Una pista non ancora esplorata sulla strage di Capaci è quella che
porta ai legami tra gli omicidi eccellenti di Cosa Nostra e la Gladio,
la struttura paramilitare segreta creata per contrastare l’avanzata
delle sinistre in Italia. Giovanni Falcone avrebbe voluto indagare su
questo fronte prima di lasciare la Procura di Palermo per assumere
l’incarico di direttore generale degli Affari penali del ministero di
Grazia e Giustizia, ma gli fu impedito. Ne accenna in questo
articolo-intervista il procuratore generale di Caltanissetta, Roberto
Scarpinato, che è stato uno dei più stretti collaboratori del giudice
assassinato il 23 maggio di vent’anni fa.
Palermo, 23 maggio 2012
I primi a registrare l’esplosione sono i sismografi dell’istituto di geofisica di Monte Cammarata, nell’Agrigentino. Siamo nel 1992. Nel pomeriggio del 23 maggio Giovanni Falcone e la moglie, Francesca Morvillo, dopo essere atterrati a Punta Raisi, sono saliti su un’auto blindata e stanno viaggiando in autostrada verso Palermo, scortati da due macchine della polizia. Alle 17,56 e 48 secondi, quando il piccolo convoglio è in prossimità di Capaci, le apparecchiature di Monte Cammarata segnalano una scossa. In realtà è una deflagrazione terrificante. Cinquecento chili di esplosivo infilato in un cunicolo sotto l’asfalto hanno fatto una strage: hanno aperto un cratere profondo tre metri e mezzo, facendo schizzare le auto come birilli. Solo da una sono usciti illesi tre uomini. S’è anche salvato l’autista di Falcone. Ma per gli altri non c’è stato niente da fare. Con il giudice e la sua consorte sono morti gli agenti Rocco Dicillo, Antonio Montinaro e Vito Schifani. Nove i feriti, di cui cinque cittadini comuni. Per avere ideato l’eccidio saranno riconosciuti colpevoli dalla Corte d’Assise di Caltanissetta Totò Riina e Bernardo Provenzano, i capi corleonesi della mafia. E con sentenza d’appello, nell’aprile 2000, fioccheranno gli ergastoli contro gli esecutori materiali della strage. Ma chi erano i mandanti a volto coperto di Capaci? «È solo mafia questa? Non ha anche il marchio atroce e inumano del terrorismo? Chi ci può essere dietro questo atto di guerra?», dirà a Montecitorio il presidente della Camera, Oscar Luigi Scalfaro, che il 25 maggio 1992 sarà eletto capo dello Stato sbarrando la strada al principale aspirante al Quirinale, Giulio Andreotti.
L’ipotesi che i mandanti fossero esterni a Cosa nostra, ancorché priva di riscontri processuali, continua ad essere oggetto di accertamenti dopo le rivelazioni degli ultimi collaboratori di giustizia. Spiega il Procuratore generale di Caltanissetta, Roberto Scarpinato, che lavorò con Falcone alla Procura di Palermo fino a che questi non si trasferì a Roma come direttore degli Affari penali del ministero della Giustizia: «I fatti sono più complessi e rientrano in quello che Falcone chiamava “il gioco grande”, espressione con la quale alludeva al gioco grande del potere di cui il sistema mafioso è stato coprotagonista fin dall’unità d’Italia. L’idea che da una parte vi siano i buoni, i rappresentanti dell’antimafia, e dall’altra i soliti noti, brutti e cattivi, cioè i Riina e i Provenzano, è una semplificazione nella quale chi, come me, ha vissuto quelle vicende non si riconosce. La storia di Giovanni Falcone, di Paolo Borsellino e di coloro che li hanno preceduti è uno spinoso affare di famiglia interno alla classe dirigente». Una storia che ha alle spalle una scia di sangue e che comincia nei primi anni 80 con gli omicidi del procuratore capo di Palermo Gaetano Costa e del consigliere istruttore Rocco Chinnici. Sono entrambi delle avanguardie che fanno da rompighiaccio all’interno di un palazzo di giustizia dove opera una magistratura ripiegata su una tranquilla routine burocratica e talora in consonanza culturale con la mafia. Chinnici racconta nei suoi diari delle pressioni subite, dentro e fuori del palazzo di giustizia, per fare in modo che Falcone, che lavorava con lui all’ufficio istruzione, fosse distolto dalle indagini sui colletti bianchi. Collaboratori come Giovanni Brusca, il quale azionò il radiocomando che fece esplodere il tritolo di Capaci, «hanno raccontato che l’ordine di uccidere Chinnici era venuto dal mondo superiore dei colletti bianchi e cioè dai cugini Salvo», aggiunge Scarpinato.
È su questa scia di sangue che Falcone e Borsellino proseguono le loro inchieste dopo gli omicidi Costa e Chinnici. Continua Scarpinato: «Essi si insinuano in una storia difficile, in cui alcuni cadono perché hanno osato alzare il livello delle indagini. Se espungiamo questa parte del racconto, restano sul campo solo i Riina e i Provenzano». Falcone e Borsellino riscuotono consenso fintantoché nel mirino del pool c’è solo la mafia militare, che con il maxiprocesso subisce condanne esemplari. Il loro isolamento scatta quando cominciano a indagare sui piani alti del potere. Con l’arresto dell’ex sindaco di Palermo Vito Ciancimino, il 3 novembre 1984, e con quelli di Antonino e Ignazio Salvo, imprenditori legati alla Dc, detentori del monopolio delle esattorie, «quel consenso – dice ancora Scarpinato – viene progressivamente ritirato e comincia una campagna mediatica di delegittimazione tendente a rappresentare Falcone e Borsellino come soggetti nei quali non ci si poteva identificare o perché pedine del Partito Comunista o perché ammalati di protagonismo. Ci sono i diari ai quali Falcone affidò tutta la sua amarezza per essere stato emarginato all’interno della Procura e c’è l’agenda rossa, mai ritrovata dopo la strage di Via D’Amelio, in cui Borsellino annotava l’indicibile».
Falcone non doveva occuparsi d’altro che di mafia militare e lasciar perdere le indagini sui colletti bianchi: questo era il messaggio che veniva dall’alto. E quando cercò di capire le eventuali connessioni tra gli omicidi eccellenti e la Gladio (la struttura paramilitare segreta, creata per contrastare l’avanzata della sinistra) gli fu impedito di farlo. Nella sua agenda elettronica c’è un appunto su una richiesta di incontro ai magistrati romani che seguivano quella pista. Prosegue Scarpinato: «Falcone aveva preso degli appuntamenti in seguito a un esposto della parte civile del processo La Torre (il segretario regionale del Pci assassinato da Cosa nostra, ndr) da cui emergevano possibili collegamenti tra Gladio e questo omicidio. Ma l’allora procuratore capo di Palermo, Pietro Giammanco, li disdisse».
Subisce la stessa emarginazione Borsellino. Commenta Scarpinato: «Ricordo che gli era stato inibito di occuparsi di certi processi e ricordo il braccio di ferro in Procura per impedirgli di parlare con Gaspare Mutolo dopo la morte di Falcone. Quando gli viene data la possibilità di ascoltarlo, Mutolo gli anticipa che intende parlare di Bruno Contrada. Ma da lì a poco Borsellino viene eliminato».
Diversi fatti avvalorano la tesi dei mandanti occulti dietro Capaci e Via D’Amelio. Due giorni prima del 23 maggio una piccola agenzia di stampa vicina ai servizi (Repubblica) dà l’annuncio di un grande “botto”. Poco prima dell’omicidio Lima, il neofascista Elio Ciolini, coinvolto nelle indagini sulla strage di Bologna, parla dell’inizio di una stagione stragista. E non meno inquietante è il suicidio in carcere per impiccagione di Antonino Gioè, che contribuì a collocare l’esplosivo nel cunicolo sotto l’autostrada. Come riferirono alcuni collaboratori, Gioè annunciò che dopo Capaci sarebbero avvenuti altri fatti gravi. Dice Scarpinato: «Era certamente a conoscenza di altre parti mancanti del gioco grande. Nella sua cella fu trovato un biglietto in cui faceva allusioni a strani suoi rapporti con i servizi». E conclude con una metafora: «Riina e Provenzano sono come i bravi dei Promessi Sposi. Non si può raccontare la storia dei Promessi sposi tagliando fuori don Rodrigo. Riina e Provenzano sono figli di don Rodrigo. E finché questo Paese vedrà calcare la scena di tanti don Rodrigo dovremo convivere con i loro bravi. I quali a volte si montano la testa e possono mandare il mondo sotto sopra. Quella della mafia, tranne la parentesi corleonese, è la storia di una componente della classe dirigente che ha sempre avuto un rapporto irrisolto con la violenza e con la legalità».
Palermo, 23 maggio 2012
I primi a registrare l’esplosione sono i sismografi dell’istituto di geofisica di Monte Cammarata, nell’Agrigentino. Siamo nel 1992. Nel pomeriggio del 23 maggio Giovanni Falcone e la moglie, Francesca Morvillo, dopo essere atterrati a Punta Raisi, sono saliti su un’auto blindata e stanno viaggiando in autostrada verso Palermo, scortati da due macchine della polizia. Alle 17,56 e 48 secondi, quando il piccolo convoglio è in prossimità di Capaci, le apparecchiature di Monte Cammarata segnalano una scossa. In realtà è una deflagrazione terrificante. Cinquecento chili di esplosivo infilato in un cunicolo sotto l’asfalto hanno fatto una strage: hanno aperto un cratere profondo tre metri e mezzo, facendo schizzare le auto come birilli. Solo da una sono usciti illesi tre uomini. S’è anche salvato l’autista di Falcone. Ma per gli altri non c’è stato niente da fare. Con il giudice e la sua consorte sono morti gli agenti Rocco Dicillo, Antonio Montinaro e Vito Schifani. Nove i feriti, di cui cinque cittadini comuni. Per avere ideato l’eccidio saranno riconosciuti colpevoli dalla Corte d’Assise di Caltanissetta Totò Riina e Bernardo Provenzano, i capi corleonesi della mafia. E con sentenza d’appello, nell’aprile 2000, fioccheranno gli ergastoli contro gli esecutori materiali della strage. Ma chi erano i mandanti a volto coperto di Capaci? «È solo mafia questa? Non ha anche il marchio atroce e inumano del terrorismo? Chi ci può essere dietro questo atto di guerra?», dirà a Montecitorio il presidente della Camera, Oscar Luigi Scalfaro, che il 25 maggio 1992 sarà eletto capo dello Stato sbarrando la strada al principale aspirante al Quirinale, Giulio Andreotti.
L’ipotesi che i mandanti fossero esterni a Cosa nostra, ancorché priva di riscontri processuali, continua ad essere oggetto di accertamenti dopo le rivelazioni degli ultimi collaboratori di giustizia. Spiega il Procuratore generale di Caltanissetta, Roberto Scarpinato, che lavorò con Falcone alla Procura di Palermo fino a che questi non si trasferì a Roma come direttore degli Affari penali del ministero della Giustizia: «I fatti sono più complessi e rientrano in quello che Falcone chiamava “il gioco grande”, espressione con la quale alludeva al gioco grande del potere di cui il sistema mafioso è stato coprotagonista fin dall’unità d’Italia. L’idea che da una parte vi siano i buoni, i rappresentanti dell’antimafia, e dall’altra i soliti noti, brutti e cattivi, cioè i Riina e i Provenzano, è una semplificazione nella quale chi, come me, ha vissuto quelle vicende non si riconosce. La storia di Giovanni Falcone, di Paolo Borsellino e di coloro che li hanno preceduti è uno spinoso affare di famiglia interno alla classe dirigente». Una storia che ha alle spalle una scia di sangue e che comincia nei primi anni 80 con gli omicidi del procuratore capo di Palermo Gaetano Costa e del consigliere istruttore Rocco Chinnici. Sono entrambi delle avanguardie che fanno da rompighiaccio all’interno di un palazzo di giustizia dove opera una magistratura ripiegata su una tranquilla routine burocratica e talora in consonanza culturale con la mafia. Chinnici racconta nei suoi diari delle pressioni subite, dentro e fuori del palazzo di giustizia, per fare in modo che Falcone, che lavorava con lui all’ufficio istruzione, fosse distolto dalle indagini sui colletti bianchi. Collaboratori come Giovanni Brusca, il quale azionò il radiocomando che fece esplodere il tritolo di Capaci, «hanno raccontato che l’ordine di uccidere Chinnici era venuto dal mondo superiore dei colletti bianchi e cioè dai cugini Salvo», aggiunge Scarpinato.
È su questa scia di sangue che Falcone e Borsellino proseguono le loro inchieste dopo gli omicidi Costa e Chinnici. Continua Scarpinato: «Essi si insinuano in una storia difficile, in cui alcuni cadono perché hanno osato alzare il livello delle indagini. Se espungiamo questa parte del racconto, restano sul campo solo i Riina e i Provenzano». Falcone e Borsellino riscuotono consenso fintantoché nel mirino del pool c’è solo la mafia militare, che con il maxiprocesso subisce condanne esemplari. Il loro isolamento scatta quando cominciano a indagare sui piani alti del potere. Con l’arresto dell’ex sindaco di Palermo Vito Ciancimino, il 3 novembre 1984, e con quelli di Antonino e Ignazio Salvo, imprenditori legati alla Dc, detentori del monopolio delle esattorie, «quel consenso – dice ancora Scarpinato – viene progressivamente ritirato e comincia una campagna mediatica di delegittimazione tendente a rappresentare Falcone e Borsellino come soggetti nei quali non ci si poteva identificare o perché pedine del Partito Comunista o perché ammalati di protagonismo. Ci sono i diari ai quali Falcone affidò tutta la sua amarezza per essere stato emarginato all’interno della Procura e c’è l’agenda rossa, mai ritrovata dopo la strage di Via D’Amelio, in cui Borsellino annotava l’indicibile».
Falcone non doveva occuparsi d’altro che di mafia militare e lasciar perdere le indagini sui colletti bianchi: questo era il messaggio che veniva dall’alto. E quando cercò di capire le eventuali connessioni tra gli omicidi eccellenti e la Gladio (la struttura paramilitare segreta, creata per contrastare l’avanzata della sinistra) gli fu impedito di farlo. Nella sua agenda elettronica c’è un appunto su una richiesta di incontro ai magistrati romani che seguivano quella pista. Prosegue Scarpinato: «Falcone aveva preso degli appuntamenti in seguito a un esposto della parte civile del processo La Torre (il segretario regionale del Pci assassinato da Cosa nostra, ndr) da cui emergevano possibili collegamenti tra Gladio e questo omicidio. Ma l’allora procuratore capo di Palermo, Pietro Giammanco, li disdisse».
Subisce la stessa emarginazione Borsellino. Commenta Scarpinato: «Ricordo che gli era stato inibito di occuparsi di certi processi e ricordo il braccio di ferro in Procura per impedirgli di parlare con Gaspare Mutolo dopo la morte di Falcone. Quando gli viene data la possibilità di ascoltarlo, Mutolo gli anticipa che intende parlare di Bruno Contrada. Ma da lì a poco Borsellino viene eliminato».
Diversi fatti avvalorano la tesi dei mandanti occulti dietro Capaci e Via D’Amelio. Due giorni prima del 23 maggio una piccola agenzia di stampa vicina ai servizi (Repubblica) dà l’annuncio di un grande “botto”. Poco prima dell’omicidio Lima, il neofascista Elio Ciolini, coinvolto nelle indagini sulla strage di Bologna, parla dell’inizio di una stagione stragista. E non meno inquietante è il suicidio in carcere per impiccagione di Antonino Gioè, che contribuì a collocare l’esplosivo nel cunicolo sotto l’autostrada. Come riferirono alcuni collaboratori, Gioè annunciò che dopo Capaci sarebbero avvenuti altri fatti gravi. Dice Scarpinato: «Era certamente a conoscenza di altre parti mancanti del gioco grande. Nella sua cella fu trovato un biglietto in cui faceva allusioni a strani suoi rapporti con i servizi». E conclude con una metafora: «Riina e Provenzano sono come i bravi dei Promessi Sposi. Non si può raccontare la storia dei Promessi sposi tagliando fuori don Rodrigo. Riina e Provenzano sono figli di don Rodrigo. E finché questo Paese vedrà calcare la scena di tanti don Rodrigo dovremo convivere con i loro bravi. I quali a volte si montano la testa e possono mandare il mondo sotto sopra. Quella della mafia, tranne la parentesi corleonese, è la storia di una componente della classe dirigente che ha sempre avuto un rapporto irrisolto con la violenza e con la legalità».
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