggi sono diventati il fulcro della legge e dell’ordine imposto dal capitalismo razziale. Nei giorni seguenti all’abolizione della schiavitù, si costituì la peggiore organizzazione terroristica della storia americana, con la benedizione del governo statunitense: il Klu Klux Klan.
La maggioranza degli americani crede che i linciaggi siano una forma antiquata di terrorismo razziale, che ha macchiato la società americana fino alla fine dell’era delle leggi di Jim Crow. Tuttavia la propensione dell’America verso il massacro sfrenato degli afroamericani è solo peggiorata nel tempo. Il Guardian ha recentemente riportato come gli storici ritengano che tra la fine del diciannovesimo secolo e l’inizio del ventesimo, in media venissero linciati due afroamericani ogni settimana.
Confrontate questo dato con la serie incompleta stilata dall’FBI, che mostra che l’omicidio di un nero da parte di un poliziotto americano avviene più di due volte a settimana, ed è chiaro che la brutalità della polizia verso le comunità afroamericane sta aumentando, non diminuendo.
I linciaggi non significano solo l’uccisione. Spesso includono l’umiliazione, la tortura, le ustioni, le mutilazioni e la castrazione. Il linciaggio era un classico rituale pubblico in America, che spesso avveniva davanti a una grande folla, che a volte contava migliaia di persone, tra cui bambini che giocavano.
Poco dopo l’abolizione della schiavitù, nel 1899, il settimanale Springfield Weekly ha descritto così un linciaggio condotto dal KKK: “al Negro sono state tolte le orecchie, le dita e i genitali. Supplicava pietosamente per la propria vita durante la mutilazione … Prima che il corpo fosse freddo, è stato tagliato in pezzi e le ossa frantumate in piccoli pezzettini … il cuore del Negro è stato tagliato a pezzi, e così il suo fegato … si vendevano i pezzetti di ossa a 25 cent …“.
Il terrorismo razziale è fondamentale per la perpetuazione del capitalismo razziale, ed è per questo che ancora oggi il governo americano rifiuta di riconoscere il KKK come un’organizzazione terroristica.
Terrorizzare le comunità afroamericane va a braccetto con l’imprigionamento e il confinamento sistematico dei neri. In gran parte con la scusa della guerra alla droga, gli Stati Uniti incarcerano più afroamericani oggi, in percentuale, che il Sud Africa al culmine dell’Apartheid.
Le prigioni private sono state progettate dai ricchi a vantaggio dei ricchi. Il sistema delle prigioni a scopo di lucro dipende dall’imprigionamento dei neri per sopravvivere. Un po’ come gli stessi Stati Uniti. Dopotutto, ci sono più neri in prigione, in libertà vigilata o condizionale, di quanti fossero in schiavitù nel 1850 o prima che iniziasse la Guerra Civile.
Il decollo economico dell’America nel diciannovesimo secolo non è avvenuto “nonostante” la schiavitù. È avvenuto in larga parte proprio grazie ad essa. Il capitalismo è stato creato con la schiavitù, e la schiavitù a sua volta ha creato una persistente eredità di capitalismo razziale che è ancora presente nell’America di oggi.
Storicamente c’è sempre stato un netto contrasto tra i nobili ideali americani da una parte e lo status di eterna inferiorità degli afroamericani dall’altra. Alla fine del diciannovesimo secolo, per ironia, è stata eretta una statua detta “della libertà” a osservare l’arrivo nel porto di New York di milioni di stranieri, mentre i contadini neri del Sud – non degli alieni, ma profondamente alienati – erano mantenuti in condizioni di schiavitù ai margini della società. È l’ipocrisia di un’ideologia razzista che ha messo apertamente in discussione la dignità della vita dei “negri”, e che è sopravvissuta alla sconfitta del nazismo. Ad oggi l’America non può dirsi una nazione “post-razziale”, e gli indicatori sull’uguaglianza razziale in America sono di nuovo ai minimi.
Il problema razziale in America è ancora un grande dilemma nazionale che continua minacciare l’esperimento democratico americano. Il malcontento nelle comunità afroamericane continuerà a crescere verso un pericoloso punto di ebollizione, a meno che la più grande eredità della schiavitù, cioè il capitalismo razziale, non sarà apertamente svelato e smantellato completamente.

domenica 3 gennaio 2016

Le vere cause della crisi delle banche popolari

La tragica vicenda del pensionato suicida di Civitavecchia e la disperazione di centinaia di obbligazionisti delle quattro banche (Cassa di Risparmio di Ferrara, Banca Etruria, Banca Marche e Cassa di Risparmio di Chieti) che, a seguito del Decreto "Salva Banche " del Governo Renzi, hanno visto azzerati i loro risparmi costituiti da obbligazioni subordinate, hanno suscitato un forte dibattito politico ed economico. In assenza di una analisi più approfondita tale dibattito rischia di rimanere schiacciato nella cronaca mediatica e nella polemica funzionale alla Lega di Salvini, che, non a caso, ha immediatamente organizzato una manifestazione ad Arezzo, sede della Banca Etruria, a difesa dei risparmiatori danneggiati.
Questa vicenda, a nostro avviso, non parla solo di speculazione finanziaria o di comportamenti perseguibili penalmente, ma soprattutto dei profondi cambiamenti che interessano ed interesseranno il sistema bancario italiano ed europeo da qui al 2019, data di nascita di quella Capital Market Union che è un altro pilastro della integrazione valutaria, economica e finanziaria dell'area Euro.
A maggio del 2015, nelle sue Considerazioni finali il Governatore di Banca d'Italia elencava chiaramente i cambiamenti epocali a cui sarebbe andato incontro il sistema bancario e finanziario italiano: dall'accelerazione delle aggregazioni delle banche popolari e di credito cooperativo, alla nascita di una o più bad bank per la gestione dei crediti deteriorati o in sofferenza, stimati in circa 350mld di euro; dalla velocizzazione delle procedure di recupero dei crediti, alla nuova funzione finanziaria di Cassa Depositi e Prestiti (che ricordiamo utilizza il risparmio postale) e infine al meccanismo di risoluzione delle crisi bancarie, il cosiddetto Bail-in, appunto. Tale istituto normativo, opposto al Bail-out, ossia al ricorso di fondi pubblici per sanare le crisi delle banche e che ha visto negli scorsi anni destinare alle banche europee in difficoltà circa 800mld di euro, nasce sulla base di direttive comunitarie che sanciscono il principio che ad una crisi di una banca devono esserne chiamati a rispondere azionisti e obbligazionisti subordinati e non garantiti, escludendo i depositi fino a 100mila euro.
Quello che si è verificato in Italia in queste settimane, in cui gli obbligazionisti delle quattro banche hanno perso i loro risparmi stimati in circa 800 milioni di euro, è quindi la prima applicazione pratica di una norma europea che entrerà in vigore nel 2016 e che segue un percorso di trasformazione che va avanti dagli anni 90, da quando cioè si è aperta in Italia, parallelamente al processo di costruzione dell'UE, la stagione delle privatizzazioni delle banche e la loro aggregazione in pochi grandi gruppi, con la conseguente riallocazione del risparmio privato e non solo (ad esempio quote di salario differito con la nascita dei fondi pensione privati nel 1995 ad opera del governo Dini), a sostegno dei mercati finanziari.
Il Governo Renzi, colpito nelle regioni di storico consenso per il PD oltre che nella stessa compagine governativa nella figura del ministro Boschi, sta rispondendo a questa situazione da una parte aprendo una vertenza con l'UE per il rimborso di una quota minima delle perdite dei risparmiatori, dall'altro provando a scaricare la responsabilità su qualche funzionario truffatore di banca. Sicuramente c'è da riconoscere che non hanno funzionato adeguatamente i meccanismi di vigilanza degli organi di controllo sia esterni che interni alle banche coinvolte, nonostante esistano le norme per prevenire abusi in sede di collocamento di prodotti finanziari. Ma, come denunciano da anni i sindacati dei bancari, nella pratica lavorativa quotidiana sussistono pressioni commerciali inaudite, anche con vessazioni, ricatti e violazioni degli istituti contrattuali. Tali politiche commerciali impongono risultati immediati nella vendita di prodotti finanziari, ad alto ritorno economico per il bilancio di una banca, ma molto spesso complessi, rischiosi e collocati disattendendo leggi e normative previste. I rapporti di classe sfavorevoli si esplicitano anche in questo aspetto, ossia nella ricattabilità dei lavoratori di banca in una fase di perdurante crisi economica che, nel caso specifico, ha fatto sì che lavoratori e pensionati vedessero andare in fumo i risparmi di una vita.
Ma un altro aspetto a cui sta pensando il governo è velocizzare quanto ricordato dal Governatore Ignazio Visco: ovvero il processo di riforma del settore per imporre una aggregazione fortissima delle banche popolari e di credito cooperativo, storicamente funzionali alla riallocazione di risorse finanziarie verso le comunità territoriali e le imprese locali. Per Visco infatti "la forma cooperativa ha limitato il vaglio da parte degli investitori e ha ostacolato la capacità di accedere con tempestività al mercato dei capitali, in alcuni momenti cruciale per far fronte a shock esterni. La riforma faciliterà lo svolgimento efficiente dell'attività di intermediazione creditizia in un mercato reso più competitivo dall'Unione bancaria". Inoltre "vanno perseguite forme di integrazione basate sull'appartenenza a gruppi bancari"[1]. In sintesi si apre una riforma del settore bancario funzionale ad una ristrutturazione dei poteri. Si chiude la fase del bancocentrismo per arrivare all'unione dei mercati dei capitali, spostando quindi il baricentro della allocazione dei capitali dalle banche a mercati finanziari sempre più integrati ed evoluti.
Quanto sta accadendo sul piano bancario e finanziario è strettamente collegato ai processi di trasformazione dell'accumulazione capitalistica, che comporta la ristrutturazione del sistema di produzione e circolazione delle merci. Il capitalismo attuale, nei Paesi cosiddetti sviluppati, è sempre meno legato all'economia domestica dei singoli Paesi e sempre di più all'economia globale. Di conseguenza, le imprese si sono internazionalizzate, spostando il proprio baricentro dai Paesi di origine al mercato mondiale. In concreto ciò significa che la realizzazione del profitto avviene in misura maggiore grazie alla esportazione di merci e agli investimenti di capitale all'estero. Tale tendenza ha subito una accelerazione con la crisi scoppiata nel 2007 e con le misure europee di austerity.
In presenza di una domanda interna ormai strutturalmente debole, a causa di un mercato e di un Pil domestici in stagnanti, le imprese che sopravvivono sono quelle orientate all'export e che delocalizzano la produzione dove i costi sono inferiori. In questo contesto rientrano anche le massicce campagne di fusione e acquisizione di imprese all'estero, che permettono alle imprese di collocarsi nei mercati più ricchi e soprattutto di realizzare economie di scala maggiori, riducendo i costi fissi. La Fiat, che si è trasformata in Fca dopo la fusione con Chrysler e che ha spostato la sua sede legale e fiscale rispettivamente in Olanda e Gran Bretagna, rappresenta un esempio emblematico di quanto questo processo sia in stato avanzato anche in Italia. Ma è tutta la struttura industriale italiana che si sta trasformando, comprese le medie imprese manifatturiere, che ne rappresentano l'ossatura. Anche tali imprese, per potersi adeguare al capitalismo globalizzato, devono aumentare le loro dimensioni e investire all'estero. Tutto ciò richiede stabilità finanziaria e disponibilità di capitali che possono essere reperiti sul mercato finanziario nazionale e internazionale attraverso la quotazione in borsa.
Lo Stato e segnatamente il governo Renzi stanno operando per assecondare e facilitare l'internazionalizzazione delle imprese mediante la modificazione della struttura finanziaria e quindi bancaria del nostro Paese. In questo senso sono significative le parole di Claudio Costamagna, presidente della Cassa depositi e prestiti che è il maggiore investitore nazionale a controllo statale: "Ma quelle aziende che hanno le capacità e soprattutto l'ambizione di voler crescere hanno bisogno di capitale di equity e non di debito. Noi siamo disponibili a mettere capitale azionario […] e poi a portarle più velocemente possibile sul mercato. Non è possibile che nella Borsa italiana l'80% sia in mano a servizi finanziari e utilities, l'industria sia il 25% sulla capitalizzazione del mercato italiano e siamo il secondo Paese manifatturiero dell'Europa"[2]. Ciò significa che le imprese si devono fondare soprattutto sul capitale azionario proprio, di equity, e non sul capitale preso a prestito cioè proveniente dalle banche. A questo riguardo quali sono gli assi dell'intervento dello Stato? Uno di essi è senza dubbio rappresentato dalla riforma della borsa e del sistema bancario, a partire dalla trasformazione del credito cooperativo tradizionale, le banche popolari, in Spa e dalla loro aggregazione in pochi e più grandi gruppi. È tale trasformazione che ha fatto venire a galla la situazione di difficoltà in cui versano alcune di queste banche.
Tale situazione non è dovuta solamente alla cattiva gestione o a comportamenti fraudolenti di singoli amministratori, che pure ci sono e vanno sanzionati duramente, ma soprattutto a fattori strutturali che vanno affrontati in modo diverso. Tra questi fattori ci sono le modificazioni nella struttura del credito a livello italiano ed europeo dovuta a precise scelte governative nazionali e sovrannazionali. A questo proposito, pochi hanno ricordato che la legge bancaria del 1936 risalente alla Grande Depressione, imponeva la separazione tra banche retail e banche d'affari, impedendo alle banche di riunire in sé l'attività di raccolta del risparmio al dettaglio e il finanziamento alle imprese. Ebbene, tale legge è stata abolita nel corso del processo di liberalizzazione dei mercati finanziari partito negli anni 90, insieme alla privatizzazione del sistema bancario italiano, un tempo in gran parte sotto il controllo pubblico.
Le vicende legate allo scandalo Parmalat rimandano a questa trasformazione, mentre quelle legate alle banche popolari ne sono solo l'esempio più recente. Infatti, la Banca dell'Etruria e le altre popolari sono di fatto collassate sotto il peso di una serie di operazioni di prestito a imprese in fallimento, che hanno cercato di compensare con l'emissione di obbligazioni ai piccoli clienti della banca. Gli effetti negativi della abolizione della legislazione degli anni Trenta sono stati accentuati dalla crisi scoppiata nel 2007. Questa, da una parte, ha messo in difficoltà il tessuto economico – composto specialmente da Pmi - cui facevano riferimento le banche popolari e, dall'altra parte, ha generato, nel tentativo di tamponare la crisi, l'immissione nel sistema bancario da parte della Bce di una massa di liquidità che è andata a incentivare le attività speculative delle banche in difficoltà, come è sempre il caso di Banca Etruria, che si è riempita di titoli di stato nel tentativo di compensare i crediti in sofferenza.
I governi e le istituzioni europee sono consapevoli della massa di crediti inesigibili detenuti dal sistema bancario, ed è per questo che stanno favorendo un processo di eliminazione dei rami secchi. Il problema è che il costo di tale razionalizzazione adesso si scarica sui lavoratori bancari e sui lavoratori in generale nella veste di piccoli risparmiatori. Infatti, la riforma si è accompagnata alla accettazione da parte dei governi italiani delle normative europee che vietano qualsiasi intervento dello Stato a sostegno dei correntisti e obbligazionisti. In particolare, il governo Renzi, recependo le normative europee, ha introdotto una normativa che scarica i costi di questa razionalizzazione del sistema bancario su chi sottoscrive le obbligazioni e sui correntisti. Dunque, la polemica di Renzi contro la Merkel sulla questione bancaria appare del tutto strumentale nel tentativo di lavarsi le mani dalle proprie responsabilità.
Comunque, il nodo attorno a cui ruota tutto il processo di trasformazione della struttura finanziaria del nostro Paese è la costruzione dell'unione finanziaria europea, ultimo tassello del processo di integrazione economica europea. L'unione finanziaria e la costruzione di un mercato unico europeo dei capitali mira allo spostamento del risparmio dal debito pubblico, cioè dal finanziamento allo Stato, attraverso l'acquisto di titoli del tesoro, ai mercati finanziari cioè al finanziamento alle imprese cioè al capitale privato attraverso l'acquisto di azioni e obbligazioni.
L'intima essenza di questo processo è profondamente reazionaria e ha implicazioni pesantemente negative. In primo luogo la volontà di drenare quote maggiori di risparmio nazionale verso il capitale e verso i mercati finanziari (attraverso fondi di investimento e operatori finanziari di vario tipo) ha fortemente contribuito a far sì che le istituzioni europee, dalla Commissione europea alla Bce, imponessero ai governi la riduzione dei debiti pubblici e di conseguenza la pratica di politiche di austerità e di draconiani tagli alla spesa sociale. In secondo luogo, il processo di sviluppo dei mercati finanziari ha incentivato la privatizzazione delle imprese pubbliche e la loro quotazione in borsa, che ha determinato anche lo spostamento all'estero del controllo di parte del patrimonio di imprese e infrastrutture con conseguenze pesanti su occupazione e sviluppo economico. In terzo luogo, precedentemente il risparmio dei lavoratori andando allo Stato non solo finanziava i programmi sociali e gli investimenti produttivi che creavano occupazione, ma fruttava anche interessi consistenti e sicuri ai piccoli risparmiatori. Se molte famiglie di salariati sono riuscite ad acquistare una abitazione e a garantirsi dei risparmi è stato anche grazie agli interessi sul debito pubblico. Infatti, il debito pubblico rappresentava uno dei collanti principali che tenevano insieme il blocco sociale keynesiano, su cui si basava il patto sociale della Prima repubblica, anche grazie alla remunerazione offerta dagli interessi sui tutoli di stato.
Oggi, invece, l'investimento nei mercati finanziari non solo comporta, rispetto al debito pubblico, interessi a volte inferiori (come nel caso proprio delle obbligazioni subordinate di Banca Etruria e di altre banche nel 2011) e rischi sempre maggiori, come prova anche il dimezzamento dell'indice della borsa italiana dal 2001 ad oggi, ma soprattutto permette al capitale di legare politicamente e ideologicamente ai propri interessi generali una parte del lavoro salariato. In questo modo, il lavoratore viene contrapposto a sé stesso. Infatti, i lavoratori salariati, sotto la veste di risparmiatori, sono incentivati a condividere gli interessi del capitale, andando contro i loro interessi più generali, allargando così la base di consenso alle politiche di riduzione del debito pubblico e alla eliminazione del finanziamento ai programmi sociali e agli investimento pubblici.
Ciononostante, i mercati finanziari rappresentano una base certo reale ma più debole di convergenza tra il capitale e alcuni settori del lavoro salariato e del piccolo risparmio rispetto a quella su cui si basava la Prima repubblica attraverso il debito pubblico. Tale debolezza è dimostrata proprio dalla vicenda delle Popolari ed è connaturata ai meccanismi comunque rischiosi del risparmio gestito. Fra l'altro la natura delle obbligazioni di tipo subordinato, a causa delle quali i clienti di Banca Etruria hanno perso i loro risparmi, sono assimilabili più a capitale proprio azionario che a veri e propri prestiti[3]. Ad ogni modo, la massa del risparmio gestito a ottobre è arrivata alla cifra record di 1.816 miliardi di euro, che proviene in parte dalla fuga dai titoli di Stato, il cui rendimento si è abbassato grazie alle politiche europee, e che non è certo per intero nelle mani di famiglie ricche e benestanti.
Una forza politica che, sulla base della attuale conformazione del modo di produzione capitalistico, voglia rappresentare il lavoro salariato e le classi subalterne oltre a difendere salari, welfare e pensioni non può esimersi dal confrontarsi con la difesa del risparmio popolare. Alla luce di questa considerazione appare fondamentale non soltanto e non tanto la denuncia morale e giudiziaria degli amministratori delle banche e le carenze delle autorità di vigilanza, quanto piuttosto l'esercizio della critica ai processi materiali che stanno dietro quanto accade, vale a dire la critica al processo di riforma bancaria e di internazionalizzazione dei mercati finanziari. Ciò ci rimanda, ancora una volta, alla centralità della opposizione ai processi di integrazione economica e valutaria europea, che rappresentano la leva principale della riorganizzazione dell'accumulazione capitalistica a danno della gran parte del lavoro salariato e dei settori intermedi della società. In sintesi, la vicenda delle Popolari ci ripropone ancora una volta la questione del recupero della sovranità democratica e popolare sui meccanismi economici, che sono stati delegati dai singoli stati alle autorità sovrannazionali europee e al mercato autoregolato e, di conseguenza, la questione del necessario superamento della architettura economico-finanziaria che è inerente alla valuta unica europea. Solo con tale chiarezza di obiettivi è possibile porre le questioni che possono consentire di affrontare la crisi strutturale dal punto di vista del lavoro salariato e tra le quali vanno annoverate la ridefinizione di un sistema bancario pubblico, l'abolizione della autonomia della Banca centrale e quindi il recupero della possibilità di usare il debito pubblico e l'emissione di moneta in funzione della ripresa degli investimenti e dello sviluppo sociale delle classi subalterne e del complesso del Paese

venerdì 1 gennaio 2016

Se gli amici di Daesh sono anche i “nostri” amici

“Questo mese stiamo lavorando in silenzio. Abbiamo già sventato un attacco dell’Isis contro l’Italia, ora speriamo di bloccare anche gli altri”. Proprio il giorno di Natale Anonymous affidava a Twitter la rivelazione di aver sventato un attacco terroristico nei confronti dell’Italia. A onor del vero non è chiara né la modalità dell’attacco presunto né quali fossero gli obiettivi. E’ palese, tuttavia, che sull’Italia continui ad aleggiare il rischio terrorismo.
Come se non bastasse, nei giorni successivi il 25 dicembre, i servizi segreti austriaci dichiaravano di aver ricevuto degli “avvisi” da intelligence amica nei quali si paventava il rischio che entro Capodanno ci sarebbero stati nuovi attacchi terroristici in luoghi affollati di capitali europee. Ai warnings dei servizi austriaci ha risposto direttamente la procura bosniaca, annunciando l’arresto di undici persone lo scorso 22 dicembre che “stavano organizzando un attentato dinamitardo in occasione delle feste di Capodanno che avrebbe potuto uccidere un centinaio di persone”.
Insomma, il cerchio del rischio terrorismo continua a stringersi intorno all’Italia, mentre tornano alla mente le parole di Matteo Renzi, qualche giorno dopo gli attacchi di Parigi al Bataclan, che affermava: “il terrorismo è un nemico molto pericoloso. Ma c’è bisogno di una reazione delle nostre comunità, fatte di valori e di bellezza”. Lungi dal discutere l’importanza dei valori e della bellezza resta da chiedersi se il fondamentalismo islamico di matrice wahhabita e il terrorismo ( suo strumento di azione politica) non si combattano anche contrastando le Potenze straniere, nostre presunte amiche, che sostengono economicamente e militarmente Daesh e Al Qaeda. Di tutto ciò si è ampliamente discusso nei talk show e sui giornali ma il Governo ha fatto orecchie da mercante.
Il viaggio a Riyad
E proprio lo scorso novembre Matteo Renzi si recava in Arabia Saudita, a Riyad, “per rendere più forte e vitale l’antica amicizia” dell’Italia con i sovrani di casa Sa’ud. E non bisogna dimenticare che tra Roma e Riyad intercorre un importante vincolo commerciale, secondo l’Huffington Post, di 9 miliardi di euro solo nel 2014. E l’Italia vende molto all’Arabia. Nel 2013 un consorzio di aziende italiane guidato dall’impresa Salini-Impregilo vinse un appalto per la costruzione della metropolitana “driveless” a Riyad, ma non solo. Roma rifornisce casa Sa’ud anche delle bombe con cui annientare un piccolo Paese, lo Yemen. E’ risaputo infatti che l’Arabia Saudita stia combattendo la minoranza sciita yemenita degli houti, vecchi amici di Riyad – secondo Limes- e oggi alleati di Teheran. Ora, è vero l’Arabia Saudita fa parte della così detta coalizione anti-Isis. Ma fino a che punto i sovrani sauditi vogliono contrastare il fondamentalismo in Siria ed Iraq? Inoltre, sempre secondo quando scrive Limes, sotto la spinta del nuovo monarca Salman sarebbe venuta meno, improvvisamente, l’antica frizione tra Daesh e al-Qaida. Perché? Non è dato saperlo. Ma le amicizie imbarazzanti del Governo Renzi non finiscono qui.
L’amicizia con Ankara
Sempre a fine novembre fu, questa volta, il Ministro della Difesa Pinotti a chiedere con forza, durante un’intervista a Sky Tg 24, l’ingresso della Turchia in Unione Europea. Proprio come sta facendo ultimamente la Germania. E in quella stessa occasione il Ministro della Difesa riteneva fondamentale che la bandiera dell’Ue sventolasse ad Ankara ma profondamente inappropriati bombardamenti italiani su Daesh. Probabilmente il Ministro scordava degli altalenanti rapporti tra Erdogan e i “ribelli” (quasi mai siriani) che vorrebbero destituire Assad a Damasco, sostenendo spesso e volentieri gruppi fondamentalisti presenti sul suolo siriano. Inoltre, secondo quanto affermato dal sito Infomercatiesteri.com, i rapporti commerciali tra l’Italia e la Turchia sarebbero addirittura eccellenti. Solo nel 2014 l’Italia ha esportato in Turchia beni per un valore di 12 miliardi di dollari, importando invece beni per circa 7 miliardi. Per non parlare della presenza delle circa 1200 imprese italiane sul suolo turco. Sarà mica che questo giro di soldi all’interno dei confini comunitari risulti più facile?