Silenzi” e “depistaggi di Stato” sono stati al centro del dibattito
nelle commemorazioni della strage di via d’Amelio, che quest’anno ha
compiuto un quarto di secolo. Venticinque anni dopo il delitto in cui
persero la vita Paolo Borsellino ed i cinque agenti di scorta (Agostino
Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Eddie Walter Cosina e Claudio
Traina) lo scorso 20 aprile, la Corte d’Assise di Caltanissetta, al
processo Borsellino quater, oltre ad aver condannato all'ergastolo i
boss Salvo Madonia e Vittorio Tutino (imputati della strage) ha sancito
per la prima volta l’esistenza di un depistaggio nella strage di via
d’Amelio, condannando a 10 anni i "falsi pentiti" Francesco Andriotta e
Calogero Pulci, accusati di calunnia. Con il dispositivo ha anche
dichiarato il “non doversi procedere per pervenuta prescrizione in
ordine al reato di calunnia pluriaggravata” nei confronti di Vincenzo
Scarantino, il “picciotto della Guadagna” le cui dichiarazioni sono
state sconfessate da quelle di Gaspare Spatuzza in tempi successivi.
Scarantino, dicono i giudici, avrebbe quindi effettuato la calunnia solo
perché "determinato a commettere il reato" dagli apparati di Polizia,
che l’hanno “imboccato”, inducendolo a raccontare false verità. Inoltre
la Corte ha disposto la trasmissione ai pm dei verbali d’udienza
dibattimentale “per eventuali determinazioni di sua competenza”.
Sicuramente un atto di giustizia nei confronti dei familiari delle vittime, che da anni aspettano ancora di sapere la verità su quanto avvenuto, e nei confronti di chi è stato condannato ingiustamente per il delitto. Le riflessioni sul depistaggio (da chi è stato ordito? chi l’ha permesso? perché?), però, non devono distogliere l’attenzione sul quesito madre: chi sono i mandanti esterni della strage Borsellino?
Rispondere a questa domanda, forse, può anche aiutare a far capire i motivi che si nascondono dietro al depistaggio stesso.
I mandanti esterni che ci sono
Della presenza di mandanti esterni dietro le stragi ha parlato più volte il Procuratore generale di Palermo Roberto Scarpinato e nei giorni scorsi gli stessi pm nisseni, ascoltati in Commissione antimafia, hanno affrontato l’argomento. Nella Procura nissena, tra i primi magistrati ad indagare sui mandanti esterni a Cosa nostra nelle stragi sono stati Luca Tescaroli e Nino Di Matteo, con quest’ultimo che è recentemente tornato chiedere la riapertura del fascicolo. Di Matteo, oggi pm del processo trattativa Stato-mafia, ha seguito parte del “Borsellino bis” (anche se quell’indagine lo ha visto tra i protagonisti solo a partire dall'ottobre-novembre del 1994) ed ha istruito interamente, insieme al pm Anna Maria Palma, il Borsellino ter che, diversamente dai primi due processi sulla strage di via d’Amelio, non è stato messo in discussione. Proprio in questo dibattimento emersero diversi elementi sui coinvolgimenti esterni alla mafia per le stragi. Un processo che ha portato alla definitiva condanna di boss del calibro di Giuseppe Calò, Raffaele Ganci, Michelangelo La Barbera, Cristoforo Cannella, Filippo Graviano, Domenico Ganci, Salvatore Biondo (classe '55) e Salvatore Biondo (classe '56). Nella sentenza di primo grado la corte scriveva: “Risulta quanto meno provato che la morte di Paolo Borsellino non era stata voluta solo per finalità di vendetta e di cautela preventiva, bensì anche per esercitare” una “forte pressione sulla compagine governativa che aveva attuato una linea politica di contrasto alla mafia più intensa che in passato ed indurre coloro che si fossero mostrati disponibili tra i possibili referenti a farsi avanti per trattare un mutamento di quella linea politica”. Ricostruzioni basate sui pentiti Pulvirenti, Malvagna, Avola e, non da ultimo, Cancemi, il quale, si legge nella sentenza di primo grado, ha dichiarato come “Riina era solito ripetere che con quelle azioni criminose avrebbero messo in ginocchio lo Stato e mostrato la loro maggiore forza. E proprio per agevolare la creazione di nuovi contatti politici occorreva eliminare chi come Borsellino avrebbe scoraggiato qualsiasi tentativo di approccio con Cosa nostra e di arretramento nell’attività di contrasto alla mafia”. Cancemi disse anche che Riina era stato “accompagnato per la manina” nell’organizzazione di quelle stragi.
Ciò che viene accertato anche nelle sentenze definitive è che c’è stata un’accelerazione anomala dell’esecuzione della strage di via d’Amelio
Sicuramente un atto di giustizia nei confronti dei familiari delle vittime, che da anni aspettano ancora di sapere la verità su quanto avvenuto, e nei confronti di chi è stato condannato ingiustamente per il delitto. Le riflessioni sul depistaggio (da chi è stato ordito? chi l’ha permesso? perché?), però, non devono distogliere l’attenzione sul quesito madre: chi sono i mandanti esterni della strage Borsellino?
Rispondere a questa domanda, forse, può anche aiutare a far capire i motivi che si nascondono dietro al depistaggio stesso.
I mandanti esterni che ci sono
Della presenza di mandanti esterni dietro le stragi ha parlato più volte il Procuratore generale di Palermo Roberto Scarpinato e nei giorni scorsi gli stessi pm nisseni, ascoltati in Commissione antimafia, hanno affrontato l’argomento. Nella Procura nissena, tra i primi magistrati ad indagare sui mandanti esterni a Cosa nostra nelle stragi sono stati Luca Tescaroli e Nino Di Matteo, con quest’ultimo che è recentemente tornato chiedere la riapertura del fascicolo. Di Matteo, oggi pm del processo trattativa Stato-mafia, ha seguito parte del “Borsellino bis” (anche se quell’indagine lo ha visto tra i protagonisti solo a partire dall'ottobre-novembre del 1994) ed ha istruito interamente, insieme al pm Anna Maria Palma, il Borsellino ter che, diversamente dai primi due processi sulla strage di via d’Amelio, non è stato messo in discussione. Proprio in questo dibattimento emersero diversi elementi sui coinvolgimenti esterni alla mafia per le stragi. Un processo che ha portato alla definitiva condanna di boss del calibro di Giuseppe Calò, Raffaele Ganci, Michelangelo La Barbera, Cristoforo Cannella, Filippo Graviano, Domenico Ganci, Salvatore Biondo (classe '55) e Salvatore Biondo (classe '56). Nella sentenza di primo grado la corte scriveva: “Risulta quanto meno provato che la morte di Paolo Borsellino non era stata voluta solo per finalità di vendetta e di cautela preventiva, bensì anche per esercitare” una “forte pressione sulla compagine governativa che aveva attuato una linea politica di contrasto alla mafia più intensa che in passato ed indurre coloro che si fossero mostrati disponibili tra i possibili referenti a farsi avanti per trattare un mutamento di quella linea politica”. Ricostruzioni basate sui pentiti Pulvirenti, Malvagna, Avola e, non da ultimo, Cancemi, il quale, si legge nella sentenza di primo grado, ha dichiarato come “Riina era solito ripetere che con quelle azioni criminose avrebbero messo in ginocchio lo Stato e mostrato la loro maggiore forza. E proprio per agevolare la creazione di nuovi contatti politici occorreva eliminare chi come Borsellino avrebbe scoraggiato qualsiasi tentativo di approccio con Cosa nostra e di arretramento nell’attività di contrasto alla mafia”. Cancemi disse anche che Riina era stato “accompagnato per la manina” nell’organizzazione di quelle stragi.
Ciò che viene accertato anche nelle sentenze definitive è che c’è stata un’accelerazione anomala dell’esecuzione della strage di via d’Amelio
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