Dietro la sua aura di progressismo e modernità, Tito Boeri
nasconde il peggior disprezzo per gli strati sociali più poveri che ha
sempre animato la cultura della classe dirigente, quel razzismo
selettivo che può rivolgersi a diversi colori della pelle e provenienze
geografiche, purché di poveri si tratti.
Così, dopo aver celatamente rivendicato lo sfruttamento dei migranti africani quale strumento per rimpinguare le casse previdenziali, più recentemente Boeri rivolge la sua attenzione agli studenti terroni e alle loro famiglie. Dalle pagine di Repubblica, Boeri si lancia in un’ambiziosa proposta per “Un’altra scuola per il Sud”.
Il punto di partenza sono i risultati delle famigerate prove INVALSI, test sottoposti agli studenti dei vari ordini scolastici al fine di valutarne le cosiddette ‘competenze’ in Italiano, Matematica e Inglese. L’indagine INVALSI certifica che i punteggi del Sud e delle Isole, nel 2019, siano più bassi di circa il 15% di quelli del Nord. Tali verifiche finiscono per imputare agli studenti e ai docenti gli effetti che qualsiasi contesto socio-economico, in tutta la sua complessità, necessariamente produce sulla formazione delle persone che lo vivono, indipendentemente da meriti e colpe dei singoli.
Non siamo nuovi all’utilizzo delle prove INVALSI come una mannaia sulle sorti e sulle scelte delle classi subalterne e dell’istruzione, banco di prova delle politiche reazionarie: leggendo i risultati di quei test unicamente come il frutto degli sforzi individuali dei soggetti analizzati, e non anche come il precipitato dei contesti sociali in cui quei soggetti studiano e vivono, si giunge facilmente alla conclusione che le scuole meridionali siano meno efficienti di quelle settentrionali.
Nel certificare la distanza tra Nord e Sud, Boeri elenca una serie di ipotesi esplicative: “Qualcuno la attribuisce alla bassa spesa per l’istruzione, insegnanti pagati troppo poco” ma, sostiene l’economista, questo qualcuno sbaglierebbe. A parità di remunerazione, dice Boeri, gli insegnanti del Sud hanno uno stipendio, in termini di potere d’acquisto, ben più alto di quelli del Nord, e dunque si dovrebbe assistere ad un risultato capovolto se davvero gli stipendi degli insegnanti contassero qualcosa in questa storia.
Boeri introduce così nel discorso un suo cavallo di battaglia, le gabbie salariali: dal momento che vivono in regioni caratterizzate da prezzi più bassi, gli insegnanti meridionali dovrebbero essere pagati meno, in termini nominali, per avere il medesimo salario degli insegnanti del Nord in termini reali, cioè al netto delle differenze nei prezzi delle merci su cui quei salari sono spesi. Dimentica, Boeri, che gli insegnanti del Sud pagano già quella cronica carenza nei servizi pubblici essenziali, dalle infrastrutture alla sanità, che impoverisce i meridionali tutti, nonché una disoccupazione di massa che fa pesare spesso interi nuclei familiari su un singolo reddito da lavoro.
E così il primo tassello dei questa “altra scuola per il Sud” che sogna Boeri è la riduzione degli stipendi degli insegnanti meridionali.
Poi Boeri si chiede: sono forse i “divari socio-economici di partenza a spiegare questi enormi differenze negli esiti scolastici”? Meno che mai, è la sua risposta: a parità di situazione economica (cioè confrontando abitanti del Nord e del Sud che hanno il medesimo reddito) i risultati del Sud restano peggiori. Eppure questo risultato non ci stupisce affatto: il divario che si registra persino a parità di situazione economica non può che dipendere da variabili di contesto, che si riflettono negativamente anche sugli studenti di classe sociale più agiata.
Tali variabili di contesto riguardano proprio la maggiore arretratezza economico-sociale del Mezzogiorno, non certo le capacità individuali di chi ha compilato i test INVALSI. Se un contesto territoriale è più povero ed emarginato, anche lo studente proveniente da una famiglia benestante ne risentirà, sotto forma di un livello di insegnamento medio più basso, o di punti di partenza più arretrati nei processi di apprendimento sociali e collettivi, processi da cui tutti gli studenti di una comunità traggono le proprie conoscenze.
Ma Boeri non fa menzione di tutto ciò e, scartate queste due ipotesi, presenta finalmente la sua chiave interpretativa, l’asso nella manica, il frutto di anni e anni di studi di scienza economica: la colpa è delle famiglie. Le famiglie meridionali non darebbero un adeguato valore all’istruzione. La prova? Il divario tra gli studenti meridionali e quelli settentrionali aumenterebbe al crescere dei gradi di istruzione: così, secondo Boeri, quando cresce l’impegno a casa richiesto agli studenti (più si va avanti nel percorso scolastico, più aumenta l’importanza dello studio lontano dai banchi), gli studenti meridionali non verrebbero sufficientemente supportati dalle famiglie e dunque si paleserebbe un maggiore divario Nord-Sud.
Terroni cornuti e mazziati, insomma. Cornuti perché disoccupati, poveri e precari, mazziati perché ignoranti e poco attenti all’istruzione dei figli. Il livello dell’argomentazione, ammettiamolo, è talmente basso da richiedere uno sforzo sovrumano per rimanere nei ranghi di una critica puntuale.
Ma le mazzate di Boeri al Mezzogiorno non finiscono qui. Dopo aver proposto una riduzione degli stipendi degli insegnanti, e dopo aver detto che le famiglie meridionali non badano all’istruzione dei figli, rincara la dose suggerendo che le poche risorse disponibili siano sottratte alla stabilizzazione dei tanti precari della scuola e concentrate in premi per gli insegnanti le cui classi hanno ottenuto i migliori risultati INVALSI.
Una provocazione che non deve essere sottovalutata perché avrebbe un portato materiale consistente: favorire l’introduzione del cottimo – questo è il vero nome dei loro ‘meccanismi premiali’ – in settori dove una simile forma di sfruttamento del lavoro non sembrava neanche immaginabile. Col risultato, infine, di sottrarre ulteriori risorse alle scuole che hanno mostrato i peggiori risultati negli INVALSI: colpire chi rimane indietro, peggiorare la situazione di chi sta peggio.
Occorre sottolineare che nessun dato parla da sé, e Boeri ha semplicemente piegato i dati INVALSI alla sua proposta politica neoliberista, concepita per alimentare lo sfruttamento e le disuguaglianze. Difatti, è lo stesso rapporto INVALSI 2019 a sottolineare che “In tutte le materie testate dall’INVALSI e in tutti i gradi scolari, dalla scuola primaria alla scuola secondaria di secondo grado, è osservabile una correlazione positiva tra indice di status [socio-economico-culturale] e punteggio nelle prove”: migliore è il background sociale, migliori sono i risultati dei test. Inoltre, il retroterra economico-culturale incide anche sulla scelta del percorso scolastico: le famiglie con una situazione economica modesta orientano i figli verso gli istituti tecnico-professionali i quali, nelle prove, mostrano risultati sistematicamente peggiori dei licei.
I dati, insomma, ci restituiscono un Paese sì diviso a metà, ma in cui questa divisione non opera per caratteristiche geografiche, bensì di classe. Un quadro a tinte fosche da cui emergono tutti i tratti della scuola classista del secolo scorso che, forse ingenuamente, pensavamo di esserci lasciati alle spalle: una scuola funzionale a mantenere inalterate le divisioni di classe della società, in cui il figlio del ricco si candida a rimanere ricco e il figlio del povero è condannato a occupare, sempre e per sempre, la stessa casella sociale, la più bassa.
Se poi ci concentriamo sulle differenze territoriali, il rapporto SVIMEZ 2019 fotografa un continuo e drammatico aumento del flusso migratorio universitario dal Sud al Nord Italia che drena risorse al Sud sia direttamente, sia a causa del sistema di finanziamento universitario, che penalizza gli istituti meridionali. Gli atenei del Nord, infatti, attraggono più studenti e dunque più tasse universitarie perché inseriti in territori economicamente più prosperi, maggiormente prossimi ai luoghi dove il lavoro c’è, un enorme vantaggio competitivo rispetto agli atenei delle aree disagiate. Ma un vantaggio competitivo che nulla ha a che fare con la qualità di insegnamento e ricerca.
Paragonare, come fa Boeri, una scuola di via Monte Napoleone a Milano ad una scuola dello Zen di Palermo non solo non ha senso, ma risponde alla precisa volontà di perpetuare le disuguaglianze, scaricandone la colpa sugli stessi soggetti che quelle disuguaglianze tutti i giorni le subiscono. Benché sia travestita da analisi tecnica, quella di Boeri è un’operazione politica perfettamente coerente con la traiettoria imposta da oltre trent’anni al nostro Paese e al suo sistema formativo, una traiettoria fatta di tagli alla spesa pubblica e di smantellamento di quel presidio di democrazia e libertà che è la scuola pubblica.
Faceva scandalo “l’operaio che vuole il figlio dottore”, un tempo, quando si lottava sulle barricate per conquistare il diritto ad un’istruzione pubblica e di massa. Faceva scandalo e spaventava i padroni. Per questo, forse, Boeri prova a convincerci che quel ragazzo non diventerà mai dottore per colpa del padre operaio, della madre meridionale.
Così, dopo aver celatamente rivendicato lo sfruttamento dei migranti africani quale strumento per rimpinguare le casse previdenziali, più recentemente Boeri rivolge la sua attenzione agli studenti terroni e alle loro famiglie. Dalle pagine di Repubblica, Boeri si lancia in un’ambiziosa proposta per “Un’altra scuola per il Sud”.
Il punto di partenza sono i risultati delle famigerate prove INVALSI, test sottoposti agli studenti dei vari ordini scolastici al fine di valutarne le cosiddette ‘competenze’ in Italiano, Matematica e Inglese. L’indagine INVALSI certifica che i punteggi del Sud e delle Isole, nel 2019, siano più bassi di circa il 15% di quelli del Nord. Tali verifiche finiscono per imputare agli studenti e ai docenti gli effetti che qualsiasi contesto socio-economico, in tutta la sua complessità, necessariamente produce sulla formazione delle persone che lo vivono, indipendentemente da meriti e colpe dei singoli.
Non siamo nuovi all’utilizzo delle prove INVALSI come una mannaia sulle sorti e sulle scelte delle classi subalterne e dell’istruzione, banco di prova delle politiche reazionarie: leggendo i risultati di quei test unicamente come il frutto degli sforzi individuali dei soggetti analizzati, e non anche come il precipitato dei contesti sociali in cui quei soggetti studiano e vivono, si giunge facilmente alla conclusione che le scuole meridionali siano meno efficienti di quelle settentrionali.
Nel certificare la distanza tra Nord e Sud, Boeri elenca una serie di ipotesi esplicative: “Qualcuno la attribuisce alla bassa spesa per l’istruzione, insegnanti pagati troppo poco” ma, sostiene l’economista, questo qualcuno sbaglierebbe. A parità di remunerazione, dice Boeri, gli insegnanti del Sud hanno uno stipendio, in termini di potere d’acquisto, ben più alto di quelli del Nord, e dunque si dovrebbe assistere ad un risultato capovolto se davvero gli stipendi degli insegnanti contassero qualcosa in questa storia.
Boeri introduce così nel discorso un suo cavallo di battaglia, le gabbie salariali: dal momento che vivono in regioni caratterizzate da prezzi più bassi, gli insegnanti meridionali dovrebbero essere pagati meno, in termini nominali, per avere il medesimo salario degli insegnanti del Nord in termini reali, cioè al netto delle differenze nei prezzi delle merci su cui quei salari sono spesi. Dimentica, Boeri, che gli insegnanti del Sud pagano già quella cronica carenza nei servizi pubblici essenziali, dalle infrastrutture alla sanità, che impoverisce i meridionali tutti, nonché una disoccupazione di massa che fa pesare spesso interi nuclei familiari su un singolo reddito da lavoro.
E così il primo tassello dei questa “altra scuola per il Sud” che sogna Boeri è la riduzione degli stipendi degli insegnanti meridionali.
Poi Boeri si chiede: sono forse i “divari socio-economici di partenza a spiegare questi enormi differenze negli esiti scolastici”? Meno che mai, è la sua risposta: a parità di situazione economica (cioè confrontando abitanti del Nord e del Sud che hanno il medesimo reddito) i risultati del Sud restano peggiori. Eppure questo risultato non ci stupisce affatto: il divario che si registra persino a parità di situazione economica non può che dipendere da variabili di contesto, che si riflettono negativamente anche sugli studenti di classe sociale più agiata.
Tali variabili di contesto riguardano proprio la maggiore arretratezza economico-sociale del Mezzogiorno, non certo le capacità individuali di chi ha compilato i test INVALSI. Se un contesto territoriale è più povero ed emarginato, anche lo studente proveniente da una famiglia benestante ne risentirà, sotto forma di un livello di insegnamento medio più basso, o di punti di partenza più arretrati nei processi di apprendimento sociali e collettivi, processi da cui tutti gli studenti di una comunità traggono le proprie conoscenze.
Ma Boeri non fa menzione di tutto ciò e, scartate queste due ipotesi, presenta finalmente la sua chiave interpretativa, l’asso nella manica, il frutto di anni e anni di studi di scienza economica: la colpa è delle famiglie. Le famiglie meridionali non darebbero un adeguato valore all’istruzione. La prova? Il divario tra gli studenti meridionali e quelli settentrionali aumenterebbe al crescere dei gradi di istruzione: così, secondo Boeri, quando cresce l’impegno a casa richiesto agli studenti (più si va avanti nel percorso scolastico, più aumenta l’importanza dello studio lontano dai banchi), gli studenti meridionali non verrebbero sufficientemente supportati dalle famiglie e dunque si paleserebbe un maggiore divario Nord-Sud.
Terroni cornuti e mazziati, insomma. Cornuti perché disoccupati, poveri e precari, mazziati perché ignoranti e poco attenti all’istruzione dei figli. Il livello dell’argomentazione, ammettiamolo, è talmente basso da richiedere uno sforzo sovrumano per rimanere nei ranghi di una critica puntuale.
Ma le mazzate di Boeri al Mezzogiorno non finiscono qui. Dopo aver proposto una riduzione degli stipendi degli insegnanti, e dopo aver detto che le famiglie meridionali non badano all’istruzione dei figli, rincara la dose suggerendo che le poche risorse disponibili siano sottratte alla stabilizzazione dei tanti precari della scuola e concentrate in premi per gli insegnanti le cui classi hanno ottenuto i migliori risultati INVALSI.
Una provocazione che non deve essere sottovalutata perché avrebbe un portato materiale consistente: favorire l’introduzione del cottimo – questo è il vero nome dei loro ‘meccanismi premiali’ – in settori dove una simile forma di sfruttamento del lavoro non sembrava neanche immaginabile. Col risultato, infine, di sottrarre ulteriori risorse alle scuole che hanno mostrato i peggiori risultati negli INVALSI: colpire chi rimane indietro, peggiorare la situazione di chi sta peggio.
Occorre sottolineare che nessun dato parla da sé, e Boeri ha semplicemente piegato i dati INVALSI alla sua proposta politica neoliberista, concepita per alimentare lo sfruttamento e le disuguaglianze. Difatti, è lo stesso rapporto INVALSI 2019 a sottolineare che “In tutte le materie testate dall’INVALSI e in tutti i gradi scolari, dalla scuola primaria alla scuola secondaria di secondo grado, è osservabile una correlazione positiva tra indice di status [socio-economico-culturale] e punteggio nelle prove”: migliore è il background sociale, migliori sono i risultati dei test. Inoltre, il retroterra economico-culturale incide anche sulla scelta del percorso scolastico: le famiglie con una situazione economica modesta orientano i figli verso gli istituti tecnico-professionali i quali, nelle prove, mostrano risultati sistematicamente peggiori dei licei.
I dati, insomma, ci restituiscono un Paese sì diviso a metà, ma in cui questa divisione non opera per caratteristiche geografiche, bensì di classe. Un quadro a tinte fosche da cui emergono tutti i tratti della scuola classista del secolo scorso che, forse ingenuamente, pensavamo di esserci lasciati alle spalle: una scuola funzionale a mantenere inalterate le divisioni di classe della società, in cui il figlio del ricco si candida a rimanere ricco e il figlio del povero è condannato a occupare, sempre e per sempre, la stessa casella sociale, la più bassa.
Se poi ci concentriamo sulle differenze territoriali, il rapporto SVIMEZ 2019 fotografa un continuo e drammatico aumento del flusso migratorio universitario dal Sud al Nord Italia che drena risorse al Sud sia direttamente, sia a causa del sistema di finanziamento universitario, che penalizza gli istituti meridionali. Gli atenei del Nord, infatti, attraggono più studenti e dunque più tasse universitarie perché inseriti in territori economicamente più prosperi, maggiormente prossimi ai luoghi dove il lavoro c’è, un enorme vantaggio competitivo rispetto agli atenei delle aree disagiate. Ma un vantaggio competitivo che nulla ha a che fare con la qualità di insegnamento e ricerca.
Paragonare, come fa Boeri, una scuola di via Monte Napoleone a Milano ad una scuola dello Zen di Palermo non solo non ha senso, ma risponde alla precisa volontà di perpetuare le disuguaglianze, scaricandone la colpa sugli stessi soggetti che quelle disuguaglianze tutti i giorni le subiscono. Benché sia travestita da analisi tecnica, quella di Boeri è un’operazione politica perfettamente coerente con la traiettoria imposta da oltre trent’anni al nostro Paese e al suo sistema formativo, una traiettoria fatta di tagli alla spesa pubblica e di smantellamento di quel presidio di democrazia e libertà che è la scuola pubblica.
Faceva scandalo “l’operaio che vuole il figlio dottore”, un tempo, quando si lottava sulle barricate per conquistare il diritto ad un’istruzione pubblica e di massa. Faceva scandalo e spaventava i padroni. Per questo, forse, Boeri prova a convincerci che quel ragazzo non diventerà mai dottore per colpa del padre operaio, della madre meridionale.
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